Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?

Quale è la differenza principale tra l'agente e il procacciatore d'affari?

Per rispondere a questa domanda, bisogna innanzitutto definire le due figure professionali.

La definizione di agente, o meglio, di contratto di agenzia è data dal codice civile, che dispone all'art. 1742 c.c. che

"col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione la conclusione di contratti in una zona determinata." (l'agente di commercio in Germania)

La figura del procacciatore  non viene espressamente disciplinata dal codice civile ed appartiene, per questo, alla categoria dei contratti atipici, ossia dei contratti non espressamente regolati dal diritto civile, ma creati ad hoc dalle parti. Una definizione è stata comunque data dalla giurisprudenza che ha qualificato il procacciatore come colui che:

  • "raccoglie le ordinazioni dei clienti trasmettendole alla ditta da cui ha ricevuto l'incarico di procurare tali commissioni, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto occasionale." (Cass. Civ. 1999 n.1078);
  • "esercita attività di intermediazione per favorire la conclusione di affari, quando l'attività è esercitata in modo saltuario ed occasionale" (Cass. Civ. 1999 n.1078).

Da tali definizione, si evince che il procacciatore d'affari si distingue dall'agente di commercio essenzialmente con riguardo alla stabilità dell'incarico. Mentre l'agente si impegna a promuovere (appunto) stabilmente la conclusione di affari, il procacciatore non assume alcun obbligo di collaborazione continuativa e può, pertanto, decidere liberamente se promuovere o meno un affare (cfr. anche Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale)

Quanto al requisito dell'occasionalità, ossia alla frequenza degli affari che vengono trasmessi, in dottrina e giurisprudenza ci si domanda come tale parametro debba essere realmente interpretato quale criterio distintivo dell'attività di mero procacciamento rispetto all'agenzia. In un importante sentenza del 1999, la Corte si è così espressa:

"Per quanto riguarda il carattere della continuità, occorre osservare che essa non va confusa con il concetto di stabilità. La stabilità, difatti, significa che la prestazione si ripete periodicamente nel tempo, non soltanto di fatto, come nella prestazione continua, ma anche in osservanza di un impegno contrattuale (art. 1742, comma primo, c.c.).

La differenza è ben evidente nel caso dell'agente e del procacciatore d'affari. La prestazione del primo è stabile in quanto egli ha l'obbligo di svolgere un'attività di promozione di contratti; la prestazione del secondo, invece, è occasionale nel senso che non corrisponde ad una necessità giuridica, ma dipende esclusivamente dall'iniziativa del procacciatore" (Cass. Civ. 1998 n. 7799).

Secondo tal orientamento, dunque, per distinguere le due figure, bisogna focalizzarsi essenzialmente sugli obblighi assunti dell'intermediario: se questi si obbliga a promuovere gli affari in maniera stabile e continuativa, questi dovrò essere qualificato come agente, mentre, nel caso non si obbliga in alcun modo a promuovere l'attività del preponente, questi si qualificherà come procacciatore d'affari.  Alcuna rilevanza hanno il volume e la quantità di ordini che le due figure riescono effettivamente a promuovere: paradossalmente il procacciatore d'affari potrà promuovere e realizzare un numero di ordini nettamente superiore ad un agente, ma questi verrà comunque qualificato come procacciatore se, contrattualmente, non si è impegnato in alcun modo a promuovere l'attività del procacciatore. La prestazione del procacciatore, pertanto, è occasionale nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa.

Ci si chiede da ultimo quali disposizioni previste per il contratto di agenzia possono considerarsi applicabili in via analogia al contratto di procacciatore di affari.

Con sentenza del 23.11.2007, recentemente si è pronunciato il Tribunale di Roma, che ha considerato applicabili, in forza della distinzione intrinseca delle due figure,

"solamente quelle disposizioni inerenti al contratto di agenzia, come le provvigioni, che non presuppongono un carattere stabile e predeterminato del rapporto e non anche quelle – di legge e di contratto – che lo presuppongono."

Al procacciatore, sostanzialmente, si applicano per analogia solamente alcune norme dell'agenzia, ma deve escludersi che ad esso sono applicabili quelle che riconoscono una protezione particolare all'agente, come l'art. 1750 c.c., in materia di termini di preavviso e l'art. 1751 c.c. in tema d indennità di scioglimento del contratto.


Preavviso dell'agente ed ultrattività del rapporto contrattuale

La Corte di Cassazione ha ribadito, con sentenza n. 668 del 25 maggio 2012, il principio di ultrattività del rapporto contrattuale. Secondo tale principio, il contratto di agenzia a tempo indeterminato non cessa nel momento in cui uno dei contraenti recede dal contratto, ma solo quando scade il termine di preavviso, sancito nell'interesse e a tutela della parte non recedente.

Nel caso di specie il preponente comunicava la propria volontà risolutoria; nel corso del periodo di preavviso, anche l'agente comunicava la propria intenzione di recedere da contratto.

Secondo la Corte, proprio questa dichiarazione da parte dell'agente doveva considerarsi come una implicita rinuncia al periodo di preavviso, con conseguente impossibilità da parte dell'agente di chiedere l'indennità sostitutiva del preavviso.

Nel caso di specie, quindi, dato che "l'estinzione del rapporto resta pur sempre imputabile alla volontà del preponente, permane in campo a questi l'obbligo di corrispondere l'indennità di cessazione ex art. 1751 c.c." L'agente, infatti, ha diritto all'indennità ex art. 1751 c.c. anche quando recede dal contratto per circostanze che, pur non configurando una giusta causa, sono imputabili al preponente.

 

 

Prossima fermata: paradiso (1991)
Regia di Albert Brooks


Il contratto di agenzia in Germania.

Con il presente articolo si intendono dare al lettore alcuni elementi per meglio comprendere la regolamentazione del contratto di agenzia in Germania, la cui importanza è assai rilevante, tenuto conto del fatto che la direttiva europea in tema di agenzia si è ispirata proprio a tale modello e, conseguentemente, anche la normativa italiana, si è adeguata ad essa, con gli interventi normativi del 1991 e 1999 la figura 


1) Contratto di agenzia e lavoratore autonomo.

Nel diritto tedesco la figura giuridica dell’agente di commercio è regolata dal libro primo, settimo titolo del Codice di Commercio tedesco (HGB— Handelsgesetzbuch) e più precisamente dai §§ 84-92c. Il § 84 HGB apre questo titolo con una definizione che qualifica l’agente di commercio come colui a cui viene affidato da un preponente il compito di intercedere, in modalità di autonomo esercente, negli affari a favore di quest’ultimo ovvero di concluderli a suo nome. Autonomo è colui che svolge la propria attività in sostanziale autonomia e può regolare il proprio orario di lavoro.

Questo presupposto legislativo viene ovviamente utilizzato in sede giudiziaria, per poter distinguere l’agente di commercio dal lavoratore dipendente. La giurisprudenza ritiene la definizione di cui al § 84 comma I HGB quale parametro generale per poter distinguere le due figure giuridiche, se pur sia necessario tener conto delle circostanze del caso, nella loro integralità e totalità.

Dato il carattere generico e non facilmente interpretabile del concetto di autonomia richiesto dal § 84 HGB all’agente di commercio, la Giurisprudenza si è più volte imbattuta in questo problema. Una sentenza della Corte Federa le del Lavoro (BAG) ha indicato in una sua nota sentenza del 2003 diversi accordi contrattuali che ha definito come Arbeitnehmerverdächtig”, ossia che fanno sospettare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Si elencano qui sotto alcuni di essi:

  • richiesta di trasmissione di una previsione trimestrale sull’andamento della produzione, avente ad oggetto i singoli reparti produttivi e una previsione della valutazione percentuale della chiusura degli affari dei singoli clienti. Una tale richiesta va oltre l’obbligo di tutela degli interessi di cui al § 86 comma 1 HGB che obbliga l’agente ad impegnarsi per la vendita dei prodotti o per il perfezionamento degli affari, tenendo conto degli interessi dcl preponente;
  • ordini di blocco delle ferie. In questa maniera viene limitata l’autonomia dell’agente di determinare le ore di lavoro;
  • la denominazione del contratto è irrilevante per l’inquadramento della figura giuridica; la mancanza di un accordo sull’inizio e la fine dell’orario di lavoro e sull’indicazione dell‘organizzazione dell‘attività lavorativa sarà interpretata a favore dell’autonomia dell’agente di commercio:

Al contrario non preclude l’autonomia:

  • l’obbligo a partecipare, settimanalmente, ad conferenze telefonico di 5 ore e, in casi straordinari, di svolgere gli ordini d’incasso entro breve,
    l’imporre termini per il compimento dei lavori, così come, in periodo di assestamento dell’impresa, il blocco delle ferie pe un lasso di tempo che va da 4 fino ad 8 settimane;
  • la comunicazione degli obbiettivi di produzione, se rimane comunque un margine considerevole per l’autorganizzazione delle ore di lavoro:
    un obbligo di informazione, a meno che l’agente non sia tenuto ad un’informazione copiosa sulla sua attività ed a brevi intervalli;
  • una previsione trimestrale sull’andamento della produzione supera sicuramente l’usuale obbligo d’informazione, ma di per sé non può essere considerato come un indizio sostanzia le di subordinazione;
    il divieto di concorrenza dell’agente;
  • istruzioni sull’orario cli lavoro, in quanto anche i collaboratori del servizio esterno si devono adattare alle richieste di orario di propri clienti.

Secondo l‘OLG (Oberlandesgericht - Corte di Appello) di Koblenz la tipologia del rapporto si evince esplicitamente dalla dipendenza personale che intercorre tra le due figure giuridiche e che una dipendenza di tipo economico non è né necessaria, né sufficiente.
Il fatto che l’agente sia legato al preponente attraverso indicazioni e direttive che quest’ultimo ha il potere di emettere, in linea generale non va ad intaccare quello che è lo status dell’agente di lavoratore indipendente. Il lavoratore dipendente è colui che, contrariamente all’agente, svolge le sue prestazioni inquadrato all’interno di una organizzazione definita da un terzo. Rilevanti per la qualificazione della figura giuridica sono le circostanze in cui è stata compiuta la prestazione e le modalità di pagamento ovvero connotati puramente formali come il pagamento delle tasse al parti del pagamento degli enti di previdenza ed assistenza sanitaria o il tenere fascicoli personali dell‘agente.


2) Il diritto alla provvigione.

L’agente ha in base al § 87 comma 1 HGB diritto alla provvigione. Questi può esercitare tale diritto su tutti gli affari la cui conclusione è stata resa possibile grazie ad un ‘attività a lui riconducibile ovvero agli affari conclusi con terzi acquisiti dall’agente come clienti per affari dello stesso tipo (§ 87 comma HGB). Pertanto, per potersi rivendicare il diritto alla provvigione è sufficiente qualsiasi cooperazione dell’agente che abbia reso possibile che abbia portato alla concreta conclusione dell’affare.

Le parti possono comunque convenire una clausola derogatoria. Importante sottolineare che il secondo comma dell'art. 87 HGB prevedere che  "il diritto alla provvisione viene meno quando è certo che il terzo non adempie, le somme già ricevuto dovranno essere restituite" ( 87a comma 2 HGB) (cosidetto star del credere).

Importante specificare che se il preponente non esegue l’affare completamente o parzialmente in modo corretto oppure nella maniera in cui era stato stipulato, l’agente ha comunque diritto alla provvigione ( 87-a comma 3 HGB). Ad ogni modo decade il diritto della provvigione qualora il mancato adempimento sia d’attribuire a condizioni che non sono riconducibili alla sfera di responsabilità del preponente.

La Corte di Cassazione tedesca (BGH – Bundesgerichtshoff) si è pronunciata recentemente sul §87a comma 2 HGB specificando che questo non si applica qualora il terzo non abbia adempiuto a causa di una mancata esecuzione dell’affare da parte del preponente ovvero per cause che sono da imputare al preponente. La Corte, inoltre, specifica che il preponente è responsabile di tutte le situazioni che hanno portato alla mancata esecuzione dell’affare, non solamente quando queste sono attribuibili ad una sua colpa personale, bensì anche quando queste sono da ricondurre ad un rischio di tipo imprenditoriale ovvero aziendale.

Seppur sia nell’interesse del preponente ricevere da parte dell’agente il più elevato numero di offerte, rimane fermo il diritto del preponente di decidere se accettare l’affare propostogli. Questo potere decisionale in capo al preponente, risulta indirettamente dal 86a comma 2 HGB, che obbliga quest’ultimo a comunicare all’agente l’intenzione di accettare in numero notevolmente minore gli affari procacciati dall’agente. Questo potere decisionale non è comunque illimitato: il preponente non può rifiutare del tutto arbitrariamente la conclusione di un contratto procacciato. Bisogna inoltre sottolineare che la giurisprudenza ritiene estraneo ai poteri del giudice, interferire nella politica dei l’impresa, valutando le decisioni prese da quest’ultima. Per questo il giudice deve accettare ogni decisione che possa apparire per lo meno plausibile.


3. L'agente di zona.

A fianco la figura dell’agente si colloca quella dell’agente di zona (Bezirkshandelsvertreter). Tale figura è caratterizzata dal fatto di doversi occupare in maniera esclusiva di una zona, affidatagli dal preponente oppure, in altri casi,  di una determinata clientela.

Il § 87 comma 2 HGB prevede, per l’agente di zona, il diritto alla provvigione anche per gli affari che sono stati conclusi, all'interno della zona attribuitagli, seppur senza la sua collaborazione. Proprio per questo motivo, è  evidente che la nomina di un agente di zona possa debba essere piuttosto occulata. Si parte dal presupposto che l’agente possa considerarsi di zona, qualora sia stato qualificato in maniera sufficientemente chiara come tale. In caso di controversia l’onere della prova ricade su colui il quale sostiene che l’agente rivesta tale qualifica. Eventuali incertezze contrattuali devono essere chiarite dalla parte che ha stipulato il contratto.

Quanto agli obblighi dell'agente, questi nello svolgere la propria attività,  deve curare la propria zona continuamente e con particolare attenzione e solamente agendo secondo questi criteri avrà diritto alla provvigione.

Una piuttosto recente sentenza del BGH ha sancito che un’attività al di fuori della zona non può essere considerata impedita a priori. Infatti, qualora il preponente accettasse l’affare, questo può essere considerato come tacito allargamento della zona ovvero della clientela.

Di regola l’agente di zona, che con il consenso del preponente svolge attività al di fuori di questa o con clientela diversa da quella accordata, matura egualmente il diritto alla provvigione di cui al § 87 comma 1 HGB. Resta comunque la facoltà delle parti di accordarsi diversamente.


4. Vendite dirette senza l'intervento del produttore.

La vendita diretta a un cliente da parte del produttore, nonostante questi abbia concesso un diritto di esclusiva al rivenditore, è da considerarsi inadempimento contrattuale. Ma anche nel caso in cui non sia stata concessa l'esclusiva, il produttore non può effettuare, secondo mero arbitrio, vendite dirette ai clienti nella zona di competenza del rivenditore.

Secondo la Corte Federale di Giustizia tedesca, il produttore deve infatti tenere in debito conto e non può contrastare, senza fondati motivi, gli interessi legittimi del rivenditore il quale assoggetta la propria attività e la gestione operativa alle esigenze del produttore.

In una sentenza della Corte di Appello di Düsseldorf del 21.06.2013 (R.G. n. 16 U 172/12) i giudici hanno invece negato la sussistenza di una violazione dell'obbligo di fedeltà perché il produttore non aveva in modo arbitrario ignorato gli interessi legittimi del rivenditore. Nella fattispecie i clienti avevano infatti ribadito di desiderare la vendita diretta da parte del produttore, altrimenti non avrebbero acquistato i prodotti.

Considerando che il rivenditore disponeva solo di un diritto di esclusiva di fatto, che non era stato contrattualmente pattuito, questa decisione dei clienti costituiva, secondi i giudici, un motivo sufficiente per l’ammissibilità della vendita diretta a questi clienti, tanto più che il produttore aveva in precedenza offerto al rivenditore il versamento di una provvigione a titolo di compensazione.


5. Dichiarazione di fallimento e diritto alla provvigione.

In base al § 115 comma I in correlazione con il 116 comma I InsO (lnsolvenzordnung - “legge fallimentare”) l’apertura del procedimento fallimentare porta alla risoluzione del contratto d’agenzia, senza necessità di preavviso. Una continuazione delle attività contrattuali è possibile solamente a seguito di un accordo, anche tacito, tra l’agente e il curatore fallimentare.

Quanto ai diritti alla provvigione maturati a seguito della conclusione dcl nuovo contratto, questi devono essere considerati sempre come crediti prededucibili (debiti della massa) § 55 comma I, punto InsO. Nel caso in cui le attività svolte dall’agente prima dell‘apertura del procedimento fallimentare non abbiano ancora portato alla conclusione di un contratto con il terzo, il diritto alla provvigione dipende dalla scelta del curatore di concludere o meno l’affare con il terzo.

In caso positivo, il diritto alla provvigione si considera alla luce dcl 55 comma I punto InsO come credito privilegiato.

In caso contrario il diritto alla provvigione sussiste comunque indipendentemente dal fatto che il curatore abbia optato per la conclusione del contratto con il terzo o l’abbia rifiutata. In tal caso la provvigione viene considerata come credito chirografaria ex § 38 InsO.

Diverso discorso, invece, per quanto riguarda al diritto dell'agente all’indennità di non concorrenza di cui al § 90a comma 1 HGB; in questo caso, il diritto viene meno in caso di risoluzione del contratto a seguito di apertura del fallimento. Contemporaneamente, tale evento fa cessare anche il divieto di concorrenza dell’agente che le parti avevano pattuito.

Infine, se all’apertura del fallimento il contratto era già risolto il curatore fallimentare può richiedere ex § 103 InsO il mantenimento del divieto di concorrenza ed il diritto al risarcimento costituisce credito sulla massa fallimentare.


Cassazione: abuso del diritto anche in materia tributaria.

[:it]Per la Cassazione l’abuso di diritto è configurabile anche in materia tributaria.

Le recenti sentenze 3242/2013 e 4901/2013 hanno riconfermato che l’istituto dell’abuso del diritto sia applicabile anche in materia tributaria.

Per comprendere appieno il dettato, è preliminarmente necessario comprendere il concetto di abuso del diritto, stando attenti di applicare una netta distinzione tra evasione fiscale ed abuso ed elusione.

Contrariamente da altri paesi europei, quali, ad esempio, Germania, Grecia, Svizzera, Portogallo, l’Italia non ha recepito come norma di legge il principio in dell’abuso del diritto. Tuttavia, a livello civilistico, dottrina e giurisprudenza hanno sviluppato tale ampiamente detto istituto. Un’ottima definizione è stata data dalla Corte di Cassazione, che ha previsto che “si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando un sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti” (Cass. Civ. 2009/20106).

In ambito tributario, la figura dell’abuso è stata introdotto, invero, con la sentenza del 13 maggio 2009, n. 10981 la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, con cui ha affermato che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.

In sostanza, il concetto di abuso del diritto tributario è stato, di fatto, un allargamento del concetto di elusione,circoscritto (erroneamente) a fattispecie casistiche (art. 37-bis del Dpr 600/1973).

Le recenti sentenze oggetto di esame, hanno risancito l’applicabilità dell’istituto dell’abuso anche in ambito tributario. Nello specifico, hanno stabilito che qualora un contribuente, esercitando un diritto espressamente riconosciutogli, non persegua, in realtà, un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, realizzando anzi un obiettivo contrario, non può essergli riconosciuta alcuna tutela giurisdizionale. Infatti, il soggetto abusa della libertà di adottare un certo trattamento per i propri vantaggi, sfruttando la varietà di forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione.

Quindi, al contrario dell’evasione, che si realizza quando vi è un occultamento di ricchezza imponibile ovvero l’alterazione di un fatto economico (come la simulazione, l’interposizione fittizia), l’abuso e l’elusione, al contrario, si verificano quando il vantaggio fiscale del contribuente è indebito, poiché ottenuto attraverso il superamento (o abuso) del vantaggio riconosciutogli espressamente da una norma, andando a perseguire un vantaggio disapprovato dal sistema.

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Cassazione: banca non onerata ad avvertire l’elevazione di un protesto.

[:it]Secondo una piuttosto recente sentenza della Corte di Cassazione, 12.2.2013 n. 3286, la banca non è onerata ad avvertire il cliente prima della elevazione del protesto di un assegno emesso per mancanza di fondi.Nel caso in analisi, la Suprema Corte ha respinto la pronuncia del grado di appello, promosso da un istituto bancario, erroneamente condannato al risarcimento dei danni subiti dal correntista.

Nella fattispecie, gli Ermellini, hanno ritenuto che non si può rilevare un interesse legittimo, da parte del correntista, nel legittimo affidamento ad essere informato dell’invio di un assegno per l’elevazione del protesto. Nello specifico, hanno evidenziato che una tale aspettativa, non viene tutelata dal nostro ordinamento, avendo ad oggetto un interesse di mero fatto, per nulla assimilabile ad un interesse legittimo. La Corte, sul punto, contestava il rimando, da parte della Corte di Appello, alla decisione delle Sezioni Unite n. 500, del 22.7.1999.

Si ricorda, brevemente, che quest’ultima sentenza ha affermato che un danno può essere risarcito ex art. 2043 c.c., solamente qualora abbia ad oggetto “un interesse rilevante per l’ordinamento; sia esso un interesse indifferenziatamente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo) ovvero nelle forme dell’interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto.” Nel concludere, la sentenza evidenzia che l’evento dannoso derivante da un protesto, non può essere riferibile alla condotta dell’istituto di credito, ma unicamente al correntista. Questi, invero, è sempre a conoscenza dello stato del proprio conto corrente, proprio per tale ragione, un eventuale protesto per mancanza di fondi sarà unicamente a questi addebitabile, non avendo, pertanto, diritto alcuno ad un avviso preventivo da parte dell’istituto.

 

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Flash of genius

La tutela del software. Brevettabilita' o copyright?

[:it]Come è tutelato il software? È brevettabile? Cosa si intende per tutela tramite copy-right?

A queste domande ha dato risposta la Corte di Giustizia, in una sentenza storica del 2.5.2012 (causa C-406/10), con la quale ha interpretato la direttiva 91/250/CEE.

Nello specifico la Corte ha esposto che:

  • il linguaggio di programmazione e il formato di file di dati utilizzati nell’ambito di tale programma non sono tutelati dal diritto d’autore sui programmi;
  • colui che ha in licenza una copia di un software può, senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore, osservare, studiare o sperimentare il funzionamento di detto programma.

Alla base di questa decisione, sussiste una politica adottata dall’Italia e l’Europa già da diversi anni, che hanno scelto la strada della tutela dei software mediante il diritto d’autore, dovendosi considerare brevettabili solamente i software che producono un effetto tecnico.

Tanto da intendere brevemente la differenza tra i due approcci, basti pensare che:

  • il diritto d'autore è riconosciuto automaticamente all'autore ex art. 2575 c.c.;
  • l'attribuzione di un brevetto (art. 2585 c.c.) deve essere invece richiesta esplicitamente ad un ufficio brevetti, effettuando preventivamente una ricerca per verificate l'originalità della propria creazione.

Il legislatore europeo e quello italiano hanno optato per la scelta della tutela a mezzo copyright dei software, al fine di contemperare i contrapposti interessi in gioco: da un lato il progresso tecnologico e, dall’altro, i produttori di software.

In questo modo, infatti, è stato concesso all’autore la possibilità di sfruttamento economico della creazione intellettuale e, al tempo stesso, è permesso a tutti di fruire del progresso raggiunto (posta la non brevettabilità del prodotto) evitando che si creino stabili posizioni di monopolio culturale e tecnologico.

 

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Il postino

L’utilizzo della PEC in ambito di esecuzione presso terzi

[:it]Dal primo gennaio obbligo per il creditore procedente di indicare l’indirizzo di posta certificata nell’atto di pignoramento.

A partire dal 1° gennaio 2013, si applicano a pignoramenti verso terzi le modifiche al codice di procedura civile intro.otte dall’art. 1, comma 20, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 in G.U. del 29 dicembre 2012 n. 302.

Nello specifico, la riforma prevede che il creditore procedente deve indicare l’indirizzo di posta certificata, (alias PEC), nell’atto di pignoramento (art. 543 c.p.c.) e, inoltre, l’indicazione che il terzo creditore può svolgere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. anche a mezzo PEC.

Si ricorda, brevemente, che già con le modifiche adottate dalla legge 52/2006, era consentito al terzo, nei casi di crediti non di lavoro, di rendere la dichiarazione anche a mezzo raccomandata postale. Con la riforma, dunque, il terzo può decidere di rendere detta dichiarazione via mail certificata evitando aggravi di costi e complicanze.

È forse il caso di sottolineare che il terzo pignorato, chiamato a dichiarare, se si trova in possesso di cose del debitore esecutato o se sia nei confronti di quest’ultimo a sua volta debitore di somme di denaro, non assume la qualità di parte nell’ambito del processo esecutivo, mentre, in caso di dichiarazione mancata, negativa o contestata, diviene parte convenuta nell’eventuale giudizio da instaurare per accertare il suo obbligo verso il debitore. Il legislatore ha, inoltre, modificato gli artt. 548 e 549 c.p.c. Si legge nel nuovo testo dell’art. 548 c.p.c. che, nel caso di crediti di lavoro (545 comma 3 e 4 c.p.c.), la mancata dichiarazione del terzo o la sua mancata comparizione all’udienza stabilita dal creditore equivale a non contestazione del credito. Invero, per i crediti diversi da quelli di lavoro, il nuovo 548 c.p.c. comma 2 prevede che, qualora il creditore dichiari di non avere non aver ricevuto alcuna dichiarazione del terzo e, inoltre, il terzo non compare all’udienza fissata dal creditore, il Giudice fissa con ordinanza, da notificare al terzo, una nuova udienza; se neppure a questa seconda udienza il terzo non compare, il credito si considera non contestato. Da ultimo, il nuovo 549 c.p.c. prevede, che, se sulla dichiarazione del terzo sorgono contestazioni, queste sono risolte dal Giudice con ordinanza basata sugli opportuni accertamenti. L’ordinanza è, in caso, contestabile ex art. 617 c.p.c.

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Si può fare

[:it]Il negato trasporto di persone disabili. Il Tar Marche riconosce il danno morale[:]

[:it]Il Tar Marche ha riconosciuto il danno morale alla famiglia di una ragazza portatrice di handicap alla quale era stato negato il servizio di trasporto scolastico.

In data 11.1.2013 è intervenuto il TAR Marche, con la sentenza n. 32/2013, in materia di danno esistenziale, chiarendo alcuni aspetti relativi alla configurabilità e quantificazione del danno, in caso di negato trasporto di persona disabile, da parte della P.A.

Il caso di specie, invero, ha visto una ragazza portatrice di handicap, alla quale è stato negato, per un determinato periodo di tempo, il servizio di trasporto scolastico da parte del Comune di Cartoceto.

Il TAR, ha accolto il ricorso della famiglia contro il comune, che, non solo non era intervenuto a seguito delle richieste dei genitori, bensì aveva opposto solo un ingiustificato silenzio.

Nello specifico il TAR osserva che il danno patito dalla famiglia è, appunto, derivato dall’ingiustificato ritardo con cui il Comune si è attivato al fine di garantire al disabile il funzionamento del servizio. Il risarcimento, dovuto ex art. 2 -bis della L. n. 241/1990 si è configurato “colpa d’apparato” del Comune.

Riguardo, invece, l’esistenza di un nesso di causalità tra il disservizio ed il danno dei famigliari, il Giudice ha riconosciuto un pregiudizio di natura morale e psicologica, cagionato al genitore di un figlio disabile, al quale venga negato un servizio assistenziale, previsto dalla legge, solo per ragioni burocratiche, dovendo provvedere la famiglia stessa a supplire il disservizio.

Da ultimo il TAR rigetta le richieste attore aventi ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno esistenziale, posta la brevità e transitorietà del pregiudizio arrecato e insussistenza di alcuna prova circa il peggioramento del rendimento scolastico a causa delle ripetute assenze.

 

 

 

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Johnny Stecchino

Imprenditore evasore assolto dal Tribunale: la P.A non lo aveva pagato.

[:it]Per il Gip milanese se la PA non paga i propri debiti verso i fornitori, non può pretendere che questi vengano condannati per evasione.

Può considerarsi colpevole l’imprenditore che evade le tasse, se lo Stato non paga i propri debiti? A tale quesito ha risposto una recente sentenza del Tribunale di Milano, che si è trovato a decidere su un caso di forte interesse socio-economico. Nello specifico, l’amministratore delegato di una azienda milanese, la Sintea Plustek di Assago, aveva fornito a tre Asl e ad un ospedale della Campania dal 2005 prodotti per importo complessivo di un milione e 700mila euro. Ad ogni modo, tali forniture non venivano pagate dalla PA. Malgrado l’inadempimento da parte della PA, l’impresa risultava comunque debitrice nei confronti del fisco di ca. 180.000 € di iva per le fatture emesse. Per tale motivo veniva azionato un procedimento penale, nei confronti legale rappresentate della società, per evasione fiscale.

Il Gip di Milano, Claudio Castelli, ha deciso l’assoluzione dell’imputato posto che questi, come si legge nella motivazione della sentenza “è stato costretto a non pagare da un comportamento omissivo e dilatorio da parte di enti pubblici che avrebbero dovuto pagare.”

La sentenza in esame è di particolare interesse, posto che la Corte ha voluto tutelare non tanto il diritto del singolo imprenditore, ma di una (oramai ampia) categoria di aziende italiane ridotte spesso al collasso per colpa di inadempimenti statali. Si ricorda, da ultimo, un caso analogo che vedeva coinvolto il legale rappresentante della comunità di recupero per tossicodipendenti ‘Saman’. Nella fattispecie la comunità vantava, nel 2009, crediti nei confronti di Asl di due milioni e mezzo, e debiti nei confronti del fisco per un milione e 750 mila euro. Il Gip aveva a suo tempo assolto l’imputato posto che il mancato pagamento dell’erario era da considerarsi un “caso di forza maggiore”, non potendosi riscontrare alcun dolo da parte dell’amministratore.

Importante sottolineare, da ultimo, che le assoluzioni nei due processi penali, non prescindono dall’obbligo delle società di versare le imposte dovute, il cui ammontare era stato quantificato nel parallelo procedimento tributario.

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L'aereo più pazzp del mondo

[:it]CGUE: volo cancellato? obbligo di prestare assistenza ai passeggeri.

[:it]La Corte di Giustizia, con la sentenza del 31 gennaio 2013 nella causa C-12/11, si esprime nuovamente sulla questione avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da ritardi e disagi dei voli aerei.

Si ricorda, brevemente, che con la Sentenza del 23 ottobre 2012, n. 629/10, la Corte ha affermato che, in caso di sbarco del passeggero con ritardo di tre ore dopo l’orario previsto, si applicano i parametri di risarcimento del danno dettati dal Regolamento CE n. 261/2004, che prevede, per l’appunto, il diritto dei passeggeri di ricevere una compensazione forfettaria di importo compreso tra 250 e 600 euro, in caso di cancellazione del volo.

Nella sentenza del 23 ottobre, veniva inoltre specificato che il risarcimento non possa essere chiesto qualora il vettore aereo dimostri che il ritardo è stato causato da circostanze eccezionali, che non si sarebbero potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso, ossia circostanze che sfuggono all’effettivo controllo del vettore aereo.

Con la Sentenza oggetto di esame la Corte di Giustizia specifica sul punto che, anche in caso di forza maggiore, le compagnie non sono esonerate dall’obbligo di prestare assistenza ai passeggeri rimasti a terra. Pertanto, anche se il volo è stato cancellato a causa di circostanze eccezionali quali la chiusura dello spazio aereo – nel caso di specie appunto l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull – il vettore è comunque obbligato a prestare assistenza senza limitazioni di tempo o di denaro ai passeggeri, fornendo loro alloggio, pasti e bevande.

Peraltro, la Corte sottolinea che, quanlora il vettore aereo non ha adempiuto al suo obbligo di prestare assistenza al passeggero, quest’ultimo può ottenere, soltanto il rimborso delle somme che risultino necessarie, appropriate e ragionevoli.

 

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