Le barzellette

C'e' un francese, uno spagnolo, un italiano e YouTube.

[:it]YouTube può ritrasmettere sulla propria piattaforma spezzoni di un canale televisivo? E se sì, che ruolo ricopre da un punto di vista civilistico? A questi quesiti sicuramente di grande rilevanza e di grande importanza ha dato risposta il Tribunal de grande instance di Parigi.

I giudici francesi si sono visti a decidere su una vertenza promossa dalla società televisiva TF1, che chiedeva a YouTube un risarcimento danni pari ad 150 milioni di euro per violazione del codice della proprietà intellettuale. In particolare dell’art. 216-1 che subordina la diffusione e la ritrasmissione di un’opera dell’ingegno all’autorizzazione del titolare dei diritti e dell’art. 1382 del Code civil (corrispondente al nostro art. 2043 c.c. disciplinante la responsabilità extracontrattuale).

I giudici d’oltralpe hanno deliberato il rigetto di tutte le istanze formulate da TF1, condannando la stessa al pagamento delle spese legali pari ad € 80.000.

La sentenza risulta interessante in quanto statuisce che “il modello economico sviluppato dalla società YouTube nella sua qualità di fornitore di hosting non è né vietato, né illecito e nessuno sviamento di clientela” può esserle imputato. Secondo il giudici francesi, infatti YouTube e televisione configurano due differenti tipologie di business.

Viene, inoltre, fatta chiarezza sulla figura di YouTube, la quale rimarrebbe mero hosting non essendo in alcun modo assimilabile la sua attività a quella di tipo editoriale.

Gli attori sul punto avevano osservato che YouTube compie attività che vanno oltre a quelle tipiche dell’hosting. Ad esempio, Youtube attua una verifica preventiva volta a bloccare e censurare alcuni contenuti che YouTube “ritiene contrari alla propria linea editoriale”; inoltre Google acquisisce in automatico i diritti d’autore necessari allo sfruttamento dei contenuti postati dagli utenti. Malgrado dette osservazioni la Corte ha affermato che tali circostanze, non sarebbero idonee e sufficienti a qualificare il colosso del web quale “editore”.

Da ultimo la sentenza ripercorre quanto già affermato dalla giurisprudenza Spagnola dello Juzgado de lo Mercantil di Madrid, 20 settembre 2010, che declinava ogni responsabilità in capo a Youtube per i contenuti pubblicati dagli utenti (si veda sul punto anche "Il contratto di hosting e i profili di responsabilita’ dell’hosting provider e  Responsabilita’ del motore di ricerca nel caso di “caching” (if you can)).

Sul punto aggiunte anche che l’utilizzo della pubblicità su alcuni dei video pubblicati non sarebbe di per sé sufficiente a comportare la perdita di status di intermediario.

Gli operatori di internet quindi sono semplici intermediari e, in quanto tali, non possono essere considerati responsabili dei contenuti veicolati da terzi, né, tanto meno, essere equiparati a degli editori.
In definitiva, si avverte che la giurisprudenza europea si stia avviando finalmente verso una difficile inquadratura nell’individuazione dei doveri e delle responsabilità dei motori di ricerca e degli hosting.

 

 

 

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Responsabilità del motore di ricerca nel caso di “caching”.

Nel maggio di quest’anno la Sezione proprietà industriale del Tribunale di Firenze si è vista a decidere su una questione molto interessante per tutti gli utenti del web. Il caso è facilmente riassumibile: Tizio, imprenditore, navigando sul web scopre un sito nel quale vengono riprodotte sue foto e viene diffamato il nome della propria azienda.

Dato dal sito non si riusciva a risalire al webmaster o al gestore del sito, decide di rivolgersi direttamente a Google Inc. (sede americana), chiedendo alla stessa
di rimuovere il collegamento dal motore di ricerca al sito contestato. A seguito del rifiuto di Google, Tizio decide di promuovere un’azione legale.

Il 12.5.2012, il Tribunale di Firenze, pronuncia una ordinanza con la quale esclude la responsabilità di Google per le seguenti ragioni:

  • l’attività dei motori di ricerca è una attività di mero caching, ex art. 15 del dlgs 70/2003;
  • il motore di ricerca è tenuto a rimuovere i collegamenti solo su ordine dell’organo competente.

Soffermandosi brevemente sul primo punto, si può rilevare che l’ordinanza è dell’avviso che quella dei motori di ricerca si soffermi ad essere una mera attività di caching, posto che è limitata “alla indicizzazione dei siti ed alla formazione di copie cache dei loro contenuti, con memorizzazione temporanea delle informazioni”. Gli operatori di internet, pertanto, risultano essere dei semplici intermediari e, in quanto tali, non possono essere considerati responsabili dei contenuti veicolati da terzi.

Quanto al secondo punto, l’ordinanza si concentra sugli obblighi dei motori di ricerca, qualora pervengano agli stessi  richieste di rimozione o di disattivazione dell’accesso a determinati contenuti. Il Tribunale su questo punto afferma che “la conoscenza effettiva della pretesa illiceità dei contenuti del sito de quo non possa essere desunta neppure dal contenuto delle diffide di parte, trattandosi di prospettazioni unilaterali.

Inoltre, circa la conoscibilità degli illeciti, questi non sono presumibili sulla base di meri reclami da parte degli utenti della rete, ma è necessario che un “organo competente abbia dichiarato che i dati sono illeciti, oppure abbia ordinato la rimozione o la disabilitazione dell’accesso agli stessi, ovvero che sia stata dichiarata l’esistenza di un danno” o, ancora, “che l’ISP stesso sia a conoscenza di una tale decisione dell’autorità competente.”

Questa decisione sembra sostituire il precedente orientamento giurisprudenziale che applicando in maniera estensiva il dlgs 70/2003, ha ritenuto bastevole che il soggetto comunicasse all’intermediario il link del sito contenente il presunto materiale illecito.

Orientamento, a parere di chi scrive, giustamente superato con l’ordinanza oggetto di esamina, che risulta, peraltro, essere molto importante nel settore, posto che vengono impartite direttive ben chiare e viene delineata in maniera ferma la responsabilità di figure giuridiche non ancora del tutto ben inquadrate.


I vitelloni

Diffamazione su facebook. Meglio stare attenti, che se poi l'auto finisce la benzina...

[:it]Facebook, spazio di grande interesse sia sociale che commerciale. Un nuovo modo di condividere i propri pensieri, idee e spunti lavorativi. Una nuova piazza multimediale.

Tale affermazione, che in un primo momento potrebbe sembrare una mera e semplice asserzione di carattere “para-sociopolitico” , si sta in realtà rilevando sempre più di interesse giuridico. Ci si chiede infatti, ma cosa può accadere se si pubblica sul proprio profilo un commento offensivo, falso o semplicemente volgare? Deve ritenersi che detto comportamento sia effettivamente posto in essere in un luogo pubblico o, addirittura, per mezzo stampa?

A tale domanda, che come si può capire, non è più di poco interesse, ha risposto il primo di ottobre il Tribunale di Livorno. La Corte su punto ha deciso la condanna di una donna per “diffamazione”, con l’aggravante “mezzo stampa”, poiché ha insultato il proprio ex datore di lavoro (che l'aveva licenziata) sul proprio profilo Facebook.

Il tribunale di Livorno, ha dato pertanto vita ad un nuovo orientamento nella giurisprudenza di merito, ponendosi in controtendenza con un orientamento giurisprudenziale della Cassazione, in base al quale “ai fini della configurabilità di una fattispecie criminosa come reato commesso con il mezzo della stampa, le definizioni che di stampa e stampati fornisce l’art. 1, l . n. 47 del 1948 non sono suscettibili d’interpretazione analogica e/o estensiva.

Sarà quindi necessario che ogni utente ponga sempre più attenzione ai commenti postati su FB, posto che questi oltre ad avere delle conseguenze prettamente sociali e relazionali, possono addirittura profilare una eventuale responsabilità civile e penale.

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Il diavolo veste prada

La catena di Sant’Antonio viene spezzata. A questo punto, il diavolo veste ancora Prada?

[:it]Qualche giorno fa, la Corte di Cassazione ha affrontato un tema che è ormai parte del linguaggio comune di tutti i giorni: lo spam. Tale attività, conosciuta anche come la “catena di Sant’Antonio“, è un veicolo utilizzato da molte società al fine di reclutare il maggior numero di soggetti per fini economici. Il classico esempio e la classica tecnica utilizzata è quella di invogliare i navigatori ad iscriversi ad un servizio in cambio di un
omaggio.

A tentare di fermare detta prassi si è inserita la Suprema Corte, la quale ha stabilito che il comportamento dei titolari di siti web che incentrano la propria attività sulla corresponsione di incentivi agli iscritti al solo fine di ottenere i dati di nuovi soggetti, sia da ritenersi di fatto illecito.

Nello specifico, la Corte ha affermato con sentenza n. 37049 del 2012, che “è illecito il comportamento del titolare di siti web incentrati sulla corresponsione di incentivi agli iscritti sulla base del mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che ricondurli alla attività di vendita di beni o servizi determinati”.

La base di questo ragionamento si incentra principalmente sul divieto delle “vendite piramidali”, di cui all’art. 5 della legge 173/2005. Detta prassi, infatti, si fonda sull’attività propagandistica di strutture di core business, focalizzate esclusivamente sull’aumento delle fila degli utenti e non sulla promozione di alcun servizio o prodotto.

Importante sottolineare che tale prassi è illecita anche qualora l’adesione sia volontaria, posto che, come recita la Corte, “la norma incriminatrice non richiede l’involontarietà dell’adesione quale presupposto per la sussistenza del reato”.

Interessante vedere come tale principio potrà e verrà applicato al nuovo mondo dei social-network, piattaforme sicuramente molto adatta per lo sviluppo di tali attività.

 

 

 

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Indovina chi viene a cena

Il contratto di hosting e i profili di responsabilità dell'hosting provider.

[:it]Negli ultimi anni, il sito internet non è più una semplice vetrina usata dalle società per dare delle generiche informazioni e indicazioni sulle attività di un’impresa, bensì un mezzo e uno strumento di lavoro e promozione.

Prima di affrontare la tipologia contrattuale di “creazione di sito web”, ritengo necessario andare ad analizzare molto brevemente quella che è la base di tutto questo rapporto contrattuale, il terreno su cui i web designer, di fatto svolgono la propria attività: il contratto di hosting web. Come per costruire un’immobile è necessario del terreno, allo stesso modo, per pubblicare un sito è necessario acquisire dello spazio web. Alla base di tutto questo vi si pone quindi il cosiddetto contratto di “hosting web”, che si potrebbe  definire come il contratto  mediante il quale un soggetto acquisisce dello spazio su uno o più server di titolarità di un hosting provider, dietro pagamento di un corrispettivo.

Il contratto di hosting web, rientra nella categoria dei contratti atipici, ossia di quei contratti che non sono regolati e disciplinati direttamente dal codice civile e consiste in definitiva in una prestazioni di servizi. L’hosting provider, più specificatamente, mette  a disposizione di un altro soggetto dello spazio su uno o più computer per ospitare pagine web.

Uno degli elementi giuridicamente più rilevanti in questa tipologia contrattuale, riguarda sicuramente la responsabilità del provider per i dati che vengono salvati sui propri server dai gestori dei siti con cui ha stipulato un contratto di hosting.

Tale profilo è regolato dall’art. 16 d.l. 70/2003 (decreto legislativo con cui il legislatore italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2000/31 CE). Ai sensi di tale articolo:

nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a)    non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione;

b)    non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso.

L’art. 17 del d.l. prevede inoltre, che

il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, ne ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino fa presenza di attività illecite.

A tal proposito si ricorda, una importante sentenza del Tribunale di Roma del 2009, con la quale la Corte ha cercato di chiarire e precisare la portata di suddetti disposti normativi, affermando che “sebbene l'internet provider non sia assoggettato ad un generale obbligo di sorveglianza sui contenuti memorizzati, in quanto ciò si risolverebbe in una inaccettabile responsabilità oggettiva, egli è tuttavia soggetto a responsabilità quando non si limiti a fornire accesso alla rete, ma eroghi servizi aggiuntivi (caching, hosting ) e/o predisponga un controllo delle informazioni e, soprattutto, quando, consapevole della presenza di materiale sospetto, si astenga dall'accertare la illiceità e dal rimuoverlo o se, consapevole dell'antigiuridicità, ometta di intervenire”.[1]

Il Tribunale, pertanto, posto che non sussiste in capo al provider un obbligo generale di sorveglianza, ha ritenuto necessario perché possa configurarsi una responsabilità civilistica in capo allo stesso, la conoscenza e conoscibilità da parte del provider di informazioni illecite ovvero di fatti e circostanze che rendono manifesta detta illiceità e la mancata rimozioni di dette informazioni non appena a conoscenza di tali fatti e su comunicazione delle autorità competenti. [2]

Il Tribunale con tale sentenza, riprende il concetto di responsabilità oggettiva in base al quale un soggetto può essere responsabile di un illecito, anche se questo non deriva direttamente da un suo comportamento e non è riconducibile a dolo o colpa del soggetto stesso. Tale situazione va a derogare il principio generale della responsabilità, in base al quale è necessario un preciso nesso di causalità tra il comportamento dell’individuo e l’illecito stesso.

Il presente articolo, ad ogni modo, deve considerarsi come un semplice e puro spunto di una tematica molto complessa, dettagliata e in continua evoluzione. Una specie di piccola spiegazione su quelli che sono i rapporti giuridici tra nuove tipologie di soggetti. Interessante, comunque, vedere come, seppure gli strumenti all’interno della società evolvono, le categorie e gli istituti giuridici del codice civile, rimangono sempre unica e vera base per disciplinare i rapporti commerciali e sociali.


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il grande silenzio

La buona fede nell'esecuzione del contratto

Negli ultimi anni, dottrina e giurisprudenza si sono spinte ad ampliare il concetto di buona fede in ambito di esecuzione contrattuale, definendo in maniera sempre più estesa quelli che sono gli effettivi obblighi delle parti in tutte le fasi dello svolgimento del contratto.

È principio ormai consolidato quello secondo cui  la buona fede, cioè la reciproca lealtà di condotta, debba presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e accompagnarlo in ogni sua fase. Tale obbligo impone, quindi, di considerare gli interessi che non sono oggetto di una tutela specifica e la lealtà del comportamento nell’esecuzione della prestazione stessa.

La buona fede nell'esecuzione del contratto, dunque,

“…..si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal , trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico….."[1]

Si ricorda inoltre che

“…..il comportamento secondo buona fede e correttezza del singolo contraente è finalizzato, nel rispetto del contemperamento dei rispettivi interessi, ad una tutela delle posizioni e delle aspettative dell’altra parte; in tale contesto è legittimo configurare quali componenti del rapporto obbligatorio i doveri strumentali al soddisfacimento dei diritti delle parti contraenti, cosicché è stato ritenuto che anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercuotendosi negativamente sul risultato finale avuto di mira nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e di buona fede e può quindi configurare inadempimento.[2]

Quindi, il dovere di buona fede non è solo sinonimo di astensione dal porre in essere atti lesivi degli interessi di controparte, ma deve essere interpretato come un obbligo propositivo di una parte di porre in essere tutte quelle attenzioni volte ad evitare il pregiudizio delle posizioni dell’altro contraente.

Si è visto, infatti, che la giurisprudenza partendo dal presupposto che anche un comportamento inerte di un contraente può recare dei danni all’altra parte, ha ritenuto che un comportamento omissivo può ritenersi contrario a buona fede, qualora non risulti che l’inerzia sia stata dettata solamente dalla necessità del contraente a non ledere i propri interessi.

Il dovere di buona fede deve spingere le parti a porre in essere tutti quei comportamenti che sono atti a preservare gli interessi dell’altro contraente e il limite che si interpone a questo obbligo è unicamente l’interesse proprio del soggetto contraente.


Per un pungo di dollari

Per un pungo di dollari. La nuova societa' ad 1 euro.

[:it]Parlando pochi giorni fa con dei giovani imprenditori, operanti nel settore delle start-up, ci si domandava quali fossero gli effettivi vantaggi che potrebbe apportare l’introduzione all’interno del nostro sistema giuridico la nuova società ad 1 Euro (SRLS – Società a Responsabilità Limitata Semplificata), introdotta in data 29.8.2012 dal Dm 138/2012.

Per avere un’idea più chiara delle caratteristiche apportate dal nuovo art. 2463-bis del Codice civile, si ricorda che:

  • la società può essere costituita da persone fisiche che non abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data della costituzione;
  • l'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard tipizzato;
  • il capitale sociale deve essere compreso tra 1 e 10.000 €, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione;
  • il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all'organo amministrativo;
  • gli amministratori devono essere scelti tra i soci;
  • l'atto costitutivo e l'iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili (si deve pertanto pagare l’imposta di registro di € 168 e la tassa annuale alla Camera di Commercio).

Leggendo il testo normativo e verificando anche i commenti dei vari blogs, riviste giuridiche e quotidiani, si può riscontrare che tale forma apporta effettivamente degli sgravi di spesa (non sono infatti dovuti oneri notarili), ma che di fatto non va a risolvere quelle che sono le vere problematiche degli imprenditori under 35, ovvero:

  • regimi di tassazione agevolati;
  • strumenti per facilitare un accesso a finanziamenti bancari o sussidi statali;

È necessario ricordare che il problema del capitale sociale è infatti relativo, basti pensare che i 10mila euro di capitale richiesti per la costituzione una Srl normale, non rimangono in banca congelati, ma possono essere utilizzati dai soci. Infatti, una volta costituita, la somma viene di fatto riversata sul conto della società e può essere utilizzata per comprare macchinari, computer, pagare stipendi e fornitori, registrare marchi e così via. Inoltre, se ci sono almeno due soci è sufficiente versare 2.500 euro, somma che può essere a sua volta utilizzata per gli adempimenti appena citati.

A questo si aggiunge che i costi per potere iniziare a mettere in moto una società dovranno essere sempre sostenuti dai giovani imprenditori, che, per quanto snella e leggera possa essere l’azienda, avranno comunque la necessità di investire qualche migliaia di euro per poterla azionarla (computer, macchinari, fornitori, etc.).

Da ultimo, si rileva che l’atto costitutivo, dovendo essere redatto in conformità al modello standard tipizzato, non è, secondo una prima lettura della norma, soggetto ad alcuna variazione. Tale caratteristica, che sicuramente permette di evitare le spese notarili, è di fatto limite per nulla trascurabile. Basti pensare, infatti, che tale standardizzazione comporterebbe l’impossibilità di attivare da parte dei soci amministratori della società ad 1 €, tutte le opzioni che la legge consente nello statuto di una Srl. Tra queste si possono ricordare:

la facoltà di attribuire ai soci particolari diritti;

  • la possibilità di pattuire clausole inerenti il trasferimento delle quote di partecipazione al capitale (quali l'intrasferibilità, la prelazione, il gradimento, la clausola che dispone della quota in caso di morte del socio, la clausola di covendita eccetera);
  • la possibilità di convenire cause di recesso ulteriori rispetto a quelle previste per legge;
  • la possibilità di pattuire cause di esclusione dalla società;
  • la previsione, in caso di più di amministratori, di forme di amministrazione diverse dal Cda;
  • la possibilità di prevedere un termine per l'approvazione del bilancio maggiore di quello di legge;
  • la possibilità di prevedere forme di decisioni dei soci diverse dalla riunione assembleare;
  • la possibilità di attribuire ai soci la competenza a decidere su materie diverse da quelle attribuite ai soci dalla legge;
  • la possibilità di prevedere quorum assembleari diversi da quelli prescritti dalla legge.

Sicuramente interessante vedere come sarà utilizzato questo strumento dai nuovi imprenditori e verificare se tale mezzo sia un effettivo incentivo allo slancio della nuova imprenditoria.

 

 

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La trasferibilita' a terzi dei prodotti iTunes.

[:it]È sempre più frequente e risulta sempre più facile che l'utente della rete sia spinto ad acquistare via internet prodotti, quali brani musicali o film.

La facilità di acquisto, la possibilità di accedere da remoto al proprio account, la trasferibilità su lettori mp3 ovvero su smart-phones, fa sì che il consumatore sempre più preferisca utilizzare il supporto multimediale piuttosto che quello fisico.

Ci si domanda a questo punto se la differenza tra queste due modalità di “acquisto” si limiti semplicemente ad una scelta di prodotto, oppure se siano riscontrabili delle effettive conseguenze pratico-giuridiche.

Sul punto, di recente, è stata portata avanti dall’attore Hollywoodiano, Bruce Willis, una critica che sicuramente può essere un ottimo spunto per una breve riflessione giuridica. La libreria di iTunes può essere donata in eredità?

La Apple ha dichiarato, con grande sorpresa di molti utenti, che tali beni non sono trasferibili a terzi.

In realtà, a seguito di una attenta lettura dei termini e condizioni d’uso di iTunes, si riscontra che vengono definiti come prodotti iTunes, non tanto i singoli file, bensì le licenze (d’uso) per i contenuti digitali. La principale differenza, quindi, tra l’acquisto di un CD e di un album digitale è  che nel primo caso viene trasferita effettivamente la proprietà del bene fisico, invece, nel secondo si acquista semplicemente una licenza d’uso personale, quindi la licenza ad utilizzare per uso prettamente personale e non commerciale il file stesso.

Leggendo, inoltre, i termini e le condizioni d’uso di iTunes si può rilevare che il titolare di un account iTunes non ha alcun diritto di modificare, affittare, noleggiare, prestare, vendere, distribuire, o creare le licenze acquistate, (definita anche come clausola di non trasferibilità). Pertanto il titolare dell' account ha il diritto all'uso dei file a fini prettamente personale, senza alcuna possibilità di trasferirli a terzi e, quindi, di lasciarli in eredità.

Tale argomento, che si rivolgerà sempre ad una più ampia fetta di mercato, risulta pertanto essere del tutto non privo di interesse, considerato che l’acquisto on-line riguarda sempre più non semplicemente file musicali, bensì anche film ed e-books.

 

 

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Meta-tag

L’uso illecito del “meta-tag”. Fattispecie di contraffazione di marchio e concorrenza sleale?

[:it]Per meta-tag si fa riferimento a quelle parole chiave, codificate solitamente nel linguaggio HTML, che seppur non  riportate su video, vengono comunque utilizzate dai motori di ricerca al fine di indicizzare i vari siti. Attraverso un meta-tag, dunque, il gestore di un sito può inserire le parole chiave riguardanti la propria pagina web (c.d. keyword meta-tag) al fine di renderlo attraverso l'utilizzo dei motori di ricerca.

Potenzialmente, quindi, una gestore di un sito potrebbe inserire come parola chiave il nome di un marchio molto famoso, al fine di fare apparire il proprio sito tra i primi risultati ogni volta che un utente compia una ricerca utilizzando il nome del marchio noto oppure, inserisca il marchio di un proprio concorrente al fine di apparire tra i risultati ogni volta che venga fatta una ricerca dal consumatore che indica come parole chiave il marchio della società concorrente. (Es. la società XYZ S.R.L. che opera nel settore del mobilificio utilizza come meta-tag il marchio della società concorrente 123 S.P.A.)

Ci si domanda in dottrina e giurisprudenza se tale comportamento possa di per se configurare un illecito, posto che il nome o il marchio altrui, non viene posto esternamente nel sito, ma rimane visibile solamente ai motorio di ricerca.

Gli illeciti configurabili sono potenzialmente due: concorrenza sleale e contraffazione di marchio.

1.    Concorrenza sleale

Quanto alla concorrenza sleale, si è pronunciato il Tribunale di Milano, nel ormai noto caso “Solatube”, affermando che: “l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c., in quanto determinante il costante e indebito abbinamento nei risultati della ricerca sui vari motori di ricerca del web idoneo a determinare uno sviamento della clientela in violazione dei principi della correttezza commerciale.”[1]

2.    Contraffazione di marchio

La sentenza appena citata, che configura la sussistenza della violazione dell’art. 2598 n. 3 c.c., stabilisce che l’uso da parte di una società concorrente di un meta tag riproducente il macchio di un’altra società non costituisce contraffazione del marchio difettando in esso ogni funzione distintiva di servizi e prodotti proprie del marchio.

Contrariamente, secondo autorevole dottrina, qualora un soggetto utilizzi come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI (Codice della Proprietà Industriale). Tale violazione si estenderebbe, infatti, ai prodotti e servizi non affini, qualora venga utilizzato come parola chiave un marchio noto.[2] A sostegno di detta tesi, parte della dottrina ritiene appunto ragionevole riconoscere anche al meta-tag funzione pubblicitaria in senso lato.[3]

3.  Pubblicità subliminale

Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07, che prevede che la pubblicità debba essere chiaramente riconoscibile come tale.[4]

 

RISASSUMENDO

  • l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c
  • secondo autorevole dottrina, l’utilizzo di un  come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI
  • Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07

[1] Tribunale Milano, 20/02/2009, Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI)

[2]Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI); E. TOSI, Diritto privato dell’informatica, DNT, 12, 490 ss.; CASSANO, Orientamento dei motori di ricerca, concorrenza sleale e meta-tag, in Riv. dir. Ind., Milano 2009, 56

[3] Si veda quanto affermato dal il TOSI, nella nota alla sentenza del Tribunale di Milano del 20.2.2009: “a sostengo di quanto sopra affermato, l’ampio disposto dell’art. 2 lett. A) del d.lgs. 2 agosto 2005, n. 147 [..] stabilisce che per pubblicità deve intendersi qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività d’impresa allo scopo di promuovere la vendita di beni, la prestazione di opere o di servizio.”

[4] BONOMO, il nome a dominio e la relativa tutela. Tipologia delle pratiche confusorie in internet, 247 ss.; PEYRON, i meta-tags di internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giur. It., 1998, I, 739 ss.

 

 

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nannimoretti

Il conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni assembleari.

[:it]Il conflitto di interessi si potrebbe definire come il limite che il socio incontra nel suo diritto di espressione di voto.

Importante ricordare che perché questo venga effettivamente configurato sono necessarie due presupposti:

  1. che il socio persegua un proprio fine
  2. che suddetto fine si contrapponga concretamente con l’interesse generale della società[1]

Ci si richiede pertanto cosa accada qualora un socio in conflitto di interessi voti una deliberazione dell'assemblea di una società per azioni con la quale si decida la proposizione dell'azione sociale di responsabilità nei confronti dell'amministratore.

Mentre l’art 2373 c.c. ante riforma sanciva espressamente un divieto di esercizio del voto per il socio appunto in conflitto d’interessi, la disposizione attuale, invece, pone al socio la scelta tra votare rinunciando al proprio interesse personale potenzialmente in conflitto ovvero astenersi dal voto.

Qualora questi optasse per l’astensione l’art. 2368 comma 3, prevede che le azioni sono computate ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo, ma non ai fini del calcolo di quello deliberativo.  Importante osservare che l’impugnabilità della delibera sia giustamente subordinata al fatto che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato determinante per il raggiungimento del quorum.

Pertanto il diritto di voto del socio è rimesso ex art. 2373 comma 1 al suo apprezzamento delle conseguente che potranno derivarne. La delibera assembleare conserva, pertanto, intatta la sua validità, a meno che questa non sia stata presa con voto determinante del socio in conflitto. Quest’ultimo sarà quindi libero di scegliere se astenersi oppure no dall'esercizio di voto.[2]

Altro problema è se i soci-amministratori possano votare sulle deliberazioni concernenti le loro rispettive responsabilità. In realtà seppur l’art. 2373 comma 2 sancisce espressamente un divieto per tale ipotesi, ci si domanda se l’assemblea viene chiamata a deliberare per un’azione di responsabilità dell’amministratore Caio, Tizio (anch’egli socio-amministratore), possa esercitare il proprio diritto di voto.

Sul punto si è espresso recentemente un importante lodo arbitrale che ha affermato che: “in conformità al principio della responsabilità per fatto proprio, il voto del socio-amministratore sulla responsabilità degli altri amministratori è ammissibile e dovrà pertanto essere computato ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo, trovando invece applicazione il divieto previsto dall'art. 2373, comma 2, c.c. unicamente nel caso in cui la deliberazione abbia a oggetto la responsabiltà dello stesso socio-amministratore votante e non quando la deliberazione abbia a oggetto la responsabilità di altro amministratore”[3].

RIASSUMENDO

  • perché il conflitto di interessi sussista è necessarie che il socio persegua un proprio fine e che suddetto fine si contrapponga concretamente con l’interesse generale della società
  • la disposizione attuale dell’art. 2373 pone al socio la scelta tra votare rinunciando al proprio interesse personale potenzialmente in conflitto ovvero astenersi dal voto
  • in caso di astensione l’art. 2368 comma 3, prevede che le azioni sono computate ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo, ma non ai fini del calcolo di quello deliberativo
  • l’impugnabilità della delibera è subordinata al fatto che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato determinante per il raggiungimento del quorum
  • seppur l’art. 2373 comma 2 sancisce un divieto per i soci-amministratori di votare sulle deliberazioni concernenti le loro rispettive responsabilità, in conformità al principio della responsabilità per fatto proprio, il voto del socio-amministratore sulla responsabilità degli altri amministratori è ammissibile

[1] Si rende necessario ricordare che l’interesse debba essere obbiettivamente confliggente con quello sociale. In caso di mancata dimostrazione la deliberazione non è annullabile e questo anche se risulti che il voto fu dato ad es. per un ripicco personale in odio agli amministratori o per assumere una posizione di vantaggio nei confronti degli altri soci (Codice commentato delle S.p.a., Fauceglia – Schiano di Pepe, 2007, UTET)

[2] Diritto Societario, Gastone Cottino, pg. 346 ss., 2006 CEDAM

[3] Collegio arbitrale, 2 luglio 2009, Giur. comm. 2010, 5, 911, nota De Pra

 

 

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