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Il danno tanatologico o da morte immediata.

[:it]Il “danno tanatologico” va ricondotto nella sfera del danno morale, nella sua più ampia eccezione, ossia come sofferenza del soggetto che assiste in maniera cosciente al proprio decesso.

Sul punto la più autorevole giurisprudenza insegna, che il danno cosiddetto “danno tanatologico” o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia eccezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita e, quindi, può essere tale solo quello della vittima che sopravviva almeno per un apprezzabile lasso di tempo dopo il sinistro e prima dell’esito finale.

Ecco allora che la domanda di risarcimento del danno da “perdita del diritto alla vita” o danno tanatologico, proposta jure hereditatis dagli eredi del de cuius, non è ammissibile quando, il verificarsi dell’evento letale avviene immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo, atteso che questo comporta la perdita del bene giuridico della vita in capo al soggetto che non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, poi trasferibile agli eredi.

Sul punto vi sono state anche sentenze piuttosto recenti e tra queste si può ricordare, in particolare, tra i giudici di merito il Tribunale di Rovigo nella quale testualmente si legge “… il danno non patrimoniale jure ereditario non può essere riconosciuto … perché A.R. ha sofferto intensamente per meno di un’ora … circostanza che, sebbene toccante sotto il profilo “morale”, non integra i presupposti richiesti dal Supremo Collegio per ritenere entrata nella sfera giuridica del soggetto leso il diritto di credito: un apprezzabile lasso di tempo …”.[1]

Per concludere, in ipotesi come quella suddetta, un unico danno potrebbe essere individuato, vale a dire quello consistente nella sofferenza subita dai parenti della vittima per il decesso del loro congiunto.

In merito si è pronunciata recentemente la Suprema Corte che ha confermato un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale.

La lesione del diritto alla salute si concretizza allorquando il soggetto rimanga in vita menomato e solo quando tra l'evento lesivo e la morte corra un lasso di temporale da fare maturare il diritto al risarcimento, trasmissibile di conseguenza agli eredi. Di conseguenza il risarcimento del danno tanatologico "iure hereditatis" non si configura allorquando la morte insorge immediatamente come conseguenza delle lesione, non concretizzandosi in questo caso, una lesione del bene giuridico della salute”.[2]

RIASSUMENDO

  • il “danno tanatologico” o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia eccezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita
  • la domanda di risarcimento del danno da “perdita del diritto alla vita” o danno tanatologico, proposta dagli eredi del de cuius, non è ammissibile quando, il verificarsi dell’evento letale avviene immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo
  • in caso di decesso immediato ovvero quasi immediato danno che potrebbe essere individuato in capo ai parenti della vittima, consisterebbe nella danno derivante dalla sofferenza subita dagli stessi per il decesso del loro congiunto

[1] Tribunale di Rovigo – Sez. Dist. Di Adria – 02.03.2010

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Clint Eastwood

Onere della prova in caso di richiesta di inadempimento. Sezioni Unite e orientamenti minoritari.

[:it]In tema di responsabilità civile, la questione avente ad oggetto l'onere della prova del creditore che agisce al fine di chiedere l’inadempimento dell’obbligazione, ha visto impegnato fortemente la Giurisprudenza e la Dottrina, soprattutto prima dell'avvento della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che sono intervenute al fine di
definire un contrasto giurisprudenziale.

Si ricordano brevemente i due orientamenti:

Quello maggioritario  sosteneva che il creditore è onerato di provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione della quali esso assume giuridica rilevanza, rimanendo pertanto in capo al convenuto la mera prova dell’assenza da colpe, solamente qualora l’attore abbia effettivamente provato il fatto costitutivo dell’inadempimento.[1]

Tale orientamento si basava principalmente sulla distinzione tra i rimedi previsti dall’art 1453 c.c. (adempimento, risoluzione, risarcimento del danno). Si osservava che mentre nell’azione di adempimento il fatto costitutivo è il titolo, nell’azione di risoluzione, invece, i fatti costituitivi sono due: il titolo e l’inadempimento. Pertanto, le prove richieste ex art. 2697 c.c. sono differenti in quanto fatti costitutivi sono a loro volta differenti. Nel primo caso, quindi sarà sufficiente la prova della fonte negoziale o legale del diritto di credito, nel secondo caso sarà necessario la prova sia del titolo che dell’effettivo inadempimento del debitore.

La tesi minoritaria, invece, affermava che l’onere probatorio in capo al creditore risulti essere uguale indipendentemente dall’azione da questi promossa. Nello specifico, il creditore ex art. 2697 c.c. deve provare semplicemente la fonte negoziale o legale del proprio diritto, mentre sarà il creditore ad essere onerato alla prova del fatto estintivo di tale diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.

Suddetta tesi era fondata sul fatto che le domande di adempimento, di risoluzione per inadempimento e la domanda di risarcimento del danno da inadempimenti si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito appunto dall’inadempimento. Tale omogeneità comporta che il principio della presunzione di persistenza del diritto, di cui all’art. 2697 c.c., in base al quale una volta provata l’esistenza da parte del creditore di un diritto, grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo debba applicarsi a ognuna delle fattispecie elencate nell’art. 1453 c.c.

Le Sezioni Unite con sentenza del 2001 n. 13533 aderivano all’orientamento minoritario affermando anche che “si rileva conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditoreo a reagire all'inadempimento, senza peraltro penallizzare il diritto di difesa del debitore adempiente , fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nellacui sfera si è prodotto l’inadempimento”[2]

Si rileva comunque che recentemente sono intervenute alcune sentenze di Tribunali che, in controtendenza della ormai abbastanza datata sentenza delle Sez. Un. vanno ad affermare che “qualunque sia il fondamento della pretesa risarcitoria avanzata dall'attore, è indubbio che gravi su chi invoca il risarcimento del danno provare non solo l'evento dannoso, ma soprattutto la sua riconducibilità sul piano causale al fatto illecito altrui.”[3]

RIASSUMENDO

  • secondo le Sez. Un. della Cassazione In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento
  • si riscontrano esserci delle sentenze che recentemente hanno affermato che In tema dell’onere della prova, a carico del creditore che agisce per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno, vi è non solo la prova dell’adempimento della propria obbligazione, ma anche la prova dell’esatto adempimento e, quindi, sembrerebbe applicabile anche alle ipotesi di vizi o difformità dell’opera, in quanto riconducibili alla categoria dell’inesatto adempimento

[1] Si veda ad esempio, Cass. Civ. 4285-94; 8336-90; 8435-96;124-70

[3] Tribunale Novara, 27/04/2010, n. 435 (nel caso di specie, il proprietario di un autoveicolo che si è incendiato non ha provato che l'incendio è stato determinato da un difetto di funzionamento dell'autoveicolo e/o da un vizio occulto e/o da una problematica dei congegni della vettura riconducibili al venditore); Cfr. Tribunale Nocera Inferiore, sez. I, 07/02/2012, “In tema dell’onere della prova, a carico del creditore che agisce per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno, vi è non solo la prova dell’adempimento della propria obbligazione, ma anche la prova dell’esatto adempimento e, quindi, sembrerebbe applicabile anche alle ipotesi di vizi o difformità dell’opera, in quanto riconducibili alla categoria dell’inesatto adempimento.

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Diritto dell'internet II. Il marchio ed il TLD.

[:it]Il nome a dominio è costituito da un Top Level Domain (TLD) e da un Secondo Level Domain (SLD). IL TLD può essere essenzialmente di due tipi, generico (gTLD) (quando è atto a distinguere, in linea di massima, il settore di operatività - a titolo esemplificativo, .com per le attività commerciali e .org per le organizzazioni no profit) o geografico - country code Top Level Domain (ccTLD) (quando è atto a segnalare la localizzazione «virtuale» dell'elaboratore).

Si consideri, che non vi è nessuna garanzia che, in concreto, ad un dominio geografico, per esempio .it per l'Italia, .fr. per la Francia e così via, corrisponda effettivamente un elaboratore situato nel territorio evocato dal ccTLD.

L’assegnazione del nome a dominio viene svolta da organismi che hanno il compito di stabilire le procedure di iscrizione dei domini e di assegnare questi ai soggetti richiedenti contraddistinti dal Country code “.it”. Ogni stato ha i propri organi addetti a tali funzioni e ogni singolo paese opera in maniera indipendente essendo i diversi stati contraddistinti dai propri Country code (.de, .fr, .nl, .be). Sarà pertanto possibile che lo stesso domain name venga usato da soggetti distinti in diversi Stati e che gli indirizzi si diversifichino solamente  per il Country Code (p.e. “www.esempio.it” e www.esempio.de”). Sulla base di quanto sovresposto,  essendo internet una piattaforma mondiale, regolata da organi Statali indipendenti, è evidente che i rischi e le occasioni di confusione tra nomi a dominio utilizzati da titolari di marchi operanti in diversi parti del globo, saranno sempre più numerosi e frequenti.

Ci si chiede pertanto se il titolare di un marchio registrato in Italia possa agire al fine di impedire ad un terzo l’utilizzo di un nome a dominio contenente il marchio della propria impresa, qualora questo sia caratterizzato da un TLD differente (es. www.abcd.it ed www.abcd.fr).

Anche in tal caso bisogna fare una distinzione tra marchi rinomati e marchi non rinomati

 a)   casi di marchio rinomato

Secondo dottrina e giurisprudenza  nel caso di marchio di alta rinomanza, il problema del TLD non sembra neppure porsi, poiché la contraffazione del segno è anche in questo caso in re ipsa legata alla registrazione del nome a dominio, indipendentemente dal TLD che esso abbia e anche in assenza di un uso effettivo.[1]

b)   casi di marchio non rinomato

Nei casi di marchio per così dire sic et simpliciter, non pare sostenibile affermare che il titolare di un marchio registrato, non noto né tantomeno notorio, possa opporsi alla registrazione di un nome a dominio uguale o simile, ma con TLD differente (es. .it e .de).

Infatti, poiché la legge sui marchi trova applicazione solo in ambito nazionale, il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale e non può pertanto impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome a dominio uguale o simile al suddetto marchio, ma con il TLD differente.

Ad ogni modo si deve ritenere che qualora il terzo registri il domain name all’estero al fine di indirizzare gli utenti verso il proprio sito nel quale di fatto pubblicizza o vende determinati beni o servizi concorrenziali, in tal caso risulta irrilevante il territorio nel quale il segno cotraffattivo viene immesso in rete (es. formaggitaliani.it e formaggitaliani.com).

Atteso, infatti, il carattere globale del sistema di comunicazione Internet  ciascun utente, anche italiano potrà collegarsi al sito corrispondente al domain name in ipotesi confondibile con il marchio registrato.[2]

Si può quindi ritenere che “il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale, e non può impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome di dominio uguale o simile al suddetto marchio all’interno di un TLD geografico o tematico [differente], salvo che dall’uso che ne viene fatto per offrire in vendita o pubblicizzare beni o servizi, si determini una violazione del diritto”.[3]

Per concludere, quindi, si ritiene che il titolare di un Marchio italiano non può impedire ad un terzo l’utilizzo di un domain name confondibile con il suddetto marchio se riporta un TLD differente, almeno che tale registrazione abbia violato il diritto del titolare all’utilizzo del marchio, poiché atta ad indirizzare gli utenti ad un sito web nel quale vengono offerti o pubblicizzati beni o servizi identici, simili o affini.

Sulla base di quanto esposto, si ritiene comunque necessario, data la complessità e la specificità della disciplina, che tale parere venga utilizzato quale linea guida e che le singole fattispecie vengano analizzate in maniera specifica.

RIASSUMENDO
  • il TLD può essere essenzialmente di due tipi, generico (gTLD) (quando è atto a distinguere,  il settore di operatività (.com), le attività commerciali (.org) o geografico  (country code Top Level Domain ccTLD) quando è atto a segnalare la localizzazione «virtuale» dell'elaboratore (.it, .de)
  • ci si chiede pertanto se il titolare di un marchio registrato in Italia possa agire al fine di impedire ad un terzo l’utilizzo di un nome a dominio contenente il marchio della propria impresa, qualora questo sia caratterizzato da un TLD differente (es. www.abcd.it ed www.abcd.fr)
  • nei casi di marchio rinomato il problema del TLD non sembra neppure porsi, poiché la contraffazione del segno è anche in questo caso in re ipsa legata alla registrazione del nome a dominio, indipendentemente dal TLD che esso abbia e anche in assenza di un uso effettivo
  • nei casi di marchio non rinomato si può quindi ritenere che “il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale, e non può impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome di dominio uguale o simile al suddetto marchio all’interno di un TLD geografico o tematico [differente], salvo che dall’uso che ne viene fatto per offrire in vendita o pubblicizzare beni o servizi, si determini una violazione del diritto”

[2] Tribunale di Reggio Emilia 30.5.2000 (ordinanza)

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Wall Street

Compravendita di partecipazione sociale e garanzie del venditore (di Valerio Sangiovanni).

[:it]Per gentile concessione dell’autore Valerio Sangiovanni e della casa editrice Ipsoa Wolters Kluwer si riproduce l’articolo apparso in Notariato, 2012, pp. 203-213]

di VALERIO SANGIOVANNI

 Le garanzie che il venditore offre all’acquirente delle partecipazioni sociali rappresentano, normalmente, uno degli elementi centrali dei contratti di compravendita di azioni o quote. La materia è di grande rilevanza pratica, risultando oggetto - frequentemente - di snervanti trattative fra le parti. A fronte di una simile importanza della tematica, colpisce la circostanza che la questione delle garanzie nei contratti di cessione/acquisizione risulti relativamente poco trattata sia in giurisprudenza sia in dottrina, anche se probabilmente la presenza di poche decisioni giurisprudenziali è ascrivibile al fatto che le liti sul punto vengono generalmente risolte per via arbitrale. In questo articolo ci occuperemo di tale materia, soffermandoci infine sulle tipologie di clausole che consentono di limitare la responsabilità del venditore.

1. Il contratto di compravendita di partecipazioni sociali

Il contratto di compravendita di partecipazioni sociali[1] è il contratto con il quale un primo soggetto vende (profilo della “cessione”) e un secondo soggetto acquista (profilo della “acquisizione”) una partecipazione sociale[2]. In tale contratto è del tutto usuale che il venditore offra delle garanzie espresse a favore dell’acquirente (concernenti non solo la partecipazione compravenduta in sé e per sé considerata, ma anche – e soprattutto - le caratteristiche sostanziali della società sottostante), ed è su questo profilo – di grande rilevanza pratica - che ci si vuole soffermare in questo articolo[3].

Assumendo che il contratto di trasferimento delle partecipazioni sia assoggettato al diritto italiano (una scelta diversa potrà essere operata, ad esempio, quando una delle parti è straniera)[4], esso va qualificato come contratto di compravendita, essendone soddisfatta la nostra definizione legislativa di contratto con cui si trasferisce la proprietà di una cosa o un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 c.c.): il bene oggetto di trasferimento sono le azioni o quote della società (e solo indirettamente, e pro quota, le attività e passività della società), mentre il prezzo è il corrispettivo che viene pagato dall’acquirente. Il contratto di cessione/acquisizione è un comune contratto di compravendita caratterizzato dal fatto che il bene compravenduto è una partecipazione sociale.

La qualificazione del contratto di acquisizione come compravendita spiega, a livello terminologico, la circostanza che talvolta a esso ci si riferisca – nella prassi - denominandolo appunto contratto di compravendita. Più frequente, peraltro, è l’uso di termini quali “cessione” oppure “acquisizione”. Tuttavia l’“acquisizione” altro non è che il medesimo trasferimento delle quote o delle azioni visto dalla prospettiva della parte opposta a quella che “cede”. In definitiva “cessione” e “acquisizione” sono da considerarsi sinonimi, e il meccanismo di trasferimento viene bene espresso dall’unico termine di “compravendita”, che comprende tutti e due i profili.

Con riferimento all’oggetto della compravendita non appare invece corretta l’espressione, seppure essa sia ricorrente nella prassi, di “acquisto di una società”: difatti il contratto non concerne la società, ma solo la partecipazione che un socio detiene nella società. Anche se l’acquisto di azioni o quote implica, nella relativa misura percentuale, l’acquisto delle attività e passività pertinenti alla società, ciò avviene solo indirettamente. Corretta appare pertanto la distinzione, utilizzata dalla giurisprudenza e su cui torneremo nel prosieguo, fra oggetto “immediato” dell’acquisto (la partecipazione sociale) e oggetto “mediato” dell’acquisto (le attività e le passività rientranti nella società).

A dire il vero, l’utilizzo nella prassi di espressioni quali “contratto di cessione” oppure “contratto di acquisizione” determina malintesi non solo di carattere linguistico, ma anche di natura sostanziale. Si afferma difatti talvolta in dottrina che il contratto di “cessione” o “acquisizione” non sarebbe uno dei contratti nominati disciplinati espressamente nel nostro ordinamento. Il dibattito sulla natura del contratto di cessione o acquisizione di partecipazioni sociali appare in realtà sostanzialmente inutile: difatti tale contratto non può considerarsi atipico, dovendo invece essere qualificato semplicemente come “vendita”. Il contratto potrebbe essere pacificamente denominato dalle parti “contratto di vendita”; ciò che è particolare - nel contratto di cessione/acquisizione - è solo il suo oggetto, consistente in una partecipazione sociale.

Se il contratto di trasferimento delle partecipazioni sociali va qualificato come contratto di vendita, bisogna allora porre attenzione alle disposizioni che disciplinano le garanzie in tale tipo contrattuale, con particolare riferimento all’art. 1490, comma 1, c.c., secondo cui il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Qual è, nel contesto specifico delle acquisizioni di partecipazioni, la “cosa” venduta? Come si è cercato di evidenziare, l’oggetto del contratto è rappresentato - direttamente - dalla partecipazione sociale (e solo indirettamente dalle attività e passività ricomprese nella partecipazione). Il reale problema delle garanzie concerne peraltro non la partecipazione in sé considerata, ma le attività e passività che l’acquisto della partecipazione porta, pro quota, con sé. Avuto riguardo all’oggetto “mediato” della compravendita (attività e passività), è affermazione ricorrente quella secondo cui le disposizioni sulle garanzie nel contratto di vendita sono eccessivamente favorevoli all’acquirente e, per tale ragione, non particolarmente adatte all’ambito delle acquisizioni societarie. Nel contesto di queste operazioni è usuale cercare un maggiore equilibrio fra la posizione del venditore e quella del compratore. Con il contratto di compravendita di partecipazioni sociali il venditore fa il possibile al fine di limitare le garanzie che offre all’acquirente con riferimento alle attività e passività della società. Tale limitazione di garanzia, peraltro, è assoggettata a una precisa condizione di efficacia, dal momento che il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa (art. 1490, comma 2, c.c.).

2. L’attività di due diligence e il flusso preliminare d’informazioni

Abbiamo visto che chi compra una partecipazione sociale compra, direttamente, solo delle azioni o delle quote. Acquisendo però la qualità di socio, entra a far parte di una società che presenta attività e passività. Il problema principale per l’acquirente è che, essendo generalmente – prima dell’acquisto - un soggetto estraneo alla società, non ne conosce le caratteristiche. Laddove comprasse la partecipazione senza accurate verifiche preliminari, si potrebbe trovare esposto a sorprese negative rispetto alle sue aspettative (laddove certe attività fossero sopravvalutate o addirittura inesistenti oppure certe passività fossero sottovalutate o addirittura nascoste). La quantità d’informazioni di cui un soggetto esterno alla società dispone è normalmente insufficiente al fine di garantire un’appropriata valutazione dei rischi conseguenti all’acquisto.

Al fine di ridurre i rischi connessi con l’acquisto di partecipazioni sociali, la sottoscrizione del contratto di compravendita della partecipazione sociale è generalmente preceduta da una c.d. “due diligence[5]. L’espressione “due diligence”, di origine anglosassone, può essere tradotta – letteralmente – con “diligenza dovuta”: si tratta della diligenza che un avveduto acquirente utilizza nell’effettuare tutte le necessarie verifiche prima di acquistare una partecipazione. Nella prassi al compratore viene normalmente data l’opportunità di effettuare una serie di controlli sulla società bersaglio: l’attività di due diligence può essere svolta direttamente dall’acquirente oppure, più frequentemente, incaricando degli esperti esterni.

Un punto che viene raramente sottolineato è che l’attività di due diligence implica anche la collaborazione della società le cui partecipazioni si vogliono acquisire, la quale deve mettere a disposizione il materiale richiesto sulla base di un apposito elenco. Questa attività di preparazione del materiale è di competenza degli amministratori della società bersaglio.

Può capitare che, a fronte di un socio che intende vendere la propria partecipazione, non vi sia collaborazione da parte della società nel mettere a disposizione del potenziale acquirente le informazioni richieste. Questo problema non si pone quando il socio è anche amministratore della società, potendo – in tale qualità – avere accesso diretto alle informazioni e, in linea di principio, trasmetterle ai terzi. In alcuni casi, però, il socio non riveste alcuna carica amministrativa.

Il problema del possibile conflitto fra socio e società deve allora essere affrontato dal socio esercitando il suo diritto d’informazione nei confronti della società. Mediante l’esercizio di tale diritto, il socio raccoglie il materiale da mettere poi a disposizione del potenziale acquirente. Sul punto va peraltro operata una distinzione fra la s.r.l. e la s.p.a.: come è noto, mentre nel primo tipo societario è riconosciuto un ampio diritto del quotista all’informazione (art. 2476, comma 2, c.c.)[6], nella s.p.a. manca una disposizione che preveda un così esteso diritto d’informazione dell’azionista. L’art. 2422 c.c. consente agli azionisti di fare poco: solo di esaminare il libro dei soci e quello delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee. Il legislatore tiene in considerazione la differente natura dei due tipi societari e, conseguentemente, struttura diversamente il diritto di informazione-controllo. In una società che si assume di norma con pochi soci, come la s.r.l., il diritto di controllo è riconosciuto con ampiezza; viceversa in un tipo societario come la s.p.a., che – in ipotesi – può presentare una compagine sociale ampia, viene maggiormente tutelata la riservatezza. Ne consegue che, mentre nella s.r.l., il quotista può agevolmente raccogliere le informazioni da dare al potenziale acquirente, nella s.p.a. non è affatto pacifico che l’azionista possa conseguire tale risultato.

Nella s.p.a. il problema della mancanza di un ampio diritto di controllo-informazione dell’azionista può essere risolto ricostruendo un dovere d’informazione in capo agli amministratori derivante dal generale obbligo di comportarsi secondo buona fede nell’espletamento del mandato nell’interesse della società[7]. Ne consegue che, laddove la richiesta del socio non sia contraria all’interesse sociale, i gestori vi devono dare seguito. Al fine di evitare danni in capo alla società, è peraltro sicuramente consigliabile far precedere la trasmissione d’informazioni dalla sottoscrizione di un accordo di riservatezza, con il quale il terzo si impegna a non divulgare e a non utilizzare ciò di cui viene a conoscenza.

Comunque anche nella s.r.l., pur in presenza di un ampio diritto di controllo del quotista stabilito direttamente dalla legge, possono sorgere conflitti fra il socio e gli amministratori in riferimento all’esercizio del diritto d’informazione quale strumento per consentire - poi - a terzi l’accesso a dati e notizie. Permettere a terzi l’accesso alla documentazione della società può essere rischioso nei casi in cui il terzo sia portatore d’interessi in conflitto con quelli della società, ad esempio nell’ipotesi in cui sia in corso un contenzioso oppure si tratti di un’impresa che svolge attività concorrenziale. Può pertanto capitare che gli amministratori si oppongano alla richiesta d’informazioni avanzata dal socio.

Tornando a occuparci del caso standard (quello in cui non vi è alcun ostacolo interno nel mettere a disposizione del potenziale acquirente le informazioni sulla società), si può rilevare che - tradizionalmente - la documentazione oggetto di due diligence veniva predisposta in formato cartaceo e veniva resa accessibile per un certo lasso di tempo in un ambiente a tal proposito predisposto (di qui l’espressione “data room”: stanza dei dati). In tempi recenti è più frequente la messa a disposizione delle informazioni in modalità virtuale, cui il compratore può accedere – sempre per un limitato lasso di tempo – per via elettronica.

La due diligence può avere un oggetto più o meno ampio a seconda dei casi: i tipi di verifica più comuni sono quelli finanziario, fiscale e legale. All’esito dell’attività di due diligence, viene generalmente preparata una relazione scritta – indirizzata al potenziale acquirente della partecipazione – nella quale vengono descritti i principali rischi che l’acquisto delle quote/azioni comporta.

Lo scopo della due diligence è duplice. Da un lato, essa ha finalità meramente informativa per l’acquirente: conoscere meglio le caratteristiche della società bersaglio. Da un altro lato la due diligence ha un obiettivo specifico, consistente nell’identificare i rischi che la target presenta. Una volta identificati tali rischi, spetta alle clausole del contratto di compravendita predisporre adeguata tutela. Vi è pertanto uno stretto legame fra l’attività di due diligence e il contenuto del successivo contratto.

L’attività di due diligence viene talvolta riflessa in un’apposita clausola del contratto di acquisizione. Grazie alla verifica preliminare sulla target, l’acquirente è venuto a conoscenza delle caratteristiche della società di cui vuole acquisire una partecipazione, comprese le criticità che la riguardano: ciò gli consente di determinare (e concordare con la controparte) il “giusto” prezzo della partecipazione. Il venditore non vuole che il compratore possa, successivamente al perfezionamento dell’acquisizione, attivare garanzie che gli permettono di conseguire un risarcimento (economicamente equivalente a una riduzione del prezzo). Al fine di conseguire un risultato del genere (per così dire di “stabilizzazione” del prezzo), il venditore insiste per l’inserimento in contratto di una clausola con la quale l’acquirente dichiara di avere effettuato accurati controlli sulla società e, al meglio delle sue conoscenze, di non avere riscontrato alcuna circostanza che gli potrebbe consentire di attivare una garanzia. Siffatta previsione impedisce comportamenti scorretti del compratore, il quale potrebbe in ipotesi – individuati in anticipo i vizi – tacere sui medesimi, per poi chiedere, appena perfezionato il contratto, il risarcimento.

3. Le garanzie più comuni nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali

È difficile fare un elenco delle garanzie normalmente contenute in un contratto di compravendita di partecipazione sociale: la prassi evidenzia considerevoli differenze da caso a caso. Molto dipende dalla competenza degli avvocati che assistono le parti. Rilevante è anche il livello di necessità, più o meno stringente, per una parte piuttosto che per l’altra di concludere velocemente il contratto: chi desidera giungere presto al perfezionamento dell’operazione tende a dare meno peso alle clausole di garanzia, le quali operano solo eventualmente.

Talvolta le clausole concernenti le garanzie sono scritte in modo particolarmente analitico: si tratta della tecnica contrattuale prediletta nei Paesi anglosassoni, dove i contratti si caratterizzano per essere particolarmente dettagliati. L’elencazione analitica delle garanzie è peraltro generalmente accompagnata oppure sostituita da clausole di chiusura con le quali si attesta un certo stato di fatto in modo sintetico. Con riferimento, ad esempio, alla materia del contenzioso, si può ripetere per ogni materia (ambientale, lavoro, rapporti con clienti e fornitori, ecc., ecc.) che non sussistono controversie fra la società e terzi; appare tuttavia più efficace limitarsi a una clausola generale che attesta l’assenza di qualsiasi lite.

Passando al contenuto delle clausole, una distinzione comune è quella fra le garanzie attinenti al “titolo” della partecipazione e le garanzie relative al “contenuto” della partecipazione.

Le clausole sul “titolo” sono quelle che si riferiscono direttamente alle caratteristiche della partecipazione e della target sotto il profilo societario: ad esempio il venditore garantisce di essere proprietario delle azioni o quote e che esse sono libere da qualsiasi diritto di terzi; oppure il venditore garantisce che la società è stata validamente costituita ed è validamente esistente secondo la legge nazionale che la disciplina. Le clausole sul titolo sono assolutamente usuali nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali e il venditore difficilmente potrà rifiutarsi di concedere dette garanzie all’acquirente. Siffatte clausole non sono generalmente soggette a limitazioni quantitative all’eventuale risarcimento del danno: anche laddove esistano delle soglie alla responsabilità del venditore, esse non si applicano a questa tipologia di garanzie, troppo basilari per essere oggetto di qualsivoglia limitazione.

Decisamente più importanti nella prassi, e pertanto oggetto di maggiori trattative[8], sono le garanzie relative al “contenuto” della partecipazione (attività e passività della società). Esse possono riguardare gli argomenti più diversi e variano da caso a caso, anche in dipendenza dal settore in cui la società è attiva.

Fra le garanzie più comuni nei contratti di acquisizione delle partecipazioni sociali si possono annoverare quelle in materia di bilancio[9]. Legate alle garanzie sul bilancio si possono citare quelle in materia tributaria, consistenti essenzialmente nell’affermazione che la società ha sempre adempiuto correttamente a tutti i suoi obblighi di tipo fiscale[10]. Sotto il profilo economico possono risultare importanti le garanzie in materia di rapporti di lavoro nonché di contribuzioni previdenziali e pensionistiche. Un altro gruppo di garanzie significative sono quelle relative ai rapporti contrattuali di cui è parte la società bersaglio[11]. A seconda delle circostanze possono avere significativa rilevanza pratica le garanzie in materia di proprietà intellettuale. La garanzia ambientale è piuttosto frequente, soprattutto laddove la società svolga un’attività manifatturiera o – comunque - facilmente portatrice di inquinamento. Un’altra clausola comune riguarda la sussistenza di tutte le autorizzazioni e concessioni amministrative richieste per l’esercizio dell’attività. Il catalogo delle garanzie comprende infine, di norma, quella sul contenzioso, intesa come esclusione della sussistenza di liti in corso.

Con l’attività di due diligence e con il contratto di compravendita l’acquirente cerca di assicurarsi contro i rischi conseguenti all’acquisto della partecipazione sociale, in particolare contro la probabilità, che – a seconda delle circostanze – può essere maggiore o minore, che si verifichi un danno in capo alla società. Tale nocumento ridurrebbe il valore della società e dunque, pro quota, anche delle azioni o quote acquisite. Laddove si sia verificato già prima della conclusione del contratto un certo danno (che dovrà allora, più correttamente, essere denominato “passività”), l’acquirente ne tiene conto ex ante, ossia nella determinazione del prezzo che è pronto a pagare per la partecipazione sociale. L’idea sottostante è che il compratore paga per le azioni o quote il loro “giusto” prezzo, cioè quello che riflette tutte le attività e passività che la società presenta al momento dell’acquisto.

Le garanzie contrattuali servono invece a tutelare l’acquirente rispetto a circostanze che non hanno ancora prodotto un danno al momento della sottoscrizione del contratto, ma che potrebbero produrlo nel prossimo futuro. Le probabilità, minori o maggiori, che subentri il nocumento dipendono ovviamente dalla circostanze del caso concreto. Mediante le clausole di garanzia il venditore si impegna ad accollarsi i danni che dovessero subentrare qualora si verifichi in futuro, entro un ragionevole lasso di tempo, l’evento dedotto in contratto.

Alcune volte il pericolo che si verifichi un danno è particolarmente elevato. Nel corso della due diligence possono essere stati individuati dei rischi concreti che possono produrre, nel breve periodo, il nocumento temuto dall’acquirente. Si pensi al caso in cui sui terreni di proprietà della società nella quale si vuole acquisire una partecipazione siano in corso delle verifiche per il sospetto di danni ambientali che potrebbero, laddove confermati, implicare un obbligo risarcitorio della società oppure si pensi all’ipotesi in cui la società sia parte di un contenzioso, in cui è convenuta in giudizio: se la causa verrà persa, la società sarà costretta a pagare una somma di danaro a un terzo. In casi del genere, il compratore ha individuato circostanze che potrebbero - a breve - determinare un danno. Non vi è al momento della conclusione del contratto un nocumento, ma le parti hanno consapevolezza che esso può presto realizzarsi. In una situazione del genere è difficile per l’acquirente insistere per una diminuzione del prezzo, in quanto il venditore argomenterà che il danno non si è ancora realizzato. Queste situazioni particolari (di rischio concreto e imminente) vengono generalmente risolte con una clausola di c.d. “indennità” (indemnity): si garantisce in contratto, con un’apposita pattuizione, che il venditore è tenuto a mantenere indenne il compratore con riferimento a qualsiasi pretesa di terzi legata a detto specifico evento. Le clausole di indemnity, proprio in quanto riferite a un pericolo di danno concreto e imminente, non sono assoggettate a limitazioni quantitative, diversamente dalle garanzie di tipo generico che andiamo ora a esaminare.

In aggiunta alle clausole di indemnity, i contratti di compravendita di partecipazioni sociali contengono di solito anche garanzie di tipo generico, atte a coprire pericoli di danno del tutto astratti nel momento in cui si sottoscrive il contratto. Si immagini il caso di una società svolgente attività manifatturiera, la quale – sulla base delle verifiche fatte in corso di due diligence - appare in regola con tutte le normative ambientali applicabili. L’acquirente può, ciò nonostante, insistere per l’inserimento in contratto di una clausola che garantisce tale stato di cose. Laddove, dopo l’acquisizione, risultasse che vi sono delle violazioni di tipo ambientale, la clausola potrà essere attivata dal compratore nei confronti del venditore al fine di ottenere il risarcimento del danno. Si tratta di clausole che coprono pericoli astratti, in cui il danno non solo non si è verificato ma – allo stato delle valutazioni delle parti - non è nemmeno probabile che si verifichi. In linea di principio il venditore non dovrebbe avere problemi a prestare il proprio consenso all’inserimento nel contratto di garanzie del genere, dal momento che è improbabile che l’evento dannoso si verifichi.

4. La risoluzione e l’annullamento del contratto

Cosa succede nel caso una garanzia contrattuale offerta dal venditore all’acquirente in un contratto di compravendita di partecipazioni sociali non venga rispettata? I rimedi previsti in generale dalla legge in presenza di vizi del bene sono la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo (art. 1492, comma 1, c.c.). Il problema è che questi rimedi, dettati per la compravendita in generale (e non per il caso particolare della compravendita di partecipazioni sociali), non sono di norma adatti alle esigenze dei soggetti coinvolti nelle acquisizioni societarie. Ciò vale specialmente per i rimedi “restitutori” (risoluzione del contratto, ma – come vedremo nel prosieguo - anche annullamento del medesimo).

Con riferimento alla risoluzione del contratto, si deve riflettere sul fatto che la relativa declaratoria avrebbe per effetto di porre nel nulla l’operazione di acquisizione. Ma le parti, se si muovono alla compravendita di una partecipazione, sono generalmente determinate a non tornare sui propri passi. Inoltre, dal momento che la risoluzione del contratto è un rimedio restitutorio, si dovrebbero ricreare la medesime condizioni precedenti all’acquisizione. Attesa la complessità dell’operazione, il rimedio risolutorio è generalmente poco adatto: le restituzioni richiederebbero tempi lunghi e costi elevati. Sotto alcuni profili un completo ripristino della situazione anteriore all’acquisizione può risultare impossibile, dal momento che l’impresa può – nel frattempo – avere subito significative modifiche non più reversibili. Volendo tracciare un parallelo, si pongono insomma nel contesto delle acquisizioni problemi simili a quelli che sussistono in materia di fusione. Qui il legislatore ha previsto espressamente che l’unico rimedio possibile è quello risarcitorio (art. 2504-quater c.c.) proprio perché la declaratoria d’invalidità della fusione implicherebbe restituzioni che, in realtà complesse come quella societaria, non sono ragionevolmente realizzabili[12].

In alternativa alla risoluzione del contratto, è possibile - per l’acquirente della partecipazione sociale - invocare l’annullamento.

L’annullamento può essere chiesto per dolo, quando il venditore ha volutamente dato informazioni non corrispondenti al vero oppure quando ha artatamente taciuto informazioni altrimenti determinanti per la prestazione del consenso dell’acquirente (art. 1439 c.c.)[13]. Nella prassi risulta peraltro difficile riuscire a ottenere l’annullamento del contratto per questa via, a causa delle difficoltà di provare il dolo del cedente[14]. Una considerazione simile vale per il dolo incidente, che legittimerebbe non tanto l’annullamento del contratto quanto piuttosto il risarcimento del danno (art. 1440 c.c.)[15].

Dal punto di vista operativo è invece più frequente che chi agisce in giudizio chieda l’annullamento del contratto per errore, sulla base dell’assunto che le informazioni fornite dal venditore – pur senza dolo - hanno determinato in capo all’acquirente una falsa rappresentazione della realtà inducendolo a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso. Secondo le regole generali, si deve trattare di errore essenziale (art. 1429 c.c.) e riconoscibile (art. 1431 c.c.).

Esaminando la giurisprudenza in materia di annullamento dei contratti di compravendita di partecipazioni sociali, emerge come l’errore più ricorrente sia quello che concerne la consistenza patrimoniale della società bersaglio. L’acquirente della partecipazione sociale paga un prezzo che riflette, in primo luogo, il patrimonio netto della società (attività dedotte le passività) e, in secondo luogo, generalmente un premio per il conseguimento della maggioranza (tale “premio” normalmente consiste in un multiplo degli utili realizzati nell’ultimo esercizio). La consistenza patrimoniale della società è dunque il dato di partenza che serve al compratore per “calcolare” il prezzo della partecipazione sociale. In questo contesto si possono verificare degli errori, tali da alterare la libera prestazione del consenso dell’acquirente. Si immagini il caso in cui viene ritenuto sussistere il capitale sociale, che è invece andato - in tutto o in parte - perso, oppure l’ipotesi che il patrimonio netto della società sia inferiore rispetto a quanto assunto. Se, diversamente da quanto affermato dal venditore, il capitale e/o il patrimonio non sussistono come promesso, l’acquirente subisce un danno, consistente nel fatto di pagare un prezzo eccessivo rispetto al valore assunto della partecipazione.

Bisogna però evidenziare che la giurisprudenza è titubante nel concedere il rimedio dell’annullamento del contratto per errore nel caso di una valutazione sbagliata da parte dell’acquirente sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società bersaglio. Come vedremo analizzando alcuni dei più recenti precedenti in materia, l’annullamento può essere ottenuto solo in presenza di un’apposita ed espressa garanzia in contratto sulla consistenza patrimoniale della società, non invece quando tale garanzia è mancante. In altre parole, la cessione pura e semplice di quote o azioni non implica alcuna garanzia sulle caratteristiche della società sottostante. Se l’acquirente desidera una tale garanzia, deve farsela rilasciare appositamente nel contratto di compravendita.

Fra i più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità sul problema dell’annullamento del contratto di compravendita di partecipazioni sociali può essere segnalata una sentenza della Corte di cassazione del 2008, secondo cui l’errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto (nel caso di specie una partecipazione sociale) non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto il difetto di qualità della cosa deve attenere solo ai diritti e obblighi che il contratto in concreto sia idoneo ad attribuire, e non al valore economico del bene oggetto del contratto, che afferisce alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un determinato accordo, sfera non tutelata con lo strumento dell’annullabilità, non essendo riconosciuta dall’ordinamento alcuna tutela rispetto al cattivo uso dell’autonomia contrattuale e all’errore sulle proprie personali valutazioni, delle quali ciascuno dei contraenti assume il rischio[16]. Si trattava di un caso in cui mancava nel contratto una specifica garanzia contrattuale circa la consistenza patrimoniale della società.

Non diversa è stata la soluzione fatta propria da una sentenza della Corte di cassazione di poco precedente (del 2007), la quale è partita dalla considerazione che la cessione delle azioni di una società di capitali ha come “oggetto immediato” la partecipazione sociale e solo quale “oggetto mediato” la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta[17]. Con riguardo alle azioni di società, le qualità delle stesse che, secondo il comune apprezzamento, devono ritenersi determinanti del consenso, devono limitarsi a quelle che attengono alla funzione tipica delle azioni, e cioè all’insieme delle facoltà e dei diritti che esse conferiscono al loro titolare nella struttura della società, senza alcun riguardo al loro valore di mercato. La disciplina di legge si ferma all’oggetto immediato (e cioè alle azioni oggetto del contratto), mentre non si estende alla consistenza e al valore dei beni costituenti il patrimonio, a meno che l’acquirente, per conseguire tale risultato, non abbia fatto ricorso a un’espressa clausola di garanzia, frutto dell’autonomia contrattuale, che consente alle parti di rafforzare, diminuire o escludere convenzionalmente la garanzia, in modo tale da ricollegare esplicitamente il valore delle azioni al valore dichiarato del patrimonio sociale. La Cassazione ne fa conseguire che l’errore sul valore della società, in assenza di apposita clausola in tal senso, non costituisce errore essenziale in grado di determinare l’annullamento del contratto. In caso di compravendita di azioni di una società - che si assume stipulata a un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore - senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, il valore economico dell’azione non rientra fra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., relativo all’errore essenziale. Pertanto non è configurabile un’azione di annullamento della compravendita basata su una pretesa revisione del prezzo tramite la revisione di atti contabili (bilancio e conto profitti e perdite) per dimostrare quello che altro non è che un errore di valutazione da parte dell’acquirente, anche quando il bilancio della società pubblicato prima della vendita sia falso e nasconda una situazione tale da rendere applicabili le norme in materia di riduzione e perdita del capitale sociale. La posizione assunta dalla Corte di cassazione in questa sentenza è particolarmente forte in quanto non fa bastare nemmeno la falsità del bilancio per ottenere l’annullamento del contratto di compravendita[18].

Alla luce di questi orientamenti giurisprudenziali, l’acquirente che voglia adeguatamente garantirsi deve insistere per l’inserimento - nel contratto di compravendita della partecipazione sociale - di un’apposita clausola sulla consistenza patrimoniale della società bersaglio. La prassi contrattuale mostra che tali pattuizioni sono del tutto comuni.

5. La riduzione del prezzo e il risarcimento del danno

Anche la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.) non costituisce di norma un rimedio adeguato al contesto delle acquisizioni societarie, in quanto è ragionevole assumere che il venditore si determini all’operazione facendo affidamento sulla valutazione della partecipazione che è stata concretamente effettuata, senza alcuna intenzione di rivedere ex post al ribasso il prezzo. In altre parole, il rischio che il venditore non vuole correre è quello che il compratore eccepisca violazioni di garanzie, subito dopo la conclusione del contratto, al fine di ottenere l’indebita restituzione di parte del prezzo pagato per la quote o azioni. Bisogna dire che, dal punto di vista strettamente economico, riduzione del prezzo e risarcimento del danno si assomigliano molto. Si supponga che la partecipazione venga venduta per 1.000.000 di euro e che, successivamente, venga chiesto un risarcimento di 100.000 euro: una volta che questa somma è stata restituita dal venditore all’acquirente, è come se il reale prezzo di acquisto della partecipazione sia stato – complessivamente - di 900.000 euro. L’effetto economico del risarcimento del danno consiste in una riduzione del prezzo di acquisto.

Nella prassi contrattuale è comune prevedere, per il caso di violazione delle garanzie contrattuali, il solo obbligo di risarcire il danno patito dall’acquirente. Vi è in contratto, normalmente, una clausola che esclude l’azionabilità di rimedi diversi da quello del risarcimento del danno, escludendo in particolare la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto e il suo annullamento. La clausola con cui si ottiene questo risultato è quella dell’“exclusive remedy” (rimedio esclusivo). In altre parole il contratto, dopo avere indicato quali sono le garanzie offerte dal venditore e avere stabilito che in caso di loro violazione spetta il risarcimento del danno, prevede che l’acquirente non può far valere alcun altro rimedio.

Le categorie di danno che il debitore può essere chiamato a risarcire sono varie. Il venditore ha invece interesse a limitare le tipologie di nocumento richiedibili dall’acquirente. Nelle trattative è pertanto usuale assistere a discussioni sui tipi di danno che il cedente assume l’obbligo di risarcire in caso di violazione delle garanzie.

Al riguardo la distinzione più importante è quella fra danno emergente e lucro cessante (art. 1223 c.c.), laddove – evidentemente – il venditore cercherà di limitare la sua responsabilità alla prima voce. Il problema del lucro cessante può risultare rilevante nel contesto delle acquisizioni sotto due profili: da un lato l’acquirente paga generalmente una somma a titolo di premio per l’acquisto della partecipazione (e ciò sulla base dell’assunto che la società sarà in grado di produrre utili anche in futuro), dall’altro lato il compratore mira comunque – indipendentemente dall’eventuale previsione di un prezzo di acquisto legato agli utili - a ottenere in futuro guadagni ancora maggiori grazie alla partecipazione che acquista (ad esempio grazie al raggiungimento di sinergie con imprese già detenute). Il rischio economico connesso a una responsabilità civile da lucro cessante può pertanto risultare particolarmente grave per il venditore.

Se si verifica una circostanza che legittima la richiesta di risarcimento del danno, l’acquirente - in assenza di clausole derogatorie, e dunque sulla base della disposizione generale del codice civile - potrebbe insistere per ottenere non solo il danno emergente, ma anche il lucro cessante. Si immagini il caso di un terreno comprato nel contesto dell’acquisizione, che si rivela poi essere inquinato e che richiede 100.000 euro di costi di bonifica; si immagini altresì che i lavori di bonifica impongano la chiusura dello stabilimento per 15 giorni, determinando mancati guadagni per 200.000 euro. A seconda di come sarà strutturata la clausola, l’acquirente potrà ottenere il risarcimento solo della perdita subita (100.000 euro) oppure anche del mancato guadagno (altri 200.000 euro). Di qui l’interesse del cedente a limitare in contratto la risarcibilità al solo danno emergente.

6. La durata delle garanzie

Nella prassi è raro che il venditore sia disponibile a offrire garanzie senza limitazione alcuna nel contratto di compravendita di partecipazioni sociali; è invece del tutto usuale che si inseriscano in contratto diversi limiti. Esistono delle tecniche contrattuali per limitare l’ampiezza della responsabilità del venditore derivante dalla violazione di garanzie.

Un primo modo per limitare la responsabilità del venditore ha a che fare con il fattore “tempo”.

Le garanzie sono contenute nel contratto di compravendita e dunque, in linea di principio, attestano circostanze sussistenti al momento della sottoscrizione di tale contratto. Il problema è che, di norma, il contratto non produce l’immediato effetto di trasferimento della titolarità delle partecipazioni, avendo effetti meramente obbligatori: con il contratto preliminare le parti si obbligano, al ricorrere di determinate condizioni, a concludere – in un momento futuro - il contratto definitivo di trasferimento delle partecipazioni. L’esigenza di separare i due momenti nasce dal fatto che normalmente occorre un certo tempo intermedio per porre in essere tutti gli adempimenti necessari alla realizzazione dell’operazione (il più frequente motivo per la separazione dei due passaggi è la necessità di ottenere, nel frattempo, il via-libera delle autorità antitrust). Alla sottoscrizione del contratto preliminare ci si riferisce usualmente con l’espressione inglese di “signing” (sottoscrizione), mentre al perfezionamento del contratto di trasferimento delle partecipazioni ci si riferisce con l’espressione di “closing” (perfezionamento o chiusura dell’operazione). Fra la conclusione del contratto di compravendita e l’atto notarile può passare un certo lasso di tempo (talvolta anche alcuni mesi). Mentre il venditore ha interesse a limitare la portata delle sue garanzie al momento della sottoscrizione del contratto, l’acquirente vorrebbe che tali garanzie sussistessero anche nel successivo momento in cui l’operazione si perfeziona con l’atto di trasferimento e il pagamento del prezzo. Generalmente il problema viene risolto nel senso di distinguere fra le dichiarazioni il cui contenuto dipende dal fatto del venditore e quelle che ne sono indipendenti: nel primo caso il venditore può garantire un certo fatto fino al closing, nel secondo caso solo fino al signing.

È comune, nei contratti di compravendita delle partecipazioni sociali, prevedere la durata delle garanzie[19]. Evidentemente venditore e acquirente, sul punto, hanno interessi contrapposti, volendo il cedente garanzie più brevi possibili e il compratore garanzie più lunghe possibili. Al riguardo è utile la distinzione fra le garanzie attinenti al titolo (come la titolarità della partecipazione in capo al venditore e l’assenza di pesi sulla medesima) e le altre garanzie: per la prima tipologia di garanzia il venditore non avrà generalmente difficoltà a prevedere termini di durata particolarmente lunghi; nel caso invece delle altre garanzie, il cedente tende a limitare il più possibile la loro durata. Nella prassi si concordano generalmente durate variabili fra i 12 e i 36 mesi. Per limitare la durata della garanzie il venditore invoca frequentemente l’argomento che, dopo la redazione del primo bilancio, l’acquirente non può non avere scoperto le circostanze che possono dare adito all’attivazione delle garanzie e dunque, se intende avvalersene, deve farlo subito. Le esigenze del compratore vanno insomma contemperate con quelle del venditore che, decorso un ragionevole lasso di tempo, vuole essere sicuro di non essere chiamato in responsabilità in relazione a una partecipazione ormai ceduta.

7. Le clausole limitative dell’obbligo risarcitorio

La responsabilità del venditore di una partecipazione sociale viene di norma limitata in contratto sotto il profilo quantitativo.

Una clausola che limita l’ampiezza dell’obbligo risarcitorio del venditore è la clausola c.d. “de minimis”. Tale clausola consiste nel prevedere che il venditore non è tenuto a indennizzare l’acquirente nei casi in cui il danno non raggiunga una determinata soglia minima (si supponga 10.000 euro): la clausola fissa dunque un limite sotto il quale il compratore è tenuto a subire in proprio il danno, senza potersi rivalere sulla controparte. Tale tipologia di clausole trova la propria ragion d’essere in un giudizio di proporzionalità: a fronte di operazioni d’ingente valore, sarebbe disdicevole che le parti – perfezionata l’acquisizione – iniziassero a litigare con riferimento a questioni bagatellari. Una clausola “de minimis” ben redatta deve specificare cosa debba succedere quando la soglia prevista sia superata. Si supponga, nell’esempio fatto, che il danno ammonti a 30.000 euro. In contratto si dovrà specificare se l’acquirente è legittimato a chiedere tutto tale danno (30.000 euro) oppure solo la parte che supera la soglia (e, dunque, nell’esempio fatto potranno essere chiesti 20.000 euro, dovendosi detrarre da 30.000 euro 10.000 euro).

Talvolta alla clausola “de minimis” si aggiunge, nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali, la clausola c.d. “basket” (letteralmente “cesto”, o – più tecnicamente - soglia collettiva). Con questa pattuizione si prevede che il risarcimento del danno potrà essere chiesto dall’acquirente al venditore solo se la somma delle singole voci di nocumento supera una seconda soglia (si supponga di 100.000 euro). Ad esempio, nel caso di un singolo danno del valore di 60.000 euro, in presenza di una clausola “basket” la garanzia – pur superando il limite minimo di 10.000 euro - non può essere attivata, a meno che non venga attivata insieme a una seconda pretesa di risarcimento che, unitamente alla prima, supera la soglia collettiva. Se per esempio vengono avanzate due richieste (una prima di 60.000 euro e una seconda di 60.000 euro), allora ambedue i limiti previsti in contratto sono raggiunti. Anche nel caso di clausola “basket” va opportunamente previsto nel contratto se l’acquirente sia tenuto a risarcire tutto il danno oppure solo la parte che supera la seconda soglia.

L’effetto congiunto di una prima soglia “de minimis” e di una seconda soglia “basket” è che il venditore risponde solo per un danno singolo particolarmente grave (nell’esempio fatto: 100.000 euro) oppure per la somma di più danni non particolarmente gravi, ma nemmeno irrisori (nell’esempio fatto: tanti danni di almeno 10.000 euro che raggiungano complessivamente la soglia di 100.000 euro).

Una terza tipologia di clausola ricorrente nei contratti di acquisizione consiste in una soglia massima (cap) alla responsabilità patrimoniale del venditore: con apposita pattuizione si prevede che la responsabilità del venditore non potrà in nessun caso superare un certo importo. Tale somma ammonta generalmente a una cifra variabile fra il 10% e il 30% del prezzo di acquisto della partecipazione. Di norma in contratto si distingue fra le garanzie relative al “titolo” e le altre garanzie. Alle prime garanzie (ad esempio quelle relative alla titolarità della partecipazione in capo al venditore e al fatto che essa è libera da pesi) non si applica alcun cap. In questo caso l’obbligo risarcitorio potrebbe essere addirittura superiore al prezzo di acquisto della partecipazione (altrimenti si prevede una soglia massima corrispondente al prezzo di acquisto). Invece per le garanzie diverse da quelle attinenti al “titolo” è usuale prevedere un valore massimo dell’ammontare del danno risarcibile.

Nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali si rinvengono poi, con maggiore o minore frequenza, altre clausole che producono l’effetto di limitare la responsabilità patrimoniale del venditore nei confronti dell’acquirente.

Una clausola frequente è quella che prevede che il venditore risponda solo nel caso di “importanti” (material) violazioni delle garanzie che offre. Il problema di questa pattuizione è la sua indeterminatezza, che tende a portare a contrasti fra le parti nella sua interpretazione. Non appena, difatti, l’acquirente dovesse azionare una garanzia, la prima eccezione sollevata dal venditore sarebbe proprio quella che l’asserita inosservanza non può reputarsi importante. Al fine di evitare infinite discussioni e lunghi contenziosi, è consigliabile che le parti determinino già in contratto (ad esempio in sede di definizioni) il significato di “importanza” (materiality). La clausola di materialità va di pari passo con le clausole che limitano quantitativamente l’obbligo risarcitorio del venditore: scrivere in contratto che il venditore non risponde per danni inferiori ai 10.000 euro non vuol dire altro che introdurre, con altre parole, una soglia di materialità. Dal punto di vista operativo è certamente meglio indicare concretamente il limite di valore oltre il quale può essere azionata una garanzia piuttosto che introdurre clausole vaghe sull’importanza della violazione.

Un’altra modalità per limitare l’obbligo di risarcimento del venditore è quello di escludere la sua responsabilità laddove terzi possano essere ritenuti responsabili per il fatto dedotto in contratto. Il caso tipico è quello delle assicurazioni che potrebbero coprire il danno subito dall’acquirente. In questa ipotesi il compratore non può agire in giudizio nei confronti del venditore, dal momento che il danno viene coperto dall’assicurazione. Queste clausole possono essere strutturate nel senso che l’acquirente non può agire in alcun modo nei confronti del cedente quando sussiste una pretesa nei confronti dell’assicuratore oppure nel senso che può agire solo per la parte di danno che non è coperta dall’assicurazione.


[1] Sul contratto di compravendita di partecipazioni sociali cfr. AA.VV., I contratti di acquisizione di società ed aziende, a cura di U. Draetta-C. Monesi, Milano, 2007; G. De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Torino, 2011; L. Picone, Contratti di acquisto di partecipazioni azionarie, Milano, 1995; A. Tina, Il contratto di acquisizione di partecipazioni azionarie, Milano, 2007.

[2] In materia di compravendita di partecipazioni sociali cfr., a titolo esemplificativo, M. Benetti, Cessione di quote: efficacia, opponibilità ed esercizio dei diritti sociali, in Società, 2008, 229 ss.; G. Carullo, Osservazioni in tema di vendita della partecipazione sociale, in Giur. comm., 2008, II, 954 ss.; G. Festa Ferrante, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, in Riv. not., 2005, II, 156 ss.; F. Funari, Cessione di quote sociali e patto di non concorrenza, in Società, 2009, 967 ss.; F. Laurini, Disciplina dei trasferimenti di quote di s.r.l. e delle cessioni d’azienda, in Riv. soc., 1993, 959 ss.; F. Parmeggiani, In tema di annullabilità della compravendita di azioni, in Giur. comm., 2008, II, 1185 ss.; C. Punzi, Le controversie relative alle cessioni e acquisizioni di partecipazioni societarie e le azioni esperibili, in Riv. dir. proc., 2007, 547 ss.; D. Scarpa, Presupposizione ed equilibrio contrattuale nella cessione di partecipazione sociale, in Giust. civ., 2010, II, 395 ss.; A. Tina, Trasferimento di partecipazioni societarie e annullamento del contratto, in Giur. comm., 2008, II, 110 ss.

[3] Sul tema delle garanzie nella compravendita di partecipazioni sociali cfr. F. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in Dir. comm. int., 2007, 293 ss.; P. Casella, I due sostanziali metodi di garanzia al compratore, in Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, a cura di F. Bonelli e M. De Andrè, Milano, 1990, 131 ss, C. D’Alessandro, Vendita di partecipazioni sociali e promessa di qualità, in Giust. civ., 2005, I, 1071 ss.; A. Fusi, La vendita di partecipazioni sociali e la mancanza di qualità, in Società, 2010, 1203 ss.; L. Renna, Note su un tema dibattuto: la vendita di azioni o quote di società e le garanzie dell’alienante, in Giur. it., 2008, 365 ss.

[4] Per i profili di diritto internazionale privato in materia di cessione di partecipazioni cfr. S. M. Carbone, Conflitti di leggi e giurisdizione nella disciplina dei trasferimenti di pacchetti azionari di riferimento, in Riv. dir. int. priv. proc., 1989, 777 ss.

[5] In materia di due diligence cfr. G. Alpa-A. Saccomani, Procedure negoziali, due diligence e memorandum informativi, in Contratti, 2007, 267 ss.; L. Bragoli, La due diligence legale nell’ambito delle operazioni di acquisizione, in Contratti, 2007, 1125 ss.; A. Camagni, La due diligence nelle operazioni di acquisizione e valutazione di aziende, in Riv. dott. comm., 2008, 191 ss.; C. F. Giampaolino, Ruolo della Due Diligence e onere di informarsi, in AIDA, 2009, 29 ss.; L. Picone, Trattative, due diligence ed obblighi informativi delle società quotate, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, 234 ss.

[6] Sul diritto di controllo e informazione del quotista cfr. la monografia di R. Guidotti, I diritti di controllo del socio nella s.r.l., Milano, 2007. V. inoltre, per limitarsi ad alcuni recenti contributi, P. Benazzo, I controlli nella società a responsabilità limitata: singolarità del tipo od omogeneità della funzione?, in Riv. soc., 2010, 18 ss.; D. Cesiano, Il (limitato?) diritto di consultazione del socio ex-amministratore nella s.r.l., in Società, 2010, 1131 ss.; A. Pisapia, Il controllo del socio nella S.r.l.: oggetto, limiti e rimedi, in Società, 2009, 505 ss.; V. Sangiovanni, Diritto di controllo del socio di s.r.l. e autonomia statutaria, in Notariato, 2008, 671 ss.; V. Sanna, L’ambito di applicazione dei diritti di controllo spettanti ai “soci che non partecipano all’amministrazione” nella s.r.l., in Giur. comm., 2010, I, 155 ss.; F. Torroni, Note in tema di poteri di controllo del socio nella s.r.l., in Riv. not., 2009, II, 673 ss.

[7] Cfr., per questa impostazione, U. Tombari, Problemi in tema di alienazione della partecipazione azionaria e attività di due diligence, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 70 ss.

[8] Rimangono al di fuori dal presente approfondimento le questioni relative alla possibile responsabilità da trattative, che può essere fatta valere da una delle parti nel caso in cui l’altra parte violi il canone di buona fede sancito dall’art. 1337 c.c. Sulla materia della responsabilità da trattative cfr. di recente, in un’ottica di diritto comparato, E. A. Kramer, Il recesso dalle trattative: uno schizzo comparatistico, in Resp. civ., 2011, 246 ss. (trad. di R. Omodei Salè). V. inoltre G. Afferni, Responsabilità precontrattuale e rottura delle trattative: danno risarcibile e nesso di causalità, in Danno resp., 2009, 469 ss.; M. Capodanno, Lettere di intenti, doveri in contrahendo e buona fede nelle trattative, in Riv. dir. priv., 2008, 305 ss.; C. Cavajoni, Ingiustificato recesso dalle trattative e risarcimento del danno, in Contratti, 2007, 315 ss.; G. Gigliotti, Trattative, minute e buona fede. La responsabilità da condotta sleale, in Corr. mer., 2008, 302 ss.; G. Guerreschi, Responsabilità precontrattuale: liberi di recedere dalle trattative ma fino a un certo punto, in Danno resp., 2006, 49 ss.

[9] Al contratto vengono generalmente allegati gli ultimi bilanci della società (oppure vengono preparati e allegati dei bilanci intermedi proprio al fine dell’acquisizione) e il venditore garantisce che tali bilanci sono completi, corrispondono al vero e danno una corretta rappresentazione della situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società, assumendosi l’obbligo di risarcire il danno nel caso di difformità fra le risultanze di bilancio e la realtà delle cose. Le garanzie in materia di bilancio sono importanti anche ai fini della determinazione del prezzo di acquisto della società, in quanto normalmente il prezzo di acquisto si determina come somma del patrimonio netto della società e di un multiplo degli ultimi utili. Sulla garanzie di bilancio nei contratti di acquisizione cfr. R. Pistorelli, Le garanzie “analitiche” sulle voci della situazione patrimoniale di riferimento, in Acquisizioni, cit., 157 ss.

[10] Sulle garanzie fiscali cfr. A. Pedersoli, Le garanzie fiscali, previdenziali ed ecologiche, in Acquisizioni, cit., 147 ss.

[11] La garanzia generalmente concerne la validità dei contratti in corso nonché il fatto che essi non verranno meno a seguito dell’acquisizione. Al riguardo va segnalato che, talvolta, i contratti di cui è parte la società bersaglio contengono una clausola sul cambio di controllo, la quale legittima la controparte contrattuale della target a recedere dal contratto in caso di cambio della proprietà. Laddove il contratto fosse di considerevole significato economico, ciò potrebbe avere un notevole impatto negativo per l’acquirente.

[12] In materia d’invalidità della fusione cfr. la monografia di P. Beltrami, La responsabilità per danni da fusione, Torino, 2008. V. inoltre V. Afferni, Invalidità della fusione e riforma delle società di capitale, in Giur. comm., 2009, I, 189 ss.; A. Colavolpe, In tema di invalidità dell’atto di fusione, in Società, 2008, 483 ss.; P. Lucarelli, Rapporto di cambio incongruo, invalidità della fusione e rimedi: una relazione ancora da esplorare, in Riv. dir. comm., 2001, II, 269 ss.; L. Picone, Invalidità della fusione e mezzi di tutela del socio, in Società, 1999, 458 ss.; V. Sangiovanni, Invalidità della fusione e risarcimento del danno, in Resp. civ., 2010, 379 ss.

[13] Cass., 12 gennaio 1991, n. 257, ha stabilito che il dolo quale causa di annullamento del contratto può consistere tanto nell’ingannare con notizie false quanto nel nascondere alla conoscenza altrui, con il silenzio o con la reticenza, fatti o circostanze decisive.

[14] Si veda, ad esempio, Cass., 12 giugno 2008, n. 15706, la quale ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova che il venditore della partecipazione aveva fornito informazioni false all’acquirente, rigettando pertanto la domanda di annullamento del contratto per dolo.

[15] Cass., 19 luglio 2007, n. 16031, in Giur. comm., 2008, II, 103 ss., con nota di A. Tina; in Giur. comm., 2008, II, 1176 ss., con nota di F. Parmeggiani; in Giur. it., 2008, 365 ss., con nota di L. Renna, ha affermato che le false o omesse indicazioni di fatti possono comportare l’obbligo per il contraente mendace o reticente di risarcire il danno, ove la controparte si sarebbe comunque determinata a concludere l’affare ma a condizioni diverse.

[17] Cass., 19 luglio 2007, n. 16031, in Giur. comm., 2008, II, 103 ss., con nota di A. Tina; in Giur. comm., 2008, II, 1176 ss., con nota di F. Parmeggiani; in Giur. it., 2008, 365 ss., con nota di L. Renna.

[18] Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito si può segnalare Trib. Roma, 16 aprile 2009, in Società, 2010, 1203 ss., con nota di A. Fusi, il quale ha deciso che il contratto di cessione di quote sociali è annullabile quando vi sia stata da parte del cedente una specifica promessa circa la consistenza patrimoniale della società delle cui quote si tratta. Secondo l’autorità giudiziaria romana qualità della cosa è tutto ciò che ne possa consentire un migliore e più redditizio godimento ed è perciò plausibile che la solidità dell’impresa sociale, riflettendosi sul valore e sulla redditività della quota, costituisca una qualità di tale quota. Nel caso di specie era stata data un’espressa garanzia in merito alla consistenza patrimoniale della società, rivelatasi invece difforme da quanto dichiarato: in particolare la gravissima situazione debitoria della società aveva determinato la perdita dell’intero capitale sociale, mentre il cedente aveva dichiarato che tale capitale era esistente. Il caso affrontato dal Tribunale di Roma si differenzia da quello oggetto delle sentenze della Corte di cassazione proprio per il fatto che, nella fattispecie decisa dall’autorità giudiziaria romana, vi era un’apposita clausola sulla consistenza patrimoniale della società.

[19] In materia di durata delle garanzie nei contratti di acquisizione cfr. S. Erede, Durata delle garanzie e conseguenze della loro violazione, in Acquisizioni, cit., 199 ss.

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Diritto dell'internet parte I: il marchio ed il nome a dominio.

[:it]Per riuscire ad entrare in questo argomento, si rende necessario esaminare in via propedeutica alcuni concetti che toccano sia il diritto industriale, che le regole consuetudinarie del mondo dell’internet.

Prima di tutto è necessario vedere come il nome a dominio viene inquadrato all’interno dell’ordinamento italiano. Il legislatore

ha disciplinato per la prima volta tale figura coll’art. 22 c.p.i. (codice della proprietà industriale), introducendo il divieto di adottare come “nome a dominio un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”.

Il nome a dominio, pertanto, può anche rilevare come segno distintivo perché alla luce della progressiva “commercializzazione” della rete Internet l’imprenditore non si avvale più di un  nome a dominio qualsiasi, ma richiede un determinato indirizzo Internet per rendere identificabili ai navigatori i prodotti o servizi offerti dal proprio sito commerciale.

La dottrina e giurisprudenza, anche anteriormente all’introduzione della suddetta definizione all’interno del c.p.i., ha riconosciuto la capacità distintiva del nome a dominio riconoscendo che: “non sembra fondatamente contestabile che il domain name nella specie assuma anche un carattere distintivo dell'utilizzatore del sito - atto a concorrere all'identificazione del medesimo e dei servizi commerciali da esso offerti al pubblico a mezzo della interconnessione di reti (Internet) - con qualche apparente affinità con la figura dell'insegna, in quanto luogo (virtuale) ove l'imprenditore contatta il cliente fino a concludere con esso il contratto”.[1]

Tale interpretazione viene nuovamente confermata anche a seguito dell’introduzione del suddetto art. 22 c.p.i. da una recente decisione del Tribunale di Milano del 20.2.2009 che conferma in via definitiva l’orientamento giurisprudenziale dominante favorevole al riconoscimento della natura distintiva del nome a dominio formatosi anteriormente al c.p.i.[2]

Alle norme sulla tutela dei marchi si affiancano anche le regole della rete. In internet vige, infatti il principio del “first come, first served”, in base al quale un nome a dominio viene assegnato al primo richiedente, indipendentemente dal fatto che sia in conflitto con altrui diritti di privativa. Gli enti preposti all’assegnazione dei domini non sono tenuti ad effettuare alcun controllo preventivo atto  a prevenire/evitare la registrazione -quale domain name - di segni o marchi confondibili con un marchio registrato da parte di un soggetto diverso dal titolare del segno distintivo. In altri termini, in base all’attuale metodo di assegnazione dei domain names, tutti i nomi non ancora registrati (come domain name) sono liberamente registrabili da chiunque sulla base delle priorità delle richieste, indipendentemente dal fatto che tali nomi corrispondano o meno a denominazioni o segni distintivi di terzi più o meno noti.

A tal punto si rende necessario andare ad analizzare l’effettivo metodo applicativo delle suddette norme e, per far ciò, si rende necessario suddividere i marchi in due macrogruppi, ossia i marchi non rinomati e quelli rinomati.

a)  casi di domani name di marchio non rinomato

Nel primo caso, qualora il domain name sia identico o simile a marchio altrui non rinomato occorre, perché questi possa inibire l’utilizzo del suddetto nome a dominio, la concorrenza di due requisiti:

-      l’identità o somiglianza del marchio con il domain name (es. il marchio registrato è ABCD s.r.l. ed il terzo utilizza un nome a dominio coincidente www.abcd.it);

-      l’identità o affinità dei prodotti o servizi offerti. (entrambi operano nello stessa branca del mercato);

In tal caso sarà applicabile il principio di specialità della tutela del marchio previsto e disciplinato dagli artt. 2569, comma 1. c.c.[3] e dall’art. 20 comma 1 c.p.i., lett. a) e b).

Ovviamente più i prodotti ed i servizi offerti sono vicini, tanto maggiore sarà la confusione del pubblico sulla effettiva provenienza degli stessi.

Pertanto, anche nel caso in cui non sussista alcuna identità tra i settori merceologici del marchio non rinomato e del domain name, qualora venga dimostrata la mala fede del titolare del nome a dominio, si ritiene tale attività essere idonea a precludere al titolare del marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo e pertanto censurabile ex art. 22 c.p.i. [4]

b)  casi di domani name di marchio rinomato

Nel caso di marchio notorio o di alta rinomanza, si ritiene indebito l’uso del domain name simile al marchio che anche nelle ipotesi di uso di segni per prodotti e servizi non affini se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.[5]

RIASSUMENDO

  • il legislatore, ha disciplinato per la prima volta tale il nome a dominio coll’art. 22 c.p.i. (codice della proprietà industriale)
  • l’orientamento giurisprudenziale dominante favorevole al riconoscimento della natura distintiva del nome a dominio
  • nei  casi di domain name di marchio non rinomato qualora il domain name sia identico o simile a marchio altrui occorrono, per inibire l’utilizzo del suddetto nome a dominio, che vi sia identità o somiglianza del marchio con il domain name e identità o affinità dei prodotti o servizi offerti
  • nei casi di domain name di marchio rinomato,  si ritiene indebito l’uso del domain name simile al marchio anche nelle ipotesi di uso di segni per prodotti e servizi non affini se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi

[1] Tribunale di Milano, ordinanza 10 giugno 1997 - Amadeus Marketing SA, Amadeus Marketing Italia s.r.l. c. Logica s.r.l.

[2] “Il domain name ha doppia natura, tecnica di indirizzo delle risorse logiche della rete Internet e distintiva. In quanto segno distintivo - costituito dalla parte caratterizzante il nome a dominio denominata Second Level Domain - può entrare in conflitto con altri segni in applicazione del principio dell’unitarietà dei segni distintivi statuito dall’art. 22 c.p.i.”. Tribunale Milano, 20.02.2009, Soc. Solatube Global Marketing Inc. e altro c. Soc. Solar Proiect e altro.

[3] art. 2569, comma 1. c.c.[3] “Chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato”.

[4] Tribunale di Milano, ordinanza 10 giugno 1997 “La pratica confusoria illecita nota come domain grabbing consiste nella registrazione, presso la Naming Authority, del marchio altrui come nome a dominio, al solo fine di appropriarsi della notorietà del segno, costituisce in sé e per sé atto di contraffazione - censurabile ai sensi degli art. 22 c.p.i. - anche in quanto attività idonea a precludere al titolare dei marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo”.

[5] Tribunale Milano, 20.02.2009 “La pratica confusoria illecita nota come domain grabbing consiste nella registrazione, presso la Naming Authority, del marchio altrui come nome a dominio, al solo fine di appropriarsi della notorietà del segno, costituisce in sé e per sé atto di contraffazione - censurabile ai sensi degli art. 22 c.p.i. - anche in quanto attività idonea a precludere al titolare dei marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo”; Tribunale Modena, 18.10.2005L'assegnazione di un domain name (nome di sito web) corrispondente ad un marchio - anche solo di fatto, ma notorio - può costituire usurpazione del segno e concorrenza sleale in quanto comporta l'immediato vantaggio di ricollegare la propria attività a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorietà del segno e traendone indebito vantaggio. Inoltre, la violazione di un marchio - perpetrata mercé il suo impiego quale domain name di un sito Internet - non è esclusa dalla circostanza che tale utilizzo sia avvenuto previa autorizzazione dell'apposita autorità preposta alla registrazione dei nomi di dominio, né dal fatto che il titolare del marchio non abbia in precedenza registrato presso detta autorità il medesimo nome”.

 

 

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padre padrone

La contemplatio domini nei contratti stipulati dagli amministratori.

[:it]È principio consolidato in giurisprudenza e in dottrina che “…. anche nell'ipotesi di rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini, onde, se il rappresentante di una società non ne spende il nome, il negozio dallo stesso concluso non spiega effetti nei confronti della società medesima
.
[1]

Dottrina e giurisprudenza concordemente affermano che il dettato normativo disciplinato dall’art. 1388 c.c. (“contratto concluso dal rappresentante”), sia applicabile analogicamente anche con riferimento alla rappresentanza organica, configurabile appunto in relazione ai soggetti che rivestono la qualifica di organi rappresentativi di persone giuridiche.[2]

Requisiti perché il contratto stipulato dal rappresentato possa produrre effetti sono essenzialmente tre:

1)    il conferimento del potere rappresentativo;
2)    l’agire del rappresentante nei limiti della procura;
3)    la circostanza che al terzo sia resa palese dallo stesso rappresentante la riferibilità al rappresentato del regolamento negoziale (contemplatio domini);

É quindi necessario che tutti e tre gli elementi sussistano al momento della conclusione del contratto perché il negozio possa valere effettivamente nei confronti del rappresentato e se difetta anche uno di suddetti presupposti, il negozio produrrà effetti solo nei confronti del rappresentato.

Concentrandosi sul requisito fondamentale della contemplatio domini, si rende necessario evidenziare che tale elemento assolve alla duplice funzione di esteriorizzare il rapporto di gestione rappresentativa esistente tra il rappresentante e il rappresentato e di rendere conseguentemente possibile la imputazione degli effetti del contratto concluso in suo nome dal primo.

Secondo autorevole giurisprudenza, la spendita del nome del rappresentato nei contratti soggetti a forma scritta ad substantiam deve risultare in modo espresso non potendosi desumere esclusivamente da elementi presuntivi.

In tali contratti, il principio per cui tutti gli elementi essenziali del contratto devono risultare dal medesimo impone che anche la spendita del nome del rappresentato risulti ad substantiam dallo stesso documento in cui è contenuto il contratto.[3]

RIASSUMENDO

  • anche nell'ipotesi di rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini
  • perché il contratto stipulato dal rappresentato possa produrre effetti è necessario il conferimento del potere rappresentativo, agire del rappresentante nei limiti della procura, la contemplatio domini
  • nei contratti soggetti a forma scritta ad substantiam la contemplatio deve risultare in modo espresso non potendosi desumere esclusivamente da elementi presuntivi

[1] Cassazione civile, sez. II, 30/03/2000, n. 3903; si veda anche Cassazione civile, sez. lav., 25/10/1985, n. 5271 “se il rappresentante di una società di fatto non spende il nome dell'altro o degli altri soci, il negozio concluso spiega effetto solo nei confronti del rappresentante medesimo, ancorché esso riguardi interessi o beni comuni”;

[2] In tal senso, DE NOVA, Il contratto, vol. X del Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Utet, Torino, 2002, p. 10;SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1986 p. 288; in giurisprudenza per tutte Cass., 18 giugno 1987, n. 5371, in Giur. it., 1989, I, 1, 1056

[3]Nei contratti conclusi dal rappresentante, [..] nel caso in cui sia mancata una espressa spendita del nome, in cui gli effetti del negozio si consolidano direttamente in capo al rappresentante anche se l'altro contraente abbia avuto comunque conoscenza del mandato o dell'interesse del mandante nella conclusione dell'affare [..], una eventuale contemplatio domini tacita non può essere desunta da elementi presuntivi”. (Cassazione civile, sez. II, 12/01/2007, n. 433)

 

 

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Convegno sul contratto di agenzia in Biblioteca Civica.

[:it]Venerdì 8 giugno ore 15, presso la Biblioteca civica di Verona si è tenuto il convegno sul contratto di Agenzia che ho avuto il piacere di organizzare in collaborazione con Veronalegal. In qualità di relatori  hanno partecipato l'avv. Valerio Sangiovanni (avvocato in Milano), la dott.ssa Maura Mancini (Magistrato del lavoro presso il Tribunale di Brescia), l'avv. Eve Tessera (avvocato francese, iscritta all'albo di Verona) e il sottoscritto.

Sono stati trattati i seguenti temi:

Ringrazio sinceramente tutti i partecipanti al convengo e i relatori che si sono dimostrati essere, oltre che estremamente competenti, anche molto chiari e disponibili.

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Art. 1451 c.c. Opponibilita' a terzi del negozio simulato.

[:it]Ai sensi dell’art. 1415 c.c. la simulazione “non può essere opposta dalle parti contraenti, dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente."In buona sostanza, la ratio è quella di tutelare il terzo rispetto alle parti, assegnando prevalenza all’affidamento che i terzi, in buona fede, hanno potuto porre sulla parvenza esteriore del contratto.

In merito la giurisprudenza si è pronunciata affermando che “perché la simulazione non possa essere opposta ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente è necessario che il terzo sia titolare di una situazione giuridica connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall'accordo simulatorio.”[1]

La Giurisprudenza è concorde nell’affermare che il concetto di terzo di cui all’art. 1415 c.c. debba essere interpretato in maniera ampia e lata, dovendosi ritenere sufficiente che sussista una mera connessione o un semplice rapporto di dipendenza tra la situazione giuridica del terzo e l’accordo simulatorio.

Ad esempio si può leggere “….l'art. 1415 comma 1 c.c. dev'essere interpretato nel senso che la simulazione non può essere opposta dal titolare apparente ai terzi acquirenti in buona fede, ossia a coloro che, in base al contratto simulato, conseguono un effetto giuridico favorevole nell'ignoranza di ledere l'altrui diritto….[2]

Sul punto la stessa dottrina si è espressa in maniera del tutto concorde con il suddetto orientamento giurisprudenziale, affermando che per terzi ex art. 1415 c.c. si intendono tutti coloro che conseguono un effetto giuridico favorevole sulla base del contratto simulato (e ciò risponde alla regola generale secondo la quale chi crea una situazione negoziale apparente non può far valere a danno di terzi di buona fede la situazione reale.[3]

Del resto, altro non si tratta se non di una applicazione del più generale principio della tutela dell’affidamento “… Il principio dell'apparenza del diritto riconducibile a quello più generale della tutela dell'affidamento incolpevole, può invocarsi quando sussistano elementi oggettivi capaci di giustificare la convinzione del terzo in ordine alla corrispondenza tra la situazione apparente e quella reale…”.[4]

Quanto poi alla buona fede del terzo, si osserva brevemente come dottrina[5] e giurisprudenza[6] sono concordi nel ritenere che il terzo sia dispensato dall’onere di doverla provare avendo questa natura presuntiva.

Infine, si rileva che in materia la mala fede si identifica non già con la “mera scienza” della simulazione, ma con l’intenzione di agevolare lo scopo in vista del quale è stata posta in essere la simulazione.[7]

Pertanto, il soggetto terzo non solo non ha l’onere di provare la propria buona fede, ma è compito del titolare apparente provare la sua mala fede.

RIASSUMENDO
  • Ex art. 1415 c.c. il terzo è tutelato rispetto alle parti, avendo il legislatore dato prevalenza all’affidamento che il terzo, in buona fede, ha posto sulla parvenza esteriore del contratto
  • Perché la simulazione non possa essere opposta ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente è necessario che il terzo sia titolare di una situazione giuridica connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall’accordo simulatorio
  • Il concetto di terzo di cui all’art. 1415 c.c. deve essere interpretato in maniera ampia e lata
  • Il terzo è dispensato dall’onere di provare la propria buona fede avendo questa natura presuntiva, pertanto è compito del titolare apparente provare la sua mala fede

[3] cfr M. Bianca: Diritto Civile – Il Contratto – Giuffré pag. 667;

[5] Mengoni, Acquisto a non dominio, 1949, 117 e poi edizioni successive;

[6] Cass. 1949, n. 53; Cass. 1960, n. 1046; Cass. 1970, n. 349; Cass. 1987, n. 5143; Cass. 2002, n. 3102;

[7] Cass. 1986, n. 2004; Cass. 1991, n. 13260;

 

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Onorari dell'avvocato e giurisdizione competente.

[:it]

Recentemente, con la sentenza del 12.10.2011 n. 2100, la Cassazione si è pronunciata affermando che “il compenso per prestazioni professionali, che non sia convenzionalmente stabilito, è un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale; ne consegue che il foro facoltativo del luogo ove deve eseguirsi l'obbligazione (art. 20 c.p.c., seconda ipotesi)"va individuato, ai sensi dell' ultimo comma dell'art. 1182 c.c., nel domicilio del debitore in quel medesimo
tempo”.[1]

Applicando tale principio all’attività professionale dell’Avvocato, risultano evidenti i risvolti pratici di suddetta sentenza. Come è noto, infatti, l’art. 20 c.p.c, che disciplina quale foro alternativo a quello generale del convenuto (art. 18 c.p.c). stabilisce che “per le cause relative a diritti di obbligazione è anche competente il giudice del luogo in cui [..] deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio”.

Secondo la Cassazione, quindi, qualora non venga stabilito “ab origine” il compenso di un professionista, il credito non può definirsi liquido in quanto determinabile solo a prestazione eseguita. Pertanto a tale rapporto obbligatorio non è applicabile l’art. 1182 comma 3 c.c., che dispone che “l’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza.”

Data appunto la natura non liquida e determinabile del credito si deve invece applicare, secondo la Suprema Corte l’art. 1182 ultimo comma, che prevede, invece, l’adempimento dell’obbligazione al domicilio del debitore.

Tale principio è chiaramente applicabile anche alla professione dell’Avvocato. Infatti, il suo compenso la maggior parte delle volte non è determinabile a priori, soprattutto se riguarda un’attività giudiziale, non essendo possibile prevedere l’effettiva attività da svolgere nel corso del procedimento. Pertanto, secondo questo orientamento della Cassazione, qualora un Avvocato dovesse procedere per il recupero di un credito derivante da una proprià attività professionale dovrà agire presso il foro del convenuto ex art. 18 c.p.c. ovvero del debitore ex art 20 c.p.c.

RIASSUMENDO

  • Il compenso per prestazioni professionali, che non sia convenzionalmente stabilito, è un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale
  • Il foro facoltativo del luogo dove deve eseguirsi l'obbligazione (art. 20 c.p.c.) va individuato, ai sensi dell' ultimo comma dell'art. 1182 c.c., nel domicilio del debitore
  • L’Avvocato che vuole procedere per il recupero di un proprio credito dovrà agire o presso il foro del convenuto ex art. 18 c.p.c. ovvero del debitore ex art 20 c.p.c.

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La giurisdizione in ambito di vendita internazionale di beni mobili.

[:it]

Spesso le parti, che stipulano un contratto internazionale di compravendita di beni mobili, omettono per svariati motivi di decidere e definire quale Giudice sia competente a decidere su una eventuale vertenza avente ad oggetto il contratto stesso.

In mancanza di tale scelta è necessario identificare i parametri dettati dal regolamento 44/2001. Lo stesso prevede che:

- è competente a decidere il Giudice dove il convenuto ha la sua residenza (art. 2,1);

- “la persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro” e nello specifico, nel caso della compravendita di beni, “il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto” (art. 5,1 lett. b).

Es. Una ditta italiana vende dei prodotti ad una ditta svedese. Le parti concordano che la merce deve essere consegnata a un concessionario con sede in Spagna. La ditta svedese consegana la merce in tempo, ma la società svedese non provvede ad adempiere.

La società svedese vuole agire in giudizio e si rivolge a un legale per avere delle delucidazioni in merito.

Ex .art 2,1 reg. 44/2001 in questo caso (in mancanza di scelta delle parti) la Giurisdizione competente è quella del convenuto, quindi la Giurisdizione Svedese.

Ad ogni modo, l’art. 5,1 lett. b) prevede quale foro speciale, in via alternativa, il Giudice del luogo in cui la merce è stata o avrebbe dovuto essere consegnata (Spagna).

Pertanto il venditore italiano (con sua grande sorpresa) non avrà diritto ad agire in Italia per chiedere il pagamento della propria merce.

Importante sottolineare che in base a un orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, tale principio è applicabile anche al caso in cui il venditore sia intenzionato a fare valere in giudizio il mero pagamento del corrispettivo.

Sul punto la Suprema Corte ha affermato che “in tema di compravendita internazionale di beni, l'art. 5 n. 1 lett. b) del regolamento Ce n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000, va interpretato nel senso che, nei contratti di compravendita, per obbligazione dedotta in giudizio si intende non quella fatta valere dall'attore, ma l'obbligazione caratterizzante il contratto e, dunque, nei contratti di compravendita di beni, quella della consegna del bene; pertanto, anche in caso di azione relativa al semplice pagamento del corrispettivo, il luogo da considerare, ai fini della competenza giurisdizionale, è quello della consegna del bene, che, se non stabilito nel contratto, andrà individuato con riferimento ai principi già affermati dalla Corte di giustizia Ce, determinando il luogo secondo le norme di conflitto del Giudice adito."[1]

RIASSUMENDO

in mancanza di scelta è competente a giudicare, anche sulle questioni vertenti sul pagamento del corrispettivo:

  • il Giudice dove il convenuto ha residenza (art. 2. reg. 44/2001)
  • il Giudice dove doveva essere consegnata la merce (art 5 reg. 44/2001)
  • anche in caso di azione relativa al semplice pagamento del corrispettivo, il luogo da considerare, ai fini della competenza giurisdizionale, è quello della consegna del bene

 


[1] Cassazione civile 2009 n. 3059 Giust. civ. Mass. 2009, 3, 479

 

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