convenzione di vienna

Condizioni generali di contratto: battle of the forms, Convenzione di Vienna e codice civile.

Capire se, quando e con che limiti le condizioni generali di contratto si applichino al rapporto di vendita è lo scopo del presente articolo, con cui si cercherà di delineare le differenze che intercorrono tra la normativa civilistica e la disciplina della Convenzione di Vienna.

Nelle trattative commerciali è tutt’altro che infrequente che l’acquirente, mentre manifesta al venditore la propria volontà di accettare la proposta pervenutagli, includa nella sua dichiarazione condizioni aggiuntive o difformi rispetto a quella utilizzate dalla controparte.

Talvolta succede che l’acquirente si limiti ad accettare la proposta, allegando all’interno della comunicazione le proprie condizioni generali di acquisto talvolta le condizioni generali non sono neppure allegate alla conferma d’ordine, ma unicamente richiamate (ad esempio per mezzo di un link che rimanda ad una pagina del sito ove sono caricate). Succede ancora che entrambi i contraenti accludano le proprie “general terms and conditions” a tutta la documentazione che si scambiano nel corso delle trattative destinate ad una determinata vendita, se non addirittura nel corso del loro ben più ampio rapporto commerciale (all’interno di ordini d’acquisto, email, fatture, sito internet, bolle di consegna, ddt, etc.).

Capire se, quando e con che limiti le condizioni generali di contratto (CGC) si applichino al rapporto di vendita è lo scopo del presente articolo, con cui si cercherà (per quanto possibile) di delineare le differenze che intercorrono tra la normativa civilistica e la disciplina della Convenzione di Vienna (CISG).

Con il fine di dare all’articolo un approccio sistematico e sperando che ciò possa rendere più comprensibile una questione certamente tutt’altro che facile, si preferisce procedere per step, analizzando in primo luogo cosa succede se solamente uno dei contraenti ha richiamato le proprie CGC nella fase di conclusione del contratto, per poi passare alla situazione più complessa, relativa alla fattispecie per cui entrambe le parti hanno richiamato le loro CGC (c.d. “battle of the forms”).

1. Proposta ed accettazione: art. 1229 c.c. e art. 19 CISG.

Seppure la Convenzione di Vienna non contenga una norma che regolamenti espressamente le condizioni generali di contratto, posto che nella sua Parte II (art. 14-23) viene disciplinata in maniera esaustiva la disciplina della “formazione del contratto”, per comprendere a quali requisiti di forma sottostanno le CGC sarà necessario rifarsi alle norme ivi contenute.[1]

– Leggi anche: Proposta, accettazione e responsabilità precontrattuale. Convenzione di Vienna e codice civile a confronto.

In particolare, l’art. 19(1) della Convenzione, dispone che una risposta ad una proposta contrattuale tesa ad essere un’accettazione, ma che contiene aggiunte, limitazioni o altre modificazioni, è da considerarsi come un rifiuto della proposta stessa e vale perciò come controproposta.

Da una prima lettura di tale previsione, sembrerebbe che anche la CISG adotti il principio recepito dall’ordinamento civilistico di cui al quinto comma dell’art. 1326 c.c., in forza del quale “un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”.

In realtà, il codice civile accoglie in maniera assai rigorosa la c.d. “mirrow image rule”, vale a dire la necessità di un rapporto di piena corrispondente tra il contenuto della proposta e dell’accettazione, ritenendo addirittura necessario che l’incontro e la fusione di proposta e accettazione debba investire non solo le clausole principali, ma anche quelle accessorie. Si legge in giurisprudenza:

In tema di accordo delle parti, l'ipotesi prevista dall'ultimo comma dell'articolo 1326 del c.c. ricorre anche quando le modifiche richieste in sede di accettazione sono di valore secondario; pertanto, nei contratti a formazione progressiva, nei quali l'accordo delle parti su tutte le clausole si raggiunge gradatamente, il momento di perfezionamento del negozio è di regola quello dell'accordo finale su tutti gli elementi principali e accessori, salvo che le parti abbiano inteso vincolarsi negli accordi raggiunti sui singoli punti riservando la disciplina degli elementi secondari.”[2]

La CISG, invece, conosce una deroga alla “mirrow image rule, contenuta nell’art. 19(2). In particolare, la risposta a un’offerta ricevuta, che abbia un contenuto differente, ma non a punto tale da alterarne sostanzialmente i termini (c.d. immaterial modifications), costituisce un’accettazione dell’offerta, a meno che il proponente, senza ingiustificato ritardo, contesti tali discrepanze o oralmente o mediante la notifica alla controparte di un avviso in tal senso.

Ma cosa sono le immaterial modifications introdotte dall’art. 19(2)?

La giurisprudenza internazionale ha considerato non sostanziali, ad esempio, una modifica dell’accettante favorevole al proponente[3] o per questi irrilevante[4], una modifica relativa alla clausola sulle modalità di imballaggio[5], una modifica della clausola sul termine di denuncia dei vizi[6], un avviso che il prezzo avrebbe potuto subire fluttuazione legate alle variazioni dei prezzi di mercato[7].

Il terzo comma del succitato art. 19 viene in soccorso all’interprete, indicando le variazioni che invece sono sostanziali e che quindi, se apportate nella risposta, trasformano la stessa in rifiuto della proposta, così da renderla necessariamente una controproposta. Queste sono le modifiche:

al prezzo, al pagamento, alla qualità e quantità delle merci, al luogo e momento della consegna, ai limiti della responsabilità di una parte riguardo all’altra o al regolamento delle controversie.”

Verosimilmente, la scelta di avere adottato una “mirrow image rule” non rigida, è dettata dall’esigenza di evitare che una delle parti, la quale, in presenza di mutate circostanze di fatto, intenda sottrarsi agli obblighi contrattualmente assunti, possa raggiungere questo risultato facendo rilevare una difformità non sostanziale tra proposta ed accettazione e, quindi, la mancata conclusione del contratto.[8]

Pertanto, in ogni ipotesi in cui le condizioni generali dell’aderente comportino delle modifiche non sostanziali, il contratto, in mancanza di un’opposizione da parte del proponente, deve ritenersi concluso e sarà regolato dalle clausole contenute nel formulario dell’accettante (si ricorda nuovamente, che al momento si sta analizzando unicamente l’ipotesi in cui sia solo l’aderente ad avere richiamato le CGC e non entrambe le parti).

2. Quando si applicano le CGC al contratto: codice civile e CISG a confronto.

Portando avanti il ragionamento, nel caso in cui le CGC dell’aderente contengano modifiche rilevanti rispetto alla proposta, l’applicazione della disciplina civilistica, rispetto a quella della Convenzione di Vienna ha degli evidenti impatti pratici.

Infatti, qualora al rapporto si applichi solamente la disciplina civilistica, la problematica sarà (principalmente) risolta utilizzando gli strumenti forniti dall’art. 1341 c.c., che prevede, in grandissima sintesi, (comma 1) che le CGC sono efficaci nei confronti del soggetto che le ha ricevute, se erano da questi conosciute o conoscibili utilizzando l’ordinaria diligenza al momento della conclusione del contratto, ad esclusione (comma 2) delle clausole “vessatorie” la cui validità è comunque subordinata a specifica accettazione scritta da parte del ricevente.

Circa le clausole non “vessatorie”, i limiti di applicabilità delle CGC imposti dall’ordinamento, sono essenzialmente due:

  • il riferimento al momento della conclusione del contratto, volto ad escludere l’efficacia di condizioni generali che l’aderente abbia avuto la possibilità di conoscere in un tempo successivo alla perfezione del contratto (ad esempio un testo inserito in fattura[9]);
  • quanto al criterio di ordinaria diligenza, questo deve riportarsi ad un concetto di normalità, che deve essere calibrato in base al tipo di operazione economica, dovendosi comunque escludere che all’aderente possa richiedersi un particolare sforzo o competenza per conoscere le condizioni generali usate dal predisponente.[10]

– Leggi anche: Condizioni generali di contratto nelle vendite online nazionali ed internazionali. Quando sono valide?

Qualora al rapporto si applichi la Convenzione di Vienna, verranno in soccorso, oltre al già menzionato art. 19, gli artt. 14, 18 che disciplinano la “formazione del contratto”, così come gli artt. 7 e 8, che regolamentano invece i criteri interpretativi.

Invero, secondo buona parte della dottrina[11] e della giurisprudenza[12], in caso di applicazione della CISG al rapporto, le norme qui sopra richiamate sono le uniche che debbano essere adottate per comprendere a quali requisiti di forma le CGC devono sottostare, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1341 c.c.

– Leggi anche: Condizioni generali di contratto, 1341 c.c. e convenzione di Vienna.

Come già analizzato in un precedente articolo, l’art. 14 dispone che una proposta rivolta ad uno o più soggetti, per potere essere tale, deve essere sufficientemente precisa (sufficiently definite) e indicare la volontà del suo autore di essere vincolato.

Nell’adottare tale principio alle condizioni genarli di vendita, la Corte di Cassazione tedesca ha affermato che in fase di formazione del contratto deve risultare:

  • manifesta l’intenzione dell’offerente di incorporare le CGC all’interno dell’offerta;
  • il testo deve essere stato trasmesso o, comunque, reso reperibile allo stesso prima della conclusione del contratto.[13]

L’effettiva “reperibilità” delle CGC, deve essere vagliata di volta in volta bilateralmente, nel senso che incombe anche sul ricevente, nella fase delle trattative, un obbligo di accertare e comprendere se al rapporto siano o meno applicabili le condizioni generali di vendita, utilizzando la diligenza della “reasonable person”, impostagli dall’art. ex art. 8(2).[14]

Sembrerebbe, quindi, che la Convenzione imponga un maggior grado di diligenza all’imprenditore nell’accertare e verificare da quali termini contrattuali il rapporto è regolamentato; questo è certamente in linea con lo spirito della Convenzione, pensata a disciplinare rapporti internazionali di vendita tra operatori del settore a cui è richiesta, necessariamente, un livello di competenza adeguato all’attività da loro prestata.

Parimenti alla normativa civilistica, essenziale è il momento in cui le CGC vengono messe a conoscenza del ricevente, motivo per cui la giurisprudenza ha considerato non potere fare parte del contratto delle CGC che siano state sottoposte al destinatario, una volta che il rapporto era stato già concluso, ossia tramite un richiamo delle stessa da ultimo all’interno della fattura di vendita.[15]

3. Accettazione implicita per fatti concludenti.

Una volta appurato che le condizioni erano conosciute o conoscibili al ricevente, essendo la Convenzione connotata dal principio della libertà di forma (e di prova) ex art. 11, in mancanza di accettazione espressa, bisognerà comprendere se le stesse siano state accettate implicitamente, in conformità al combinato disposto dell’art. 18 (accettazione della proposta) e dell’art 8.

Infatti, l’art 18(1) dispone in primo luogo che “una dichiarazione o altro comportamento del destinatario che indicano il consenso ad un’offerta costituiscono un’accettazione.” Inoltre, l’art. 18(3), indica che “il destinatario dell’offerta può indicare che acconsente, compiendo un atto attinente, ad esempio, la spedizione dei beni o al pagamento del prezzo.

Sul punto, ha disposto una corte statunitense, che:

in base alla CISG, l’accettazione non richiede una firma o una accettazione formale dell’offerta. […] Dall’istruttoria è emerso che al tempo STS aveva inviato i prezzi di vendita a Centrisys, includendo in allegato alla comunicazione le condizioni generali. Adottando il preventivo di vendita, Centrisys ha accettato la proposta contrattuale di vendita della centrifuga, compreso le condizioni generali di vendita.”[16]

Si desume, quindi, che se le CGC erano conosciute o conoscibili (utilizzando la diligenza del reasonable man di cui all’art. 8) da parte del ricevente e sono state da questi accettate per fatti concludenti, le stesse formeranno parte del contratto, a meno che le parti concordemente, ovvero gli usi e consuetudini applicabili al rapporto non subordinino la loro validità ad una forma poi non rispettata dalle parti.

– Leggi anche: Compravendita internazionale e l’importanza degli usi e delle consuetudini: Convenzione di Vienna e codice civile a confronto.

4. Lingua della CGC.

Una brevissima digressione in tema di obblighi di diligenza del soggetto ricevente, si riscontrano degli orientamenti divergenti in merito alla validità di condizioni generali scritte in una lingua non conosciuta al ricevente; parte della giurisprudenza, infatti, ritiene che le CGC scritte in una lingua straniera siano comunque valide, proprio in forza degli obblighi di cui all’art. 8(2), dovendosi ritenere che un imprenditore o comunque un operatore internazionale, prima di firmare un contratto, sia tenuto a verificare quanto stia sottoscrivendo anche (banalmente) facendo fare una semplice traduzione.[17]

5. Battle of the forms: knock-out e last shot rules.

Al momento si è analizzato lo scenario per cui solamente una delle due parti ha inviato le proprie condizioni generali di vendita.

Cosa succede, invece, se un contraente spedisce una proposta alla controparte, allegando le proprie CGC e l’altro contraente risponda, seppure accettando la proposta, allegando le proprie CGC difformi da quelle ricevute e poi entrambi inizino l’esecuzione del contratto?

Tenuto conto che le parti hanno dato esecuzione al contratto, si pone la necessità di comprendere da quali clausole standard il rapporto è regolato e per fare ciò vengono utilizzati due approcci principali: la last shot rule e del knock-out rule.

Quale fautore della last shot rule”, si ritiene adeguato richiamare la più autorevole dottrina:

se le condizioni generali dell’accettante alterano sostanzialmente i termini della proposta, il contratto non può considerarsi concluso, nemmeno escludendo le condizioni generali confliggenti, come invece vorrebbe parte della dottrina e della giurisprudenza le quali privilegiano la c.d. “Rechtsgültigkeitslösungo “knock-out rule”. A nostro avviso, se viene data esecuzione al contratto, ciò deve considerarsi quale accettazione per atti concludenti da parte dell’(originario) proponente della controproposta dell’accettante – della quale fanno parte anche le condizioni generali che modificano in modo sostanziale la proposta originaria; in dottrina si è parlato in proposto di vigenza della c.d. “last shot rule”[18]

In base alla differente teoria della “knock-out rule”, nel caso in cui le parti si siano scambiate formulari contrastanti, l’intervenuta esecuzione del contratto sarebbe da interpretare come la volontà dei contraenti, non tanto di non avere raggiunto alcuna intesa (altrimenti non si spiegherebbe, appunto, l’esecuzione dello stesso), quanto piuttosto di avere raggiunto un consenso a prescindere dalle clausole contrastanti, clausole che dovranno essere invece espunte dal contratto.

La Corte federale tedesca ha sposato tale teoria, giustificandola in base ai criteri della buona fede e della correttezza (art. 7(1) CISG), affermando che le clausole contenute all’interno delle condizioni generali di contratto diventano parte dell’accordo (solamente) se non contrastanti tra di loro.[19]

Sicuramente, tale teoria ha dei risvolti tutt'altro che di facile esecuzione e di difficile applicazione pratica, se si pensa al fatto che dovrà essere demandato al giudice il compito ricostruire l’effettiva volontà delle parti ex art. 8, andando a cancellare le clausole sulle quali non vi sia stato un effettivo incontro della volontà tra i contraenti.


[1] Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981); Larry A. DiMatteo, International sales law. A global Challenge, Cambridge, 2014.

[2] Cass. Civ. 2003, n. 16016.

[3] Oberster Gerichtshof, Austria, 20.3.1997.

[4] China Internationale Economic & Trade Arbitration Commissione, 10.6.2002.

[5] Oberlandesgericht Hamm, Germania, 22.9.1997.

[6] Landgericht Baden-Baden Germania, 14.8.1991.

[7] Cour d’Appel de Paris, Francia, 22.4.1992.

[8] Bellelli, sub. art. 19, Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, commentario coordinato da Bianca, CEDAM, 1992.

[9] Cass. Civ. 1962, 2890.

[10] Bianca, Diritto Civile, Il contratto, 1987.

[11] Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981).

[12] Trib. Rovereto 24.8.2006; Cass. Civ. 16.5.2007, n. 11226.

[13] Bundesgerichtshof, Germania, 31.10.2001; sul punto anche Zeller, The CISG and the Battle of the Forms, in Di Matteo, op. cit.

[14] Zeller, The CISG and the Battle of the Forms, in Di Matteo, op. cit.

[15] Chateau des Charmes Wines Ltd. v. Sabaté USA, Sabaté S.A.

[16] Golden Valley Grape Juice and Wine, LLC v- Centrisys Corporation, 22.10.2011.

[17] MCC.Marble Ceramic Center v. Ceramica Nuova D’Agostino; in senso contrario, Oberlandesgericht Celle, Germania, 2.9.1998.

[18] Ferrari, sub art. 19, Vendita internazionale di beni mobili, op. cit. in Mastromatteo, La Vendita internazionale, Giappichelli, 2013.

[19] Bundesgerichtshof, Germania, 9.1.2002.


Proposta, accettazione e responsabilità precontrattuale. Convenzione di Vienna e codice civile a confronto.

Con il presente articolo si intende dare al lettore una panoramica sulla modalità con cui la Convenzione di Vienna ha regolamentato gli istituti della proposta di un'offerta, della sua accettazione, della responsabilità precontrattuale in sede di trattative e delle principali differenze rispetto al diritto italiano.

In prima analisi, si tiene a precisare che, essendo la Convenzione di Vienna connotata dalla libertà di forma (e di prova) ex art. 11, la proposta e l’accettazione sono da considerarsi anch’essi atti a forma libera, potendo manifestarsi in ogni modo (quindi sia oralmente, che per fatti concludenti).[1] Tale disposizione ha natura comunque derogabile, con la conseguenza che non solo i contraenti possono prevedere la necessità di una forma determinata per la validità del contratto che intendono stipulare, ma altresì che tale deroga può risultare dall’esistenza di usi e consuetudini (sul punto cfr. commento all’art. 9).

1. Art. 14: definizione di proposta.

Una proposta di contratto, rivolta a una o più persone determinate, costituisce un'offerta, qualora sia sufficientemente precisa e ove indichi la volontà del suo autore di essere vincolato in caso di accettazione. Una proposta è sufficientemente precisa quando indica le merci e, espressamente o implicitamente, fissa la quantità e il prezzo o dà indicazioni atte a determinarle.

Una proposta rivolta a persone indeterminate è considerata solo come un invito all'offerta, a meno che la persona che ha espresso la proposta non abbia chiaramente indicato il contrario.”

La definizione di proposta nella Convenzione di Vienna, viene definitiva all’art. 14, comma primo, che elenca in dettaglio quelli che sono gli elementi necessari perché la stessa possa essere considerata valida.

In particolare, tale articolo prevede che la proposta, per essere tale, deve essere “sufficientemente precisa”, indicare la volontà dell’offerente ad obbligarsi, contenere espressamente il bene o i beni oggetto del contratto e fissare anche implicitamente (o comunque dare indicazione per determinarli) la quantità di detti beni ed il prezzo[2], facendo riferimento, nel caso in cui non siano stati determinati, agli usi e alle pratiche commerciali richiamati dagli artt. 8 e 9 della Convenzione.

– Leggi anche: Compravendita internazionale e l’importanza degli usi e delle consuetudini: Convenzione di Vienna e codice civile a confronto.

Importante, nel caso in cui si voglia espressamente escludere che la manifestazione di volontà possa essere considerata una vera e propria proposta, sarebbe quindi opportuno prevederlo espressamente, tramite l’inserimento di formule del tipo “questa è una manifestazione di interesse, non un'offerta di acquisto”

Tale disposizione, seppure non abbia un equivalente espresso nel codice civile (che non elenca in nessun articolo quali siano i requisiti di una proposta efficace), riflette comunque principi che sostanzialmente sono comuni al diritto interno: la proposta deve manifestare la volontà della parte di obbligarsi e, parimenti, essere di contenuto sufficiente ai fini della definizione del programma contrattuale che si vuole realizzare.[3]

Un elemento che si distacca invece dal nostro diritto e certamente quello di cui al comma secondo dell’art. 14, che prevede che una proposta contrattuale deve essere indirizzata ad una o più persone determinate. Se la proposta è invece rivolta ad una generalità di persone, questa ha il valore di semplice invito a trattare o ad offrire, non ne abbia chiaramente indicato il contrario.

Pertanto, il legislatore della Convenzione non ha accolto la regola (conosciuta e presente nel diritto italiano) dell’offerta rivolta al pubblico di cui all’art. 1336 c.c., quale proposta idonea a portare alla conclusione del contratto nel momento in cui l’accettazione è portata a conoscenza del preponente.

2. Art. 15: ritiro della proposta.

Un'offerta ha effetto quando perviene al destinatario.

Un'offerta, anche se irrevocabile, può essere ritirata se la relativa dichiarazione perviene al destinatario prima o contemporaneamente all'offerta.

Parimenti al diritto italiano (art. 1335 c.c.) anche la Convenzione di Vienna configura la proposta (e l’offerta) quale atto recettizio, che acquista effetto solo quando è stato portata a conoscenza del destinatario. La Convenzione, per meglio spiegare quando una proposta (e offerta) sia portata a conoscenza dell’altro contraente, prevede espressamente all’art. 24 che:

Ai fini della presente parte della Convenzione, un'offerta, una dichiarazione di accettazione o qualsiasi altra manifestazione d'intento "perviene" al suo destinatario quando gli è rivolta verbalmente o è consegnata mediante qualsiasi altro mezzo al destinatario stesso, presso la sua sede di affari, al suo indirizzo postale, o, se non ha sede di affari o indirizzo postale, presso la sua abituale residenza

Il secondo comma dell’art. 15 riconosce altresì il diritto del proponente di “ritirare” (e non revocare, facoltà riconosciutagli dall’art. 16, comma primo) l’offerta entro il limite massimo del momento in cui questa è stata consegnata all’oblato.

Il codice civile non disciplina tale differenza, ma regola unicamente l’istituto dell’offerta all’art. 1328 c.c. e la differenza tra tali elementi viene “unicamente” sviluppata da parte della dottrina.[4]

Si fa presente che le due ipotesi (ritiro e revoca) differiscono in quanto nel primo caso viene di eliminata la proposta, prima ancora che la stessa abbia acquistato efficacia; nel secondo di revoca, invece, si va ad eliminare una manifestazione di volontà già produttiva di effetti.[5]

3. Art. 16: revoca della proposta.

Fin tanto che il contratto non è stato concluso, un'offerta può essere ritirata, se la revoca perviene al destinatario prima che questi abbia fatto pervenire un'accettazione.

Tuttavia, un'offerta non può essere revocata:

  • a) se indica, fissando un termine determinato per l'accettazione o in altro modo, che essa è irrevocabile; o
  • b) se era ragionevole per il destinatario considerare l'offerta come irrevocabile e se egli ha agito di conseguenza.

Come si è visto, mentre l’art. 15 disciplina il ritiro della proposta, l’art. 16 disciplina il differente istituto della revoca.

Da una prima e sommaria analisi di tale articolo, si potrebbe pensare che la disciplina di diritto uniforme si allinei sino a combaciare con quella di diritto interno: l’art. 16, comma primo, seppure prevede che una proposta può essere revocata finché il contratto non è concluso, subordina l’efficacia della revoca al presupposto che la stessa giunga al ricevente, prima che abbia inviato l’accettazione.

In realtà, da una più attenta analisi, la disciplina civilistica diversamente prevede sì che la proposta possa essere revocata si fino alla conclusione del contratto, ma l’art. 1326, primo comma, c.c. dispone che tale momento si realizza successivamente, ossia quando “chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte

Quindi, se un soggetto formula una proposta contrattuale relativa ad un contratto di vendita disciplinata dal codice civile è libero di revocarla finché non ha conoscenza dell’accettazione; se il contratto è sottoposta alla disciplina della Convenzione di Vienna, questi può revocarla solamente finché il contratto non è concluso, ma la revoca giunge all’oblato prima che questi abbia spedito l’accettazione.

In realtà ci sono effettivamente due situazioni in cui il momento ultimo entro cui il potere di revoca, coincide effettivamente con il momento di conclusione del contratto.

La prima ipotesi è, ovviamente, quella del contratto concluso verbalmente: in questo caso c’è senza dubbio contestualità tra l’invio e la ricezione dell’accettazione.

La seconda ipotesi, che richiederebbe di per sé un maggiore approfondimento (purtroppo non compatibile con lo stampo del presente articolo), quando il destinatario dell’offerta può manifestare il consenso tramite un’attività di esecuzione del contratto stesso, ex art. 18 comma terzo.[6] Stante il fatto che il compimento di tale attività comporta la conclusione del contratto, il potere di revoca potrà essere esercitato solamente prima che l’oblato ponga in essere tale attività, che di fatto sostituisce la dichiarazione di accettazione.

Suddetto principio, conosce comunque due eccezioni, contenute appunto nel secondo comma di tale articolo.

Con riferimento all’eccezione di cui all’art. a), si fa presente che in linea di massima la fissazione di un termine specifico non determina di per sé l’irrevocabilità della proposta contrattuale, ma rappresenta una presunzione[7] di irrevocabilità. In tal caso, per evitare eventuali incertezze sull’irrevocabilità, anche in questo caso si consiglia di inserire nella comunicazione una formula del tipo “la presente offerta è valida e irrevocabile fino [data]”, oppure “la nostra offerta è comunque valida fino al [data]”.

Quanto invece all’art. b) di tale comma, prevede che la proposta non possa essere revocata quando l’oblato abbia ragionevolmente ritenuto che la stessa fosse irrevocabile. Importante è che, anche ai fini della prova, l’oblato abbia effettivamente agito di conseguenza, tramite, ad esempio, la produzione o la progettazione del prodotto, tramite l’acquisto di materie prime, sottoscrivendo contratti funzionali all’affare con soggetti terzi, assumendo lavoratori stagionali, etc.[8]

4. Art. 17: proposta irrevocabile.

“Un’offerta, anche se irrevocabile, scade quando il rifiuto della stessa perviene all’autore dell’offerta.”

Tenuto conto che il potere di revoca del proponente rappresenta un inconveniente per l’oblato, il quale non può contare con certezza sulla conclusione del contratto alle condizioni indicate nell’offerta, al fine di agevolare l’accettazione il preponente può rendere ferma la sua offeta pe un certo tempo. In tal caso la proposta è irrevocabile fino allo scadere del termine previsto.

Ma cosa succede se l’oblato dichiara di riutare la proposta.

La Convenzione regolamenta tale questione in maniera chiara ed esplicita all’art. 17, prevedendo appunto che tale comunicazione (che andrà effettuata secondo le modalità e i precetti qui sopra brevemente analizzati), comporta la caducazione dell’offerta.

Tale questione non viene invece sviluppata dal nostro codice civile; si trova, quindi, discusso (in dottrina) il problema della sorte della proposta irrevocabile una volta che sia intervenuto il rifiuto da parte del proponente. Rimane quindi aperta se la questione debba essere risolta nel senso che il proponente riacquisterebbe la facoltà di revocare, oppure se con il rifiuto, l'oblato consumi il proprio potere di accettare, senza che sia necessaria una revoca della proposta per escludere il perdurare della sua efficacia fino allo spirare del termine anche dopo l'intervenuto rifiuto.[9]

5. Art. 18: accettazione della proposta.

“Una dichiarazione o altro comportamento del destinatario che indicano il consenso ad un'offerta, costituiscono accettazione. Il silenzio o l'inazione, da soli, non possono valere come accettazione.

L'accettazione di un'offerta ha effetto nel momento in cui l'espressione del consenso perviene all'autore dell'offerta. L'accettazione non ha effetto se tale indicazione non perviene all'autore dell'offerta nel termine da lui stipulato o, in mancanza di tale stipula, in un termine ragionevole, tenuto conto delle circostanze della transazione e della rapidità dei mezzi di comunicazione utilizzati dall'autore dell'offerta. Un'offerta verbale deve essere accettata immediatamente, a meno che le circostanze non implichino il contrario.

Se, tuttavia, in virtù dell'offerta, degli usi o consuetudini che si sono stabiliti fra le parti il destinatario dell'offerta può indicare che acconsente, compiendo un atto attinente, ad esempio, alla spedizione delle merci o al pagamento dei prezzi, senza darne comunicazione all'autore dell'offerta, l'accettazione avrà effetto nel momento in cui questo atto è compiuto, purché lo sia entro i termini previsti dal precedente paragrafo.”

Con riferimento alla prima parte del primo comma (relativo alla forma), si richiamano anche in questa sede i principi di libertà di forma ex art. 11 già qui sopra brevemente analizzati, che lasciano all’oblato ampia possibilità di scelta nel determinare il modo di manifestazione del consenso (salvo, ovviamente, che non sia stato derogato pattiziamente o tale deroga possa desumersi da usi e consuetudini).

Quanto alla seconda parte del secondo comma, in giurisprudenza sono stati riconosciuti come comportamenti concludenti valevoli come accettazione: l’accettazione della merce da parte dell'acquirente; il pagamento della merce da parte dell'acquirente; presa in consegna della merce da parte di un terzo; accettazione da parte del venditore di una fideiussione bancaria e avvio della produzione della merce; emissione di lettera di credito; redazione ed emissione di fattura pro forma.[10]

L’ultima parte di tale comma, dispone che l’inerzia o il silenzio di per sé non possono rappresentare accettazione e non conducono pertanto alla conclusione del contratto, salvo ovviamente che ciò non sia stato concordato tra le parti, oppure si possa ricavare da eventuali usi o pratiche commerciali tra le parti.

L’art. 18 comma primo non trova un immediato corrispondente nell’ordinamento giuridico italiano.

Invero, seppure l’art. 1326 c.c. non si sofferma sulle modalità dell’accettazione è comunque in giurisprudenza che l’accettazione può essere espressa non solo mediante una dichiarazione, ma anche mediante un qualsiasi altro comportamento da cui possa desumersi l’intento negoziale del soggetto.[11]

- Leggi anche: Condizioni generali di contratto: battle of the forms, Convenzione di Vienna e codice civile.

Parimenti il silenzio vale come dichiarazione quando, instaurato un certo rapporto tra le parti, il comune modo di agire o la buona fede impongono alla parte l'onere o il dovere di parlare.[12] La giurisprudenza conferma tale orientamento, aggiungendo la possibilità che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell'altra.[13]

6. Revoca e responsabilità precontrattuale: codice civile.

In base alla normativa civilistica, la revoca del consenso è efficace pur se ingiustificata. Infatti, come si è visto il proponente può di regola revocare il proprio consenso fino a quando non abbia avuto notizia dell’accettazione da parte dell’oblato.

Il preponente che revoca la proposta giustificatamente è (unicamente) tenuto, ex art. 1328, primo comma, c.c. a indennizzare l’oblato delle spese e delle perdite subite da quest’ultimo per avere iniziato inutilmente l’esecuzione del contratto prima di avere avuto notizia della revoca[14] (tale disposizione del codice civile configura un caso di responsabilità senza colpa[15] e per atto lecito).

Quando invece la revoca del consenso è ingiustificata, questa può dare luogo a responsabilità precontrattuale[16] se essa lede un ragionevole affidamento (ex art. 1337 c.c.)[17] della controparte sulla conclusione del contratto.[18] Si legge in giurisprudenza:

Qualora i contatti intercorsi fra due soggetti non siano tali, per mancanza di univocità dei comportamenti, da determinare la conclusione del contratto, essi possono tuttavia configurare delle trattative giunte ad un tale punto di sviluppo da ingenerare in una parte un giustificato affidamento sulla conclusione del contratto; in tal caso, il recesso ingiustificato dà luogo solo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcire il danno. Del resto l'avvenuto perfezionarsi di intese su alcuni punti dello stipulando contratto o gli eventuali accordi parziali, per il loro carattere provvisorio e la loro efficacia subordinata all'esito positivo delle trattative, non esulano dall'ambito della fase precontrattuale, e non provano certo la conclusione di un contratto.”[19]

Il codice civile, quindi, seppure certamente non impone alle parti che hanno intrapreso delle negoziazioni un dovere di addivenire alla conclusione di un contratto, le obbliga a svolgerle secondo buona fede, tale da determinare un ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.

Quanto al danno risarcibile, la giurisprudenza[20] ritiene comunque che (contrariamente alla responsabilità contrattuale), in sede di trattative (interrotte ingiustificatamente) è risarcibile unicamente il c.d. interesse negativo, ossia il pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione del contratto; tale interesse può rilevare sia sotto il profilo del:

  • danno emergente, ossia della diminuzione patrimoniale che il soggetto avrebbe evitato se non avesse fatto affidamento sulla conclusione del contratto (es. spese assunte nel corso delle trattative, attività sprecata nelle trattative), che del
  • lucro cessante, che questi avrebbe potuto conseguire per altre contrattazioni dalle quali è stato distolto.

Quindi, chi abbia vanamente confidato nel buon esito di una trattativa, ha diritto di essere risarcito per la perdita del vantaggio che avrebbe potuto conseguire se, invece di impiegare la sua attività nella trattativa fallita, si fosse dedicato ad altre contrattazione dalle quali avrebbe potuto trarre un determinato profitto: per questo aspetto dovrà dimostrare il lucro che avrebbe ottenuto dall’esecuzione di altri potenziali affari, oggetto di specifiche avanzata trattative che poi ha abbandonato per coltivare quella non andata a buon fine a causa della scorrettezza dell’altra parte del negoziato.

7. Revoca e responsabilità precontrattuale: Convenzione di Vienna.

Mentre nel codice civile, come si è visto, l’esigenza di tutelare l’oblato nei confronti del (più ampio) potere di revoca del proponente, si realizza facendo gravare in capo allo stesso la responsabilità per atto lecito relativa alle spese e alle perdite subite dall’oblato ex art. 1328 c.c. ed, eventualmente, al risarcimento dell'interesse negativo, in caso di applicazione della Convenzione di Vienna (che come abbiamo visto anticipa il momento entro cui il proponente può revocare la proposta al momento della spedizione dell’accettazione da parte dell’oblato) la questione si complica non poco.

Infatti, la dottrina non è uniforme nel ritenere se la Convenzione di Vienna regolamenti la responsabilità precontrattuale o meno. Si registra, comunque, un orientamento prevalente, che ritiene che la Convenzione non regolamenti tale aspetto.[21] Dall’altro lato, vi sono comunque numerosi commentatori che ritengono che la Convezione sia applicabile comunque agli "accordi preliminari", almeno nella misura in cui tali accordi prevedono le modalità di esecuzione del contratto definitivo.[22]

In realtà, per potere comprendere (o comunque almeno approcciare) tali orientamenti apparentemente contrastanti, bisognerebbe in primo luogo differenziare l'ipotesi di responsabilità per interruzione delle trattative, dall'inadempimento di specifiche disposizioni contrattuali regolamentate dalle parti in un contratto preliminare.

Infatti, secondo parte della dottrina, nel caso le parti non abbiano sottoscritto un vero e proprio contratto preliminare e la problematica riguarda la mera interruzione delle trattative contrattuali, la tematica sembrerebbe essere (indirettamente) disciplinata dal Convenzione di Vienna. Infatti, posto che gli articoli 15 e 16 della Convenzione, come abbiamo visto, trattano espressamente la questione della revocabilità di un'offerta, il fatto che la Convenzione non preveda alcuna tutela in capo all’oblato, spinge a ritenere che tale revoca non conferisca a tale soggetto alcun diritto di richiedere un eventuale risarcimento del danno,[23] con conseguente esclusione inapplicabilità delle tutele civilistiche analizzate al punto precedente.

Meno chiaro, invece, è il caso in cui le parti abbiano sottoscritto un contratto preliminare e una parte si rende inadempiente, posto che, come si è detto, la Convenzione non disciplina l’istituto della responsabilità precontrattuale.

Dirimente è certamente comprendere, in prima analisi, se il singolo rapporto sia o meno regolamentato dalla Convenzione. Infatti, se si sposasse la tesi per cui la Convenzione non si applica a nessun rapporto precontrattuale, sarebbe pacifico sostenere che tale tematica sia necessariamente regolamentata dalla normativa di diritto comune applicabile al rapporto in essere.[24]

In caso contrario, se si dovesse seguire la tesi di parte della dottrina,[25] che afferma che alcuni contratti preliminari siano regolamentati dalla normativa uniforme, bisogna comprendere se in caso di interruzione delle transazioni od eventuali inadempimenti di una parte in sede di trattative, il soggetto che subisce il danno possa o meno utilizzare gli strumenti riconosciuti dalla convenzione, che riguardano, appunto, l’inadempimento di un contratto di vendita e non certamente di un preliminare. Se si seguisse tale tesi, il danno risarcibile sarebbe quindi (di fatto) di natura contrattuale, con conseguente maggiore tutela rispetto alla normativa civilistica (che prevede, come si è visto, un risarcimento più limitato in caso di danno precontrattuale).

Certamente tale problema viene meno, nel caso in cui l’azione sia volta a ripetere il risarcimento di un danno il cui oggetto è escluso dall’ambito di applicazione ex art. 2, lett. a), art. 4 o art. 5. (si pensi, ad esempio, di danno causato in fase di trattative da attività fraudolenta).

Tutte tali problematiche e dubbi relativi all’applicazione e all’applicabilità della Convenzione comportano certamente una maggiore incertezza delle parti in fase di conclusione del contratto, rispetto al caso in cui al rapporto si dovesse applicare unicamente la normativa civilistica; di tale elemento bisognerebbe certamente tenere conto, cercando (compatibilmente con quelli che sono le difficoltà che le imprese quotidianamente affrontano nel commercio internazionale) di regolamentarle in maniera più attenta possibile, non solo i rapporto di vendita, ma anche la sua negoziazione.


[1] MASTROMATTEO, La vendita internazionale, Giappichelli Editore, 2013.

[2] Con riferimento alla quantificazione del prezzo, nel presente articolo si fa unicamente presente che la disposizione in esame parrebbe essere difficilmente integrata con quella di cui all’art. 55 della Convenzione, che prevende: “Se la vendita è validamente conclusa senza che il prezzo delle merci vendute sia stato espressamente o implicitamente fissato nel contratto, o da una disposizione che permetta di determinarlo, si reputa che le parti si siano, salvo disposizioni contrarie, tacitamente riferite al prezzo solitamente praticato al momento della conclusione del contratto, nel ramo commerciale considerato, per le stesse merci vendute in circostanze analoghe.” Infatti, se la fissazione del prezzo è condizione per il perfezionamento della vendita, riesce arduo ammettere che si possa parlare di contratto validamente concluso, senza che questa determinazione, almeno implicitamente, sia avvenuto. Proprio per tale motivo, la maggior parte delle decisioni ha rifiutato di applicare l'articolo 55 Oberlandesgericht Frankfurt a.M., Germany, 15 March 1996, Bundesgerichtshof, Germany, 23 July 1997, Landgericht Alsfeld, Germany, 12 May 1995, Kantonsgericht Freiburg, Switzerland, 11 October 2004. Sul punto cfr. UNCITRAL Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, 2016 Edition.

[3] La giurisprudenza reputa che una dichiarazione si possa qualificare come proposta contrattuale solo quando manifesti una univoca volontà di impegnarsi e non solo una disponibilità od un auspicio, Cass. Civ. n. 6922 del 1982; VESSICHELLI, Commento all’art. 14, in Nuove leggi civ. comm., 1989, p. 51.

[4] Cfr. BENEDETTI., Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 95.

[5] RUBINO, Commento all’art. 15, in Nuove leggi civ. comm., 1989, p. 51.

[6] Art. 18, comma terzo: “Se, tuttavia, in virtù dell'offerta, degli usi o consuetudini che si sono stabiliti fra le parti il destinatario dell'offerta può indicare che acconsente, compiendo un atto attinente, ad esempio, alla spedizione delle merci o al pagamento dei prezzi, senza darne comunicazione all'autore dell'offerta, l'accettazione avrà effetto nel momento in cui questo atto è compiuto, purchè lo sia entro i termini previsti dal precedente paragrafo.”

[7] MASTROMATTEO, op. cit.

[8] FERRARI, sub art. 16, Vendita internazionale di beni mobili, tomo II, in Commentario del codice civile Scaiola-Branca, a cura di Galgano, 2006.

[9] Sul punto cfr. Pluris online, Codice civile commentato, art. 1329 c.c., Wolters Kluwer, 2021.

[10] Sul punto cfr. Unicitral digest of Case Law, sub. art. 18, 2016 Edition.

[11] Cfr. Cass. civ. 2003, n. 3341, che afferma che costituisce compito del giudice di merito individuare e valorizzare elementi da cui desumere una manifestazione tacita.

[12] BIANCA, op. cit.

[13] Cass. Civ.  2014 n. 10533.

[14] Sul punto cfr. BIANCA, Diritto Civile, Il contratto, Giuffrè, 1987.

[15] Cass. Civ. 1952 n. 1729. CIAN – TRABUCCHI, Commentario breve al Codice Civile, sub. art. 1328, CEDAM, 2014.

[16] Cfr. Cass. Civ. 1786/2015; Cass. Civ..1051/2012; Cass. Civ. 11438/2004.

[17] Art. 1337 c.c. “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.

[18] Cfr. BIANCA,

[19] Cass. Civ. 1999 n. 5830.

[20] Cfr. sul punto Cass Civ. 24795/2008, Cass Civ. 1632/2000.

[21] DIMATTEO – International sales law. A global challenge, Cambridge, 2014.

[22] TORSELLO – Preliminary agreements and CISG Contracts, in Drafting Contracts under the CISG, pag. 191 e ss., 2008.

[23] FERRARI – Kommentar zum Einheitlichen UN-Kaufrecht, Art. 5, 2009.

[24] Sul punto, si fa presente che in base al diritto Europeo, l’art. 12 del Regolamento Roma II, dispone che: “La legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali derivanti dalle trattative precontrattuali, a prescindere dal fatto che il contratto sia stato effettivamente concluso o meno, è la legge che si applica al contratto o che sarebbe stata applicabile al contratto se lo stesso fosse stato concluso.” Quindi, se da un lato la problematica relativa all’individuazione della legge applicabile per culpa in contrahendo non si pone in caso di applicazione del diritto Europeo, lo stesso certamente non si può dire in caso il rapporto contrattuale è (o può essere) sottoposto a una normativa extra-EU.

[25] TORSELLO, op. cit.


Compravendita internazionale e l’importanza degli usi e delle consuetudini: Convenzione di Vienna e codice civile a confronto.

Spesso non ci si sofferma sul fatto che un rapporto contrattuale non sia unicamente regolamentato dal testo che le parti hanno (eventualmente) concordato e che il negozio debba essere interpretato in base al comportamento posto in essere dai contraenti prima e dopo la stipulazione, così come che lo stesso possa essere integrato da eventuali usi e consuetudini praticati nell’ambito commerciale ove i contraenti operano.

La tematica dell’integrazione del contratto è, ovviamente, disciplinata sia dalla Convenzione di Viena (CISG), che dal codice civile, con differenze non certamente trascurabili; la scelta di applicare o meno la Convenzione a un determinato rapporto, ha delle ripercussioni pratiche piuttosto rilevanti che si vanno qui di seguito brevemente ad analizzare.

– Leggi anche: Quando si applica la convenzione di Vienna.


1. Convenzione di Vienna

L’art. 9 della convenzione di Vienna dispone che:

Le parti sono vincolate dagli usi [practices] ai quali hanno concordato e dalle abitudini [usages] stabilitesi fra di loro.

Salvo convenzione contraria tra le parti, si ritiene che queste si siano tacitamente riferite nel contratto e per la sua elaborazione a qualsiasi uso di cui erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza e che, nel commercio internazionale, è largamente conosciuto e regolarmente osservato dalle parti in contratti dello stesso genere, nel ramo commerciale considerato.”

In base a tale previsione le parti di un contratto di vendita internazionale sono legate sia agli usi (“practices”), così come alle pratiche (“usages”), che i contraenti hanno (espressamente o implicitamente)[1] stabilito tra di loro. Seppure la convenzione non definisce i concetti di usages e practices, gli stessi possono essere tradotti come segue:

  • practices”, con usi individuali, ovvero prassi commerciale[2] che si è instaurata tra i contraenti nei loro pregressi rapporti contrattuali;[3]
  • usages”, con usi negoziali, ovvero consuetudini, intese come comportamenti che normalmente si praticano in un certo ambito commerciale, con la convinzione che si tratti di condotte vincolanti.

In base all’art. 9 comma 1 della CISCG, sia le “practices”, che gli “usages” non hanno semplice valore interpretativo, ma addirittura devono essere considerate parte integrante del rapporto contrattuale, seppure con alcune limitazioni e ad alcune condizioni, che qui di seguito si andranno ad analizzare. Prima di fare ciò, per fare chiarezza, si elencano qui di seguito alcune “practices” che sono state ritenute applicabili tra le parti:

  • l’obbligo di un venditore a consegnare prontamente all’acquirente le parti di ricambio, sulla base della prassi che si era tra loro instaurata;[4]
  • è stato ritenuto che un venditore non poteva invocare la regola dell’articolo 18 CISG che prevede che il silenzio non equivale ad accettazione, tenuto conto che le parti avevano stabilito una prassi interna in forza della quale il venditore eseguiva gli ordini dell’acquirente senza necessità di accettazione espressa;[5]
  • in un altro caso, anche al fine della denuncia dei vizi, è stato deciso che l’acquirente era tenuto ad un determinata modalità di esame della merce consegnata sulla base di una pratica che si era instaurata nel tempo.

Ma quando sono effettivamente applicabili tali practices?

In primo luogo, bisogna comprendere se tra le parti si è effettivamente instaurata una vera e propria “practice” e, per fare ciò, è necessario che le partiche siano state condotte tra loro con una certa frequenza e per un periodo di tempo tale da fare ritenere e presumere in buona fede la parte che le invoca, che si sarebbero perpetuate nel tempo.[6]

Una volta accertato tale elemento “preliminare”, bisogna effettivamente verificare se tra le parti non siano state previste alcune disposizioni contrattuali che ne escludono la loro applicabilità, oppure vi siano delle pattuizioni contrattuali che siano di fatto in contrasto con la practice che si sostiene essersi instaurata tra i contraenti.

Infatti, seppure secondo un orientamento giurisprudenziale[7] gli usi e le consuetudini derogherebbero addirittura le disposizioni della Convenzione, se le parti hanno escluso la loro applicazione, oppure abbiano inserito clausole che di fatto contrastino con le stesse, le pattuizioni negoziali prevarrebbero sugli usi.  Tale principio si evince dall’art. 6 della CISC, in base al quale la volontà espressa dai contraenti è la fonte primaria dei diritti e degli obblighi che originano dai contratti stipulati ai sensi della CISG medesima.[8]

Successivamente, sarà poi onere della parte che ne sostiene l’esistenza di provare gli elementi richiesti,[9] con la conseguenza che in caso di mancato adempimento a tale gravame, gli usi e le pratiche non saranno vincolanti tra le parti.

Una volta che, in base alla convenzione, si è provata la sua esistenza, la sua legittimità dovrà essere valutata in base al diritto interno di volta in volta applicabile, tanto che la validità degli usi non rientra nel campo di applicazione della Convenzione che ne regola unicamente i criteri di applicabilità.[10]

Quanto agli usi commerciali (usages), che si ricorda essere invece quelle consuetudini che normalmente si praticano in un certo ambito mercantile, le parti sono agli stessi vincolati, ex art. 9, comma 2, anche in assenza di un accordo espresso che le recepisce, purché le stesse “erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza”.

In linea di massima, devono essere considerati vincolati gli usi commerciali internazionali, solamente se ampiamente conosciuti dalle parti, oppure se regolarmente osservati nel compravendita internazionale.[11] Si fa altresì presente che per essere vincolante un uso non deve essere necessariamente internazionale, ma possono essere altresì applicabili al rapporto anche usi locali utilizzati ad esempio in borse, fiere, magazzini, purché siano regolarmente applicati anche in transazioni che coinvolgono contraenti stranieri.[12]

Si segnala una decisione che ha addirittura ritenuto che gli usages siano inseriti automaticamente in qualsiasi accordo disciplinato dalla Convenzione, a meno che non siano stati espressamente esclusi dalle parti.[13]

Anche per gli usages, vale il principio per cui gli stessi (se applicabili) derogano le disposizioni della Convenzione con essi difformi, ma non le pattuizioni contrattuali contrastanti, essendo appunto l’autonomia contrattuale fonte primaria dei diritti e degli obblighi delle parti.

Quanto all’onere della prova, si ritiene non esserci differenza nella ripartizione dell’onere dalla prova ex art. 9 comma 1 e comma 2, posto che la parte che sostiene l’esistenza di usages o practices vincolante, deve comunque provare gli elementi dallo stesso richiesti.[14]


2. Codice civile

Certamente meno lineare e decisamente più complessa è la disciplina civilistica degli usi e consuetudini, che vengono categorizzati in:[15]

  • Usi normativi, regolati agli artt. 1 e 8 delle preleggi. Tali sono tutte le norme non scritte che un determinato ambiente sociale osserva costantemente nel tempo come regole giuridicamente vincolanti.[16] Tali usi trovano applicazione nelle materie non regolate da leggi o regolamenti, ovvero quanto siano da essi richiamate.
  • Usi contrattuali, negoziali o clausole d’uso, di cui all’art. 1340 c.c. Da intendersi pratiche come comunemente e costantemente osservate nelle operazioni contrattuali in un dato luogo o ramo del commercio. Tali usi possono essere equiparati agli “usages” di cui alla Convenzione di Vienna.
  • Usi individuali, sono la prassi che si instaura nei rapporti fra determinati contraenti e che rileva ai fini dell’interpretazione del contratto, ex art. 1362, secondo comma c.c. (assimilati alle “practices” della CISC).

Seppure comprendere nel dettaglio la distinzione tra usi normativi e contrattuali richiederebbe certamente una più attenta e approfondita esamina, per quanto possa interessare ai fini del presente articolo, si può semplificare affermando che gli usi normativi sono quelli applicabili ogniqualvolta la legge li richiama (ad es. in tema di vendita, l’art. 1498, secondo comma c.c. sulle modalità di pagamento del prezzo), oppure quando vi siano materie non regolate dalla legge stessa, ricoprendo in tal caso una funzione integrativa (usi praeter legem).

Gli usi negoziali sono invece pratiche generalizzate degli affari che si intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti (art. 1340 c.c.).[17]  Tali usi possono ad esempio prevedere la variabilità delle quantità o della qualità della merce entro determinati limiti di tolleranza, ovvero l’obbligo di restituire i contenitori del bene compravenduto, l’eventuale riconoscimento di una garanzia di buon funzionamento; in ambito internazionale, sono stati considerati usi negoziali le norme e gli usi uniformi della Camera di Commercio internazionale in ambito di crediti documentari.[18]

Inoltre, diversamente dagli usi normativi, quelli negoziali (o contrattuali) si applicano senza che occorra un richiamo normativo: la legge contiene, infatti, all’art. 1374 c.c. (integrazione del contratto) un richiamo generale agli usi come fonte di integrazione del contratto, posto che le parti sono tenute a quanto è determinato dall’accordo e a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi.

Una prima e importante differenza è collegata al fatto che gli usi negoziali (contrariamente agli usages che sono applicabili ogniqualvolta gli stessi erano conosciuti o conoscibili alle parti al momento della stipulazione del contratto) nella disciplina civilistica la giurisprudenza non è concorde nell’affermare se gli stessi possano ritenersi inseriti all’interno del contratto solamente in virtù di una espressa o tacita manifestazione delle parti,[19] oppure se gli usi obblighino le parti anche se da esse ignorati.[20]  Si può comunque ragionevolmente affermare che tali usi sono efficaci pure in deroga a norme dispositive di legge (ovviamente non imperative), ma che devono essere esclusi in caso di una volontà contraria, concorde delle parti, seppure tacitamente espressa.[21]

Gli usi negoziali, devono essere altresì distinti rispetto agli usi individuali, ossia la prassi che si instaura nei rapporti fra determinati contraenti (le practices della CISG).

Molto importante rimarcare il fatto che, contrariamente alle practices, la prassi interna dei contraenti rileva unicamente ai fini dell’interpretazione del contratto, come comportamento complessivo delle parti (art. 1362 secondo comma c.c.),[22] ma non ne integra anche il suo contenuto ex art. 1340 c.c. e art. 1374 c.c.[23]

Ne consegue, quindi, che diversamente dall’art. 9 della CISC, la prassi negoziale che si è instaurata tra le parti non può avere valore di vera e propria clausola contrattuale che forma parte integrante del rapporto, ma unicamente essere utilizzata come elemento per interpretare il contratto. Differenza, tutt’altro che trascurabile.

Una via per comunque tentare di perseguire il medesimo risultato, ossia di integrare una determinata prassi individuale all’interno del rapporto, sarebbe quello di ricorrere al principio di equità, richiamato dallo stesso art. 1374 c.c. che così dispone:

Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità gli usi e l'equità.”

Utilizzando tale principio, affiancato a quello di esecuzione in buona fede del contratto ex art. 1375 c.c., si potrebbe eventualmente tentare di sostenere, che il continuato e ripetuto comportamento di una parte abbia ingenerato nell’altra l’aspettativa che lo stesso si ripetesse.

Certamente, tale soluzione, resterebbe comunque molto più complessa e di difficile attuazione rispetto al caso in cui al rapporto si applichi la convenzione di Vienna, tenuto conto che le disposizioni di cui all’art. 9, sono in materia certamente molto più chiare e facilmente interpretabili.


[1] Oberster Gerichsthoff 21 marzo 2000.

[2] Cfr. DE FRANCHIS, Dizionario Giuridico Itailano-Inglese, Giuffrè Editore,

[3] BUSANI, Il contratto di compravendita internazionale, pag. 97 e ss., 2015, Giappichelli

[4] Court of Arbitration of the International Chamber of Commerce, Francia, Dicembre 1997 n. 8817,

[5] Cour d’appel de Paris, Francia, 10 settembre 2003

[6] UNCITRAL: Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods—2016 UNITED NATIONS 2016 Edition.

[7] CLOUT case n. 313, Cour d’appel de Grenoble, Francia, 21.10.1999.

[8] Cfr. Hof van Beroep Antwerpen (Belgio), 24 aprile 2006; BUSANI, op. cit.

[9] Oberster Gerichtshof, Austria, 21 marzo 2000.

[10] Oberster Gerichtshof, Austria, 22 ottobre 2001.

[11] UNCITRAL: Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods—2016 UNITED NATIONS 2016 Edition.

[12] Oberlandesgericht Graz, Austria, 9 novembre 1995.

[13] U.S. District Court, Southern District Court of New York, 10 maggio 2002.

[14] UNICITRA Digest. Op. cit.

[15] Nel presente articolo, per semplificare, non vengono inserite ulteriori categorie, quali ad esempio gli usi interpretativi e gli usi aziendali.

[16] BIANCA, Diritto civile, Il contratto, 1987, Giuffrè.

[17] BIANCA, op. cit.

[18] Cass. Civ. 2009, n. 21833

[19] Cass. Civ. 2010 n. 8342.

[20] Cass. Civ. 2007 n. 5135.

[21] Cass. Civ. 2007 n. 5135; Cass. Civ. 1988 n. 76.

[22] CIAN – TRABUCCHI, Commentario al codice civile, art. 1340, CEDAM.

[23] Cass. Civ. 1988 n. 3220.


Condizioni generali di contratto online

Condizioni generali di contratto nelle vendite online nazionali ed internazionali. E se si applica la convenzione di Vienna?

La regolamentazione delle condizioni generali di contratto nel commercio elettronico comporta non poche e irrilevanti complessità.

Se da un lato pare abbastanza facilmente risolvibile da un punto di vista pratico assicurare la conoscibilità delle condizioni generali di vendita tramite alcuni accorgimenti, certamente più complesso e meno agevole è assicurare che vengano espressamente approvate per iscritto le clausole vessatorie in conformità con i dettami del secondo comma dell'art. 1341 c.c.

La nozione di condizioni generali di contratto (“CGC”) è inserita all’interno del nostro Ordinamento all’art. 1341 c.c.  Per CGC di contratto si deve intendere un insieme di clausole contrattuali, che hanno per loro natura carattere di generalità, in quanto sono destinate a valere per tutti i contratti di una determinata serie, e di unilateralità, posto che vengono predisposte unicamente da parte di un contraente, il c.d. predisponente.

La formula condizioni generali di contratto esprime quindi il fenomeno pratico della preventiva e unilaterale formulazione di un contenuto negoziale uniforme, destinato ad essere utilizzato per disciplinare una serie indeterminata di rapporti facenti capo al predisponente.[1]

1) Quando sono valide?

L’art. 1341 c.c. detta, in relazione al contenuto delle condizioni generali, due diversi requisiti di efficacia. Prevede al primo comma, il generale requisito di efficacia della conoscenza o conoscibilità e al secondo comma, il particolare requisito di efficacia della specifica approvazione per iscritto per le clausole c.d. vessatorio o dette anche onerose.

1.1. La conoscibilità e la conoscenza.

La conoscibilità consiste nella possibilità per l’aderente di acquisire la conoscenza mediante l’impiego della ordinaria diligenza. Pertanto, per tutti i contratti che vengono conclusi mediante condizioni contrattuali uniformi predisposte dall'imprenditore che li eroga, vale il principio di favore dettato dal primo comma dell'art. 1341 cod. civ., giusto il quale il contenuto effettuale di tali clausole è opponibile nei confronti dell’altro contraente anche se questi, pur senza averle conosciute, avrebbe comunque dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza.[2]

Ciò presuppone comunque un’attività del predisponente idonea a consentire la conoscenza, tenuto conto della diligenza che è normale attendersi dall’aderente medio con riferimento al tipo di operazione economica compiuta.[3]

1.2. Prova scritta e clausole vessatorie.

Il secondo comma disciplina la situazione specifica nella quale le condizioni stesse sono vessatorie e stabilisce che esse, per essere vincolanti nei confronti dell'altro contraente, debbono essere approvate particolarmente per iscritto, nella consapevolezza di assumere un obbligo oggettivamente gravoso.[4] L’elenco delle clausole vessatorie (avente carattere tassativo e non soggetto ad un’interpretazione estensiva)[5] ha ad oggetto in particolare:

  • limitazioni di responsabilità (art. 1229);
  • facoltà di recedere dal contratto (art. 1373) o di sospenderne l'esecuzione (art. 1461), ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze (art. 2965);
  • limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni (art. 1462);
  • restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (artt. 1379, 1566, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto (art. 1597, 1899), clausole compromissorie (art. 808 c.p.c.) o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria (art. 1370; 6, 28, 29, 30, 413 c.p.c.

Posto che una delle caratteristiche proprie delle CGC è la loro natura unilaterale, la necessità dell'approvazione scritta delle clausole vessatorie è esclusa ogniqualvolta la conclusione del contratto sia stata preceduta da una trattativa che abbia avuto ad oggetto specificamente le clausole che necessiterebbero altrimenti di un'autonoma sottoscrizione, mentre la sottoscrizione resta indispensabile per le clausole a contenuto vessatorio alle quali la parte abbia aderito senza alcuna discussione.[6]

Quanto alle modalità di approvazione, si ritiene generalmente che non vi sia bisogno di una sottoscrizione specifica per ciascuna clausola vessatoria e che l'obbligo della specifica approvazione per iscritto è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole purché sia accompagnato da un'indicazione, benché sommaria, del loro contenuto.[7]

2) 1341 c.c. e il commercio elettronico.

Applicare i principi qui sopra sommariamente richiamati al mercato elettronico, comporta non poche e irrilevanti complessità: in particolare, la doppia sottoscrizione di clausole vessatorie apposte in contratti telematici rappresenta un problema assai complesso e dibattuto sia in dottrina, che in giurisprudenza.

Se in una vendita online, da un lato pare abbastanza facilmente risolvibile da un punto di vista pratico assicurare la conoscibilità ex art. 1341 comma 1 c.c. delle condizioni generali di contratto tramite alcuni accorgimenti (ad es l’inserimento di link nel sito o all’interno dell’ordine, che richiamano le CGC), certamente più complesso e meno agevole è assicurare che vengano espressamente approvate per iscritto le clausole vessatorie in conformità con i dettami del secondo comma del succitato articolo.

La soluzione che normalmente viene adottata sui siti di e-commerce è di predisporre due form distinti, di cui uno è destinato all’approvazione delle condizioni generali di contratto nel suo complesso (tramite la spunta di una casella e l’accettazione con un “click”, cosiddetta procedura del “click-wrapping”) ed uno delle clausole vessatorie, che vengono quindi separatamente accettate (seppur mediante un “click”).

La giurisprudenza ha avuto più occasioni di pronunciarsi se l'accettazione tramite clic, rispetti i requisiti di forma imposti dall’art. 1341, secondo comma, c.c., registrando per il momento posizioni tra loro assai contrapposte.

Si registra una sentenza del Giudice di Pace di Trapani, con cui viene affermato che:

la selezione di una casella tramite il click non può essere equiparata al requisito della doppia sottoscrizione richiesto dall'art. 1341 c.c., dal momento che essa non può essere assimilata alla firma del contraente che non abbia predisposto il testo dell'accordo.[8]

Tale orientamento, ha ripreso una un po’ meno recente decisione del Tribunale di Catanzaro del 2012,[9] in cui l’attore aveva lamentato la natura vessatoria della clausola contenuta nei termini d’uso del sito web del preponente (eBay), che consentiva alla società di sospendere o cancellare in ogni momento, anche senza motivazione, l’account con cui il venditore poteva utilizzare la piattaforma.

Il Tribunale aveva accolto la domanda, constatando la natura abusiva della clausola e rilevando che eBay non avesse predisposto un meccanismo di doppia accettazione valido ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., tramite specifica approvazione dell’aderente delle CGC per mezzo di firma digitale, posto che solo quest’ultima avrebbe garantito l’effettiva accettazione della disposizione e l’identificabilità del sottoscrivente.

A parere di chi scrive, posto che il testo dell’art. 1341, secondo comma c.c., non richiede la specifica sottoscrizione delle clausole vessatorie, quanto piuttosto la loro approvazione, la firma digitale non dovrebbe essere ritenuto elemento necessario per garantire il soddisfacimento di tale requisito, quanto piuttosto per superare un differente (ed ulteriore) ostacolo, ossia relativo alla prova della riconducibilità della sottoscrizione di un contratto elettronico ad un soggetto ben identificato.[11]

A tale proposto, posto che tale “identificazione” può essere effettuata anche in modalità più snelle e più in linea con quelle che sono le esigenze commerciali di entrambe le parti, si potrebbe ritenere che la validità dell’accettazione delle condizioni generali di contratto tramite clic e la loro riconducibilità ad un determinato soggetto, possa essere maggiormente “rafforzata” se questa viene raccolta, ad esempio, a seguito di un login con inserimento di user name e password da parte dell’aderente.[12]

Si evidenzia comunque che più recentemente, nel 2018, il Tribunale di Napoli in una vicenda analoga (relativa ancora ai termini di utilizzo di eBay), ha invece accolto un orientamento assai difforme, ritenendo non necessario introdurre il requisito della firma digitale per accettare le clausole vessatorie, posto che questa soluzione avrebbe portato a:

trasformare in via pretoria tutti i contratti telematici in contratti a forma vincolata, imponendo per la loro stipula l’impiego di uno strumento sofisticato, ancora non massivamente diffuso tra il pubblico, e così paralizzando, di fatto, lo sviluppo sul piano nazionale di un intero settore di traffici sempre più importante a livello planetario”.

Ancora in tal senso, si legge in un ormai risalente decisione del Giudice di Pace di Partanna,[10]  che aveva ritenuto sufficiente ad integrare il requisito della forma scritta di cui all’art. 1341, secondo comma, c.c. tramite

un doppio assenso, premendo sull’apposto tasto: uno di adesione e l’altro di approvazione delle clausole cosiddette vessatorie.”

3) 1341 c.c. e commercio internazionale
3.1. Deroga della giurisdizione.

Dopo avere, seppure assai brevemente, analizzato quelle che sono le principali problematiche relative ai limiti di utilizzabilità delle CGC nell’ambito del commercio elettronico, si va qui di seguito ad esaminare la possibilità di derogare la giurisdizione in favore dell’Autorità Giudiziaria di uno Stato membro, semplicemente inserendo una clausola di proroga all’interno delle condizioni generali di contratto, da sottoporre all’accettazione dell’aderente tramite un semplice clic.

L’art. 23 del regolamento Bruxelles I bis, prevede che l’accordo attributivo di competenza deve essere concluso:

  1. “Per iscritto o oralmente con conferma scritta,
  2. o in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro, o
  3. nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere […].
  1. La forma scritta comprende qualsiasi comunicazione elettronica che permetta una registrazione durevole della clausola attributiva di competenza

La Corte di Giustizia Europea[13] è stata interrogata a rispondere se la procedura di accettazione mediante clic, con cui un compratore ha accesso alle condizioni generali di vendita che figurano su un sito Internet cliccando appunto su un collegamento ipertestuale che apre una finestra, soddisfi i requisiti dell’art. 23, paragrafo 2, del regolamento di Bruxelles I.

Il caso, riguardava un concessionario di automobili stabilito in Germania, che dopo avere acquistato sulla pagina web della convenuta (una società con sede Belgio), chiamava in giudizio parte venditrice presso il tribunale tedesco di Krefeld. La venditrice si costituiva sostenendo che i giudici tedeschi non erano competenti, tenuto conto che all’art. 7 delle CGC di vendita era prevista una clausola attributiva di competenza a favore del giudice di Lovanio (Belgio).

La Corte di Giustizia, confermava la competenza del giudice di Lovanio, ritenendo che la procedura di accettazione mediante clic delle condizioni generali di un contratto di vendita conclusosi elettronicamente, che contengono una clausola di deroga di competenza, costituisce una accettazione per iscritto delle stesse, trattandosi di comunicazione elettronica che, seppure non si apra automaticamente al momento della registrazione sul sito internet, permette di essere salvata o stampata prima della conclusione del contratto e costituisce pertanto una comunicazione elettroniche ai sensi dell’art. 23, paragrafo 2, del regolamento.

Tale problematica è stata recentemente sottoposta anche alle Sezioni Unite della Cassazione,[14] che hanno ritenuto che una clausola di proroga della giurisdizione (ex art. 23 del Regolamento), è valida anche qualora sia contenuta nelle condizioni generali di un contratto, espressamente richiamate nell'ordine di acquisto sottoscritto dal committente ed accessibili da indirizzo web ivi richiamato e che prima della conclusione del contratto, sia possibile stampare e salvare il testo di dette condizioni.

La deroga di giurisdizione, non richiede quindi la specifica approvazione scritta dell'aderente, ex art. 1341, secondo comma, c.c., posto che essa non rientra tra le clausole vessatorie ivi tassativamente elencate. È opportuno fare presente che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,[16] l’art. 1341 c.c. detta un criterio di competenza e che questo non incide sui diversi criteri attributivi di giurisdizione applicabili alle controversie internazionali. Le stesse Sezioni Unite[15] si sono recentemente pronunciate, sul punto affermando che:

Il requisito della forma scritta, prescritto dall’art. 23 del Regolamento […], è rispettato ove la clausola stessa figuri tra le condizioni generali di contratto, se il documento contrattuale sottoscritto da entrambe le parti contenga un richiamo espresso alle condizioni generali suddette recanti quella clausola, senza la necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c.”

3.2. Condizioni generali di contratto e convenzione di Vienna.

Nel caso in cui le condizioni generali di contratto disciplinino dei rapporti di compravendita internazionale, con conseguente (eventuale) applicabilità della Convenzione di Vienna,[17] si pone la problematica se il requisito della doppia sottoscrizione di cui all’art. 1341 c.c. sia o meno invocabile.

Invero, la Convenzione di Vienna, al pari di ogni altra convenzione di diritto contrattuale uniforme, non regolamenta tutte le questioni che possono sorgere intorno ai contratti da essa disciplinati; tale elemento ha non poco rilievo se si considera che le questioni non disciplinate, dovranno essere risolte sulla base del diritto applicabile al rapporto contrattuale.[18]

Contrariamente, tutte le questioni che vengono espressamente regolamentate dalla Convezione, prevarranno sulle norme di diritto interno, che saranno dalla stessa derogate; per comprendere se l’art. 1341 c.c. sia in tal caso invocabile è essenziale comprendere se le CGC siano o meno regolate da tali norme di diritto uniforme.

Secondo più autorevole dottrina,[19] seppure le condizioni generali di contratto non vegano espressamente regolamentate dalla Convenzione di Vienna, posto che nella sua Parte II viene disciplinata in maniera esaustiva la "formazione del contratto" , per comprendere a quali requisiti di forma le CGC devono sottostare sarà necessario rifarsi alle norme della Convenzione stessa.

Sul presupposto che l’art. 11 della Convenzione di Vienna stabilisce il principio della libertà di forma, parte della dottrina[20] e della giurisprudenza[21] ha quindi ritenuto che in caso di applicazione della Convenzione, il requisito ex art. 1341 c.c. dell’assoggettamento di eventuali clausole vessatorie predisposte da uno dei contraenti alla specifica approvazione scritta, debba considerarsi derogato.

Seguendo tale principio ed applicandolo alle vendite online, si può quindi ritenere che, in caso di applicazione della Convenzione di Vienna, le clausole vessatorie inserite in condizioni generali di contratto non richiederebbero una specifica approvazione, potendo quindi essere accettate anche tramite “clic”; sarà pur sempre onere del disponente (ex art. 9) accertarsi che l’aderente sia stato messo in condizione di venire a conoscenza delle stesse, tramite un atteggiamento “proattivo” in virtù di un generale obbligo di buona fede e collaborazione commerciale.[22]


[1] Bianca, Diritto Civile, Giuffrè, Terza edizione, pag. 340.

[2] Tribunale Milano 18.6.2009.

[3] Bianca, Le condizioni generali di contratto, 1979, pag. 2.

[4] Cass. civ. 2003, n. 1833.

[5] Cass. Civ. 2013, n. 14038.

[6] Cass. civ. 2020, n. 8268.

[7] Trib. Rimini, 4.4.2020; Cass. Civ. 2018, n. 17939.

[8] Giudice di pace Trapani, 14.10.2019, con nota di Quarta La conclusione del contratto di albergo per via telematica: pagamento anticipato e revoca della prenotazione, Danno e responsabilità, 2020, 2; Giudice di pace Milano 28.01.2019, Tribunale di Catanzaro 30.4.2012, in Res. Civ. e prev., 2013, 2015 ss.

[9] Trib. Catanzaro 30.4.2012, in Contratti, 2013, 1, 41, con nota di V. Pandolfini, Contratto on line e clausole vessatorie: quale firma (elettronica)?

[10] Giudice di pace Partanna 1.2.2002.

[11] Lo stesso Tribunale di Catanzaro, argomenta che il contratto non è valido in quanto solo la firma digitale avrebbe garantito l’effettiva accettazione della disposizione e l’identificabilità del sottoscrivente.

[12] Sulla tematica cfr. anche Cerdonio Chiaramonte, Specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorio contrattazione online, NGCC, n. 3, 2018.

[13] Corte di Giustizia Unione Europea, 21.5.2015, n. 322/14.

[14] Cass. Civ. Sez. Un. 2017, n. 21622.

[15] Cass. Civ. Sez. Un. 2020, n. 1871.

[16] Sul punto cfr. Cass. Civ. Sez. Un. 1982, n. 6190, Cass. Civ. 2003, n. 17209, Cass. Civ. 2010, n. 14703.

[17] L’art. 1 della Convenzione che la stessa “si applica ai contratti di vendita delle merci fra parti aventi la loro sede di affari in Stati diversi: a ) quando questi Stati sono Stati contraenti; o b ) quando le norme di diritto internazionale privato rimandano all'applicazione della legge di uno Stato contraente.”

[18] Secondo la giurisprudenza italiana non sono disciplinate dalla Convenzione questioni legate ad es. alla rappresentanza e alla prescrizione (Trib. Padova 25.2.2004; Trib. Vigevano 12.7.2000).

[19] Ferrari, Vendita internazionale dei beni mobili,

[20] Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981).

[21] Trib. Rovereto 24.8.2006; Cass. Civ. 16.5.2007, n. 11226.

[22] In materia, Ferrari, Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili, Obbligazioni e contratti, 2007, 308.


Quali sono le garanzie del venditore/produttore per i difetti materiali della cosa venduta?

La disciplina della garanzia dei vizi materiali (e non giuridici) viene regolamentata agli artt. 1490 e ss. c.c. Nello specifico essa è così suddivisa: gli articoli 1490-1496 disciplinano la garanzia per vizi della cosa, mentre l’art. 1497 c.c. disciplina la garanzia per mancanza di qualità.

La giurisprudenza italiana ha sviluppato, a fianco a queste garanzie, una ulteriore conosciuta come “aliud pro alio”, che si ha tutte le volte in cui il vizio materiale della cosa venduta è talmente grave, da rendere completamente inidoneo il bene ad assolvere la funzione per cui era stata acquistata.

Per quanto possibile, stante la complessità e l’articolazione della questione, si va qui di seguito a cercare di distinguere le varie discipline di garanzie conosciute dall’ordinamento italiano.

      a) Garanzia per vizi (art. 1490-1496 c.c.)

Tale garanzia è dovuta dal venditore solamente se al momento della stipulazione del contratto, il compratore ignorava l’esistenza dei vizi ovvero se tale ignoranza non sia colpevole, posto che i vizi non erano facilmente riconoscibili (art. 1491 c.c.).[1]

Circa il contenuto, essa conferisce al compratore la possibilità di agire per chiedere a sua discrezione la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.), oltre in ogni caso al risarcimento (art. 1494 c.c.). Esclusa da tale garanzia è invece l’azione da esatto adempimento, ossia l’azione con la quale si chiede al venditore di eliminare i vizi, riparando il bene oggetto della compravendita.[2]

Importante evidenziare che la scelta dell’azione di riduzione del prezzo e quella di risoluzione del contratto è irrevocabile una volta che è stata fatta tramite domanda giudiziale (art. 1492, comma 2 c.c.), non potendo una parte neppure promuovere una azione chiedendo la riduzione del prezzo in via subordinata rispetto alla domanda di risoluzione del contratto, o viceversa.[3]

Infine, le parti hanno facoltà di escludere tale garanzia per vizi, con il solo limite al caso in cui i vizi sono taciuti in mala fede dal venditore. Particolare attenzione deve essere data alle clausole di esonero di garanzia (la cui trattazione da sola richiederebbe un ben più ampio approfondimento), che rientrano nella disciplina speciale prevista dall’art. 1341 c.c.,[4] che regola le cosiddette “clausole vessatorie” e che prevede l’obbligo di sottoscrivere espressamente la clausola con doppia firma, pena la nullità della clausola in caso di mancata doppia sottoscrizione.[5]

      b) Garanzie per mancanza di qualità ex art. 1497 c.c.

Mentre il vizio consiste in una imperfezione/difetto del bene, la mancanza di qualità si ha ogni volta che la cosa (seppure non presenti difetti di fabbricazione/formazione/conservazione) è ascrivibile ad una specie piuttosto che ad un’altra, pur nell’ambito di un medesimo genere.[6]

La disciplina di questa garanzia è particolare, in quanto da una parte l’art. 1497 c.c., comma 1, la assoggettata ai termini di denuncia e prescrizione previsti per la vendita, all’art. 1495 c.c. (e che saranno oggetto di successiva trattazione cfr. paragrafo nr. X), ma dall’altro lato se ne distacca, posto che l’art. 1497 c.c. comma 2, dispone che la risoluzione del contratto è ammessa “secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento”.

Seppure la giurisprudenza nel tempo è sempre stata oscillante nel ritenere se la presenza di vizi e la mancanza di qualità debbano essere o meno soggette alla stessa disciplina,[7] le più recenti sentenze, sembrano ritenere che l’azione ex art. 1497 c.c. si differenzia rispetto a quella per garanzia per vizi, in quanto nella prima:

  • il compratore può esercitare l’azione di esatto adempimento (ex art. 1453 c.c.);
  • il compratore non potrebbe richiedere la riduzione del prezzo, in quanto non prevista dalla disciplina generale dell’inadempimento.[8]
     c) L’“aliud pro alio”

Si ha aliud pro alio, quando la cosa venduta appartiene ad un genere del tutto diverso da quello della cosa consegnata, oppure presenta difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti.[9] Si pensi, ad esempio alla cessione di un'opera d'arte falsamente attribuita ad artista. Tale ipotesi legittima l'acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, ex art. 1453;[10] oppure alla vendita di case non abitabili o comunque prive dei requisiti di abitabilità (C. 8880/2000) o di macchine con numero di telaio contraffatto (C. 7561/2006).

In caso di aliud pro alio, il compratore non è soggetto ad alcun onere di denuncia, ma ha la possibilità sia di domandare l'adempimento, sia di esperire l'azione di risoluzione e secondo quanto stabilito dall'art. 1453 il venditore sarà responsabile solo se colpevole, secondo i principi generali che regolano l'inadempimento e, quindi, soggetta al termine di prescrizione ordinario di dieci anni.[11]

      d) Risarcimento del danno

Nel caso di difetti materiali della cosa, l’acquirente ha diritto, oltre a chiedere la risoluzione del danno o la riduzione del prezzo, anche il risarcimento del danno.  L’art. 1494 c.c. prevede inoltre una presunzione di colpa in capo al venditore, il quale è tenuto a provare di avere ignorato incolpevolmente la sussistenza dei vizi della cosa.

La conforme giurisprudenza ritiene che l'acquirente deve essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui egli si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi, ma non quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto o se lo avesse concluso ad un prezzo inferiore.[12] Inoltre il compratore può domandare anche il risarcimento delle spese impiegate per eliminare i vizi, a prescindere dalla effettiva eliminazione dei vizi stessi.[13]

      e) Applicazione della Convenzione di Vienna e del codice del consumo

Giova notare che la distinzione tra vizi, mancanza di qualità, difettoso funzionamento, aliud pro alio e responsabilità ordinaria sono state superate dalla Convenzione di Vienna, che prevede, agli artt. 35-41, strumenti di tutela del compratore omogenei per tutte le ipotesi di difformità della cosa consegnata rispetto a quella pattuita.

L’art. 35 fissa due criteri per valutare se la merce consegnata è priva di difetti di vizi, da un lato quello della conformità a quanto pattuito tra le parti e, nel caso in cui tale pattuizione manchi, una serie di criteri sussidiari.[14]

Quanto ai rimedi offerti dalla Convenzione essi sono: la richiesta di adempimento (art. 46)[15], di risoluzione del contratto (art. 47),[16] riduzione del prezzo (art. 50)[17] e risarcimento del danno (art. 45).[18]

Nella stessa direzione si è mossa la direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24 (che ha introdotto nel codice civile gli artt. 1519 bis-1519 novies) e relativa alla vendita di beni di consumo. La nuova disciplina prevede, a carico del venditore professionista, una garanzia unitaria per tutti le ipotesi di "difetto di conformità" del bene dal contratto, legittimante il consumatore a domandare, a sua scelta, la riparazione del bene o la risoluzione del contratto.

___________________________

[1] La riconoscibilità del vizio è esclusa nel caso in cui la vendita è stata conclusa a distanza, ovvero nel caso in cui il bene/la merce fosse imballata o confezionata

[2] Tale esonero è valido, ovviamente, per la vendita tra professionisti, posto che il nuovo codice del consumo, che è stato introdotto in Italia con il recepimento della direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24.

[3] Cass. Civ. 2015, nr. 17138; Cass. Civ. 2004, n. 1434.

[4] Articolo 1341. "Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (1370, 2211).

In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, (1229), facoltà di recedere dal contratto(1373) o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze (2964 e seguenti), limitazioni alla facolt di opporre eccezioni (1462), restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (1379, 2557, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie (Cod. Proc. Civ. 808) o deroghe (Cod. Proc. Civ. 6) alla competenza dell’autorità giudiziaria"

[5] Secondo autorevole dottrina (Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981) e giurisprudenza (Cass. Civ. 2007, nr. 1126) sostengono che il requisito della doppia sottoscrizione di cui all’art. 1341 c.c. non sia invocabile e, quindi, venga derogato in caso di applicazione della Convenzione di Vienna. Contra dottrina minoritaria (Pischedda P. ‘‘L’evoluzione dell’assicurazione del credito export’’ IPSOA, 2007).

[6] Con riferimento alle qualità che il bene compravenduto deve avere, esso è determinato nell’orientamenti italiano, dal criterio della “qualità media”, che opera (esclusivamente) nella vendita di cose generiche. Tale criterio richiede che le singole qualità sussistano in quella misura ordinaria che conferisce al bene un valore medio (art. 1178 c.c.).

[7] Cass. Civ. 1978 nr. 5361; Cass. Civ. 1978 nr. 206.

[8] Cass. Civ. 2000, nr. 639.

[9] In tema di distinzione tra vizio ed aluid pro alio la Cassazione recentemente è intervenuta affermando che si ha vizio redibitorio oppure mancanza di qualità essenziali della cosa consegnata qualora questa presenti imperfezioni che la rendano inidonea all'uso cui dovrebbe essere destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, ovvero appartenga ad un tipo diverso o ad una specie diversa da quella pattuita; si ha, invece, consegna di aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ai sensi dell'art. 1453, svincolata dai termini di decadenza e prescrizione, qualora il bene consegnato sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l'utilità richiesta. C. 5202/2007; C. 686/2006; C. 14586/2004; C. 18757/2004; C. 13925/2002; C. 5153/2002; C. 2659/2001; C. 10188/2000; C. 2712/1999; C. 4899/1998; C. 1038/1998; C. 844/1997; C. 244/1997; C. 5963/1996; C. 593/1995; C. 8537/1994; C. 1866/1992; C. 13268/1991; A. Roma 29.5.2008.

[10] Cass. Civ. 2008 nr. 17995.

[11] Cass. Civ. 2016, nr. 2313.

[12] Cass. Civ. 2000, nr. 7718; Cass. Civ. 1995, nr. 1153.

[13] Cass. Civ. 1990, nr. 8336.

[14] Art. 35 secondo comma “A meno che le parti non convengano altrimenti, le merci sono conformi al contratto solo se: a) sono atte agli usi ai quali servirebbero abitualmente merci dello stesso genere; b) sono atte ad ogni uso speciale, espressamente o tacitamente portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto, a meno che risulti dalle circostanze che l'acquirente non si è affidato alla competenza o alla valutazione del venditore o che non era ragionevole da parte sua farlo; c  possiedono le qualità di una merce che il venditore ha presentato all'acquirente come campione o modello; d) sono imballate o confezionate secondo i criteri usuali per le merci dello stesso tipo, oppure, in difetto di un criterio usuale, in maniera adatta a conservarle e proteggerli.”

[15] Azione esperibile, purché non abbia fatto ricorso ad un rimedio incompatibile. Può inoltre chiedere la sostituzione della merce, in presenza di un inadempimento essenziale ex art. 25. La riparazione può essere richiesta invece ove non appaia irragionevole, tenuto conto di tutte le circostanze. Cfr. sul punto Bortolotti, Il contratto di vendita internazionale, CEDAM, 2012, pag. 260.

[16] La risoluzione del contratto e conseguente restituzione delle prestazioni effettuate, può essere richiesta solamente in caso di inadempimento essenziale o in caso di mancata consegna della merce entro un termine ragionevole supplementare fissato dal compratore ex art. 47.

[17] Tale richiesta non può essere avanzate se il venditore rimedia il difetto o se il compratore rifiuta la prestazione del venditore.

[18] Il danno è costituito dalla perdita subita a causa dell’inadempimento e dal mancato guadagno. Ad ogni modo il danno risarcibile non può superare la perdita che il venditore aveva previsto o avrebbe dovuto prevedere al momento della conclusione del contratto (art. 74), dovendo comunque il compratore adottare le misure ragionevoli per limitare il danno, potendo in caso contrario la parte inadempiente ridurre l’entità del risarcimento pari all’ammontare della perdita che avrebbe potuto evitare (art. 77).


Contratto di appalto e vendita

Contratto di vendita o contratto di appalto? ...e cosa succede se si applica la convenzione di Vienna?

Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra contratto di appalto e vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.

1. Differenza tra contratto di vendita e applato.

In caso di vendita di cosa futura, ossia tutte le volte in cui oggetto della transazione è un bene che deve essere ancora realizzato, si può porre una problematica di grande rilevanza pratica e di notevole complessità giuridica, comprendere se il contratto possa essere identificato come compravendita oppure, contrariamente, come un contratto di appalto.

Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra il contratto di appalto e quello di vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.

Si pensi al classico esempio in cui, oggetto del negozio è un bene che rientra nella produzione ordinaria di una imprese, ma al quale il committente richiede che vengano apportare alcune modifiche. In tali casi, secondo la giurisprudenza, si avrà appalto, tutte le volte in cui tali modifiche, consistono non già in accorgimenti marginali e secondari diretti ad adattarle alle specifiche esigenze del destinatario della prestazione, ma sono tali da dar luogo ad un bene nuovo, diverso rispetto a quello oggetto della normale produzione. La giurisprudenza italiana, punta in particolare l'attenzione, non tanto sulla quantità di lavoro che viene richiesta per apportare tali modifiche, bensì piuttosto sulla tipologia di modifiche che sono state effettivamente apportate al prodotto. [1]

Inoltre, nel caso il contratto prevedesse la messa in opera e/o l'installazione del bene stesso, la giurisprudenza italiana, fa un ulteriore distinguo: si deve considerare contratto di vendita (con annesso obbligazione di posa in opera), nel caso in cui

la fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l'assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi, salvo, ovviamente, che le clausole contrattuali obbligano l'assuntore degli indicati lavori a realizzare un quid novi rispetto alla normale serie produttiva […].

Qualora, invece, l'assuntore dei lavori di cui si dice non è nè il fabbricatore, nè il rivenditore del bene da installare o mettere in opera, l'attività di installazione di un bene svolta dal prestatore, risultando autonoma rispetto a quella di produzione e vendita, identifica o rinvia ad un contratto di appalto, dato che la materia viene in considerazione quale strumento per la realizzazione di un'opera o per la prestazione di un servizio.”[2]


2. E se si applica la Convenzione di Vienna?

Una diverso approccio si ha, invece, nel caso in cui al rapporto sia applicabile la Convenzione di Vienna, sulla vendita internazionale di beni mobili, del 1980.
Tale convenzione, si applica al rapporto tutte le volte in cui oggetto del contratto sia la vendita fra parti aventi la loro sede di affari in Stati diversi; nello specifico, l’art. 1 della Convenzione, dispone che la stessa si applica:

  • “quando questi Stati sono Stati contraenti; o
  • "quando le norme di diritto internazionale privato rimandano all'applicazione della legge di uno Stato contraente."

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Certamente, anche nel caso dell’applicazione della Convenzione di Vienna, si pone comunque la problematica relativa all’identificazione del rapporto contrattuale e, nello specifico, di comprendere se il rapporto possa essere identificato come compravendita (con conseguente applicazione della Convenzione stessa), oppure se si tratti di un contratto di appalto.

Sul punto, la stessa Convenzione detta dei principi interpretativi, che permettono alle parti di identificare che cosa debba considerarsi per "vendita". L’art. 3, comma 1 del Convenzione, fa rientrare come contratto di compravendita, anche

"[...] sono considerate vendite i contratti di fornitura di merci da fabbricare o produrre, a meno he la parte che ordina queste ultime non debba fornire una parte essenziale del materiale necessario a tale fabbricazione o produzione."

Inoltre il secondo comma del succitato articolo, dispone che:

La presente Convenzione non si applica ai contratti in cui la parte preponderante dell'obbligo della parte che fornisce le merci consiste in una fornitura di mano d'opera o altri servizi.

Tale articolo estende alla sfera di applicazione della Convenzione, anche i contratti, per i quali il venditore, oltre alla consegna della cosa ed al trasferimento della proprietà,  si impegna altresì ad offrire lavoro o altri servizi, a patto che tali servizi non costituiscano la “parte preponderante” (in inglese “preponderant part”), delle obbligazioni del venditore stesso.

Al fine di comprendere se l’apporto di lavoro/servizi sia “preponderante”, deve essere effettuato un confronto sul valore economico dei servizi offerti e il valore della componente materiale stessa del bene,[3] come se costituissero due contratti distinti e separati.[4] Pertanto, quando l'obbligo per la fornitura di manodopera o servizi è superiore al 50 per cento degli obblighi del venditore, la Convenzione non è applicabile.[5] Alcuni tribunali richiedono che il valore dell'obbligo di servizio "chiaramente" superi quello della merce.[6]

Ciò che contraddistingue essenzialmente i due approcci, è che le Corti italiane, tendono a dare meno peso al rapporto che c’è tra il valore economico del materiale ed i servizi ad esso collegati: la differenza tra appalto e contratto di compravendita, consiste principalmente nell’obbligazione che l’imprenditore si è assunto, ossia identificare se lo stesso si è impegnato a fornire un prodotto che rientra nella propria normale attività produttiva, ovvero se è necessario apportare al prodotto (di linea) modifiche consistenti, tali da dar luogo ad un prodotto diverso, nella sua essenza, da quello realizzato normalmente dal fornitore.


[1] Cass. Civ. 2001 nr. 6925; Cas. Civ. 1994 nr. 7697.

[2] Cass. Civ. 2014, nr. 872.

[3] Obergericht Aargau, Switzerland, 3 marzo 2009; Bundesgerichtshof, 9 giugno 2008; Court of Arbitration of the International Chamber of Commerce, 2000.

[4] Kantonsgericht Zug, Svizzera, 14 dicembre 2009

[5] Kantonsgericht Zug, Switzerland, 14 December 2009, available on the Internet at www.cisg-online.ch; Tribunal of International Com- mercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, Award No. 5/1997, English translation availa- ble on the Internet at www.cisg.law.pace.edu;

Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, English translation available on the Internet at www.cisg.law.pace.edu (applying the Convention to a purchase of a packaging machine consisting of ten individual devices as well as several transportation and interconnection systems, which also imposed upon the seller the obligation to install the packaging machine and prepare its operation at the buyer’s works).

[6] Kreisgericht Bern-Laupen, Switzerland, 29 January 1999, available on the Internet at www.cisg-online.ch.


Convenzione di Vienna e risoluzione del contratto di compravendita. Termini di decadenza e prescrizione dell'azione.

Come si è già avuto modo di rilevare,  la Convenzione di Vienna non si occupa della prescrizione dell’azione, che secondo la più autorevole dottrina[1]  e giurisprudenza,[2] viene disciplinata dalle norme interne. La prescrizione, pertanto, ai sensi dell’art. 7, comma 2 della medesima Convenzione, trova ingresso sulla base delle norme del diritto applicabile e, nel caso del diritto italiano, all’art. 1495 c.c. e ss..

  1. Termini di decadenza ex art. 39 e 49 della Convenzione

Contrariamente, la Convenzione regolamenta espressamente i termini di decadenza del diritto dell'acquirente alla garanzia. L’art. 39 così recita:

  1. L'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al venditore, precisando la natura di tale difetto, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui l'ha constatato o avrebbe dovuto constatarlo.
  2. In tutti i casi l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al più tardi entro un termine di due anni, a partire dalla data alla quale le merci gli sono state effettivamente consegnate, a meno che tale scadenza non sia incompatibile con la durata di una garanzia contrattuale.   

L’art. 39 prevede dunque che viene meno il diritto del compratore, di fare valere il difetto di conformità dei beni, ivi compreso, il diritto di risolvere il contratto, se non lo denuncia al venditore entro un tempo ragionevole, dal momento in cui lo ha scoperto o avrebbe dovuto scoprirlo e, in ogni caso al più tardi entro due anni dalla data in cui i beni gli sono stati effettivamente consegnati.

Contrariamente alla disciplina civilista, nel caso in cui l'acquirente intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale, la Convenzione prevede un ulteriore termine di decadenza, oltre a quello sopra descritto di denuncia del vizio, che impone allo stesso di comunicare al venditore la propria intenzione di  dichiarare il contratto risolto. L’art 49 della Convenzione così dispone:

  1. L'acquirente può dichiarare il contratto risolto [avoided]:
    1. se l'inadempimento da parte del venditore di uno qualsiasi degli obblighi che gli derivano dal contratto o dalla presente Convenzione costituisce un'inosservanza essenziale del contratto; […]
  2. Tuttavia, quando il venditore ha consegnato le merci, l'acquirente scade dal diritto di dichiarare risolto il contratto se non lo ha fatto:
    1. in caso di consegna tardiva, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui è venuto a conoscenza che la consegna era stata effettuata;
    2. in caso di inosservanza diversa dalla consegna tardiva, entro una scadenza ragionevole.

Tale articolo contempla il più radicale dei rimedi per l’inadempimento del venditore: la risoluzione del contratto. Il secondo comma dell’art. 49, prevede che, qualora il compratore abbia effettuato la consegna, l’acquirente perde il diritto di dichiarare risolto il contratto, se non lo esercita entro un “termine ragionevole tramite una propria dichiarazione unilaterale.

L’acquirente in base alla Convenzione di Vienna deve quindi:

  • entro un termine ragionevole (ed al più tardi entro due anni dalla consegna) denunciare il vizio (art. 39);
  • entro una scadenza ragionevole dalla consegna, dichiarare il contratto risolto (art. 49).

Sull’interpretazione di “scadenza ragionevole”, di cui all’art. 49, per la dichiarazione di risoluzione del contratto, le Corti si sono pronunciate tenendo di volta in volta conto della tipologia di merce venduta e del settore merceologico.

È stato ritenuto non ragionevole il periodo di cinque mesi a partire dal momento in cui l’acquirente ha comunicato al venditore i vizi della merce;[3] un dichiarazione di risoluzione fatta dopo otto settimane, da quando il compratore è venuto a conoscenza della sussistenza dei vizi è stato altresì ritenuto tardivo;[4] “irragionevole” è stato altresì ritenuto il termine di otto mesi dopo che il compratore avrebbe dovuto conoscere i vizi.[5] D’altro canto il periodo di un mese o cinque settimana è stato ritenuto ragionevole e pertanto tempestivo per effettuare la dichiarazione di cui all’art. 49 secondo comma, lettera b.[6]

Inoltre, secondo autorevole dottrina, il termine ragionevole di cui all’art. 49 secondo comma, non può mai superare il termine di cui all’art. 39, secondo comma, ossia due anni dalla data in cui i beni sono stati effettivamente consegnati.

“Il compratore perde il diritto di far valere il difetto di conformità e, conseguentemente, di risolvere il contratto. In tale ipotesi, il limite temporale previsto dall’art. 39 prevale su quello previsto dall’art. 49 comma 2°, lett. B); la data della denuncia ex art. 39 e quello della dichiarazione di risoluzione ex art. 49 possono non coincidere, ma il termine per entrambe decorre dal medesimo momento, e ha la medesima scadenza [appunto data dell’effettiva consegna].[7]

Questo comporta, che entro il limite massimo di due anni dalla consegna, il compratore deve sia denunciare i vizi (ex art. 39), che dichiarare il contratto nullo (ex art. 49), qualora in giudizio intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale.

Circa le modalità con le quali tale dichiarazione deve essere effettuata, l’art. 26 della Convenzione dispone:

Una dichiarazione di risoluzione del contratto ha effetto solo se è effettuata mediante notifica all'altra parte.

Ciò comporta che tale dichiarazione deve contenere in maniera espressa ed inequivocabile che il contratto sia stato risolto e, pertanto, sia terminato.[8]

 

[1] Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 25; Schlechtriem, Internationales UN-Kaufrecht, Tübingen 2007, 124, n. 162; Honsel, Das einheitliche UN-Kaufrecht, consultabile sul sito http://20iahre.cisg-library.org.

[2] Bundesgerichtshof, Germania, 23 ottobre 2013, Internationales Handelsrecht 2014, 25 = CISG-online n ° 2474; Bundesgericht, Svizzera, 18 maggio 2009, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Appellationsgericht Basilea Città, Svizzera, 26 settembre 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Corte Suprema, Slovacchia, 30 aprile 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Oberlandesgericht Köln, Germania, 13 Febbraio, 2006, anche in Internationales Handeslrecht 2006, 145 ss.; Cour d'appel de Versailles, Francia, il 13 ottobre 2005, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu, Tribunale di Padova, sez. Este, 20 febbraio 2004, disponibile all’indirizzo  http://www.uncitral.org/docs/clout/ITA/ITA_100106_FT_clean.pdf.

[3] Bundesgerichtshof, Germania, 15 febbraio 1995; cfr. inoltre Oberlandesgericht München, Germania, 2 marzo 1994] (4 mesi).

[4] Oberlandesgericht Koblenz, Germania, 31 gennaio 1997.

[5] Cour d’appel Paris, Francia, 14 giugno 2001; cfr. inoltre Tribunal of International Commercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, 22 October 1998. (che ha considerato una denuncia effettuata dopo cinque o sei mesi non tempestiva); Hof ’s-Hertogenbosch, Danimarca, 11 ottobre 2005.

[6] [Tribunal cantonal du canton de Valais, Switzerland, 21 February 2005] (one month); CLOUT case No. 165 [Oberlandesgericht Oldenburg, Germany, 1 February 1995] (five weeks); Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, Internationales Handelsrecht 2010, 27 (one to two months).

[7] Bianca e Bonell, Commentario sulla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci, Nuovi leggi  civili commentate, CEDAM, Padova, 1989.

[8] Kantonsgericht des Kantons Zug, Svizzera, 30 Agosto 2007; UNCITRAL Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 233.

 


La denuncia del vizio e la prescrizione in caso di compravendita internazionale di beni immobili. Cosa prevede la Convenzione di Vienna?

In ambito europeo la legge applicabile al contratto di compravendita di beni mobili è regolata dall'art. 4 del Regolamento CE593/2008, che prevede che in caso di mancanza di scelta delle parti, "il contratto di vendita di beni è disciplinato dalla legge del paese nel quale il venditore ha la residenza abituale."

Nel caso in cui il rapporto sia regolato dalla legge italiana bisogna sicuramente essere consapevoli del fatto che, in maniera implicita, troverà applicazione anche la Convenzione di Vienna del 1980 sulla compravendita internazionale di beni mobili.

Ciò premesso, con questo articolo si andranno ad analizzare brevemente due aspetti di grandissima rilevanza sia pratica che giuridica, ossia comprendere come sono regolati il termine di denuncia dei vizi e di prescrizione dell'azione nel caso in cui al rapporto contrattuale si applica la Convenzione di Vienna.

a) Denuncia del vizio

Tale termine è regolato dall'art. 39,1 c.c. della Convenzione, che dispone:

"l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al venditore, precisando la natura di tale difetto, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui l'ha constatato o avrebbe dovuto constatarlo."

Il problema della quantificazione del “termine ragionevole", dovrebbe essere regolato, sulla base dei principi generali di diritto internazionale, tenendo conto delle decisioni dei Tribunali dei Paesi che hanno aderito alla Convenzione di Vienna e della tipologia del bene venduto. Tale principio è stato espresso con l'art. 7,1 della Convenzione, che prevede che:

"ai fini dell'interpretazione della presente Convenzione, sarà tenuto conto del suo carattere internazionale e della necessità di promuovere l'uniformità della sua applicazione, nonché di assicurare il rispetto della buona fede nel commercio internazionale."

Se si guarda in ambito europeo per „termine ragionevole" viene normalmente inteso un periodo di circa 20-30 giorni. (cfr. Oberlandesgericht Stuttgart, 21.8.1995, Oberlandesgericht Köln 21.8.1997, Obergericht Luzern 7.1.1997, Cour d’Appel Grenoble 13.7.1995).

Ad ogni modo, qualora la controversia dovesse essere giudicata da un Tribunale italiano, si rileva che i giudici italiani, seppure dovrebbero tenerne conto delle sentenze europee in ambito di interpretazione della Convenzione di Vienna, non sono a queste vincolati e potrebbero avere la tendenza ad interpretare tale termine utilizzando i parametri del diritto italiano.

Come è noto, a tal proposito l’art. 1495 del codice civile prevede che:

"il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi  al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge."

In primo luogo è necessario specificare che è pacifico in dottrina e in giurisprudenza che tale termine di otto giorni, si applichi non solo al caso di chiamata in garanzia, bensì anche in caso di azione relativa al risarcimento del danno. Inoltre il termine di otto giorni decorre dalla consegna della merce al compratore oppure, in caso di vizi occulti, dalla scoperta del vizio.

Ciò considerato, secondo alcune (ma rare) sentenze italiane, il termine ragionevole per la denuncia si identifica in circa 20-30 giorni (Tribunale Vigevano 12.7.2000; F. Ferrari, Giur. It. 2001, 2) e tale termine è stato addirittura prolungato a 4 mesi (Tribunale di Bolzano, 27.1.2009)

Ad ogni modo, bisogna tendere conto del fatto che la Corte di Cassazione non si è ancora pronunciata sul punto, e pertanto si consiglia prudenzialmente, per essere sicuri che la denuncia sia stata effettivamente tempestivamente, verificare, in prima battuta, se questa è stata eseguita entro 8 giorni dalla scoperta del vizio.

b) Prescrizione

Un secondo aspetto, di non poca rilevanza, riguarda invece il termine di prescrizione.

A tal riguardo, si evidenzia che la Convenzione di Vienna non prevede espressamente un termine di prescrizione, bensì solamente un termine di denuncia che non può essere superiore a due anni. L'art. 39,2 dispone che:

in tutti i casi l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al più tardi entro un termine di due anni, a partire dalla data alla quale le merci gli sono state effettivamente consegnate, a meno che tale scadenza non sia incompatibile con la durata di una garanzia contrattuale."

Posto che la questione della prescrizione non è trattata nella Convenzione, bisognerà verificare cosa dispone in merito il diritto italiano. A tal proposito l'art. 7,2 della Convenzione prevede che:

"le questioni riguardanti le materie disciplinate dalla presente Convenzione e che non sono da questa espressamente risolte, saranno regolate secondo i princìpi generali a cui si ispira, o, in mancanza di tali princìpi, in conformità alla legge applicabile secondo le norme del diritto internazionale privato."

La prescrizione, in ambito di contratti di compravendita, è regolata nel diritto italiano all’art. 1495 c.c.:

l'azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna; ma il compratore, che sia convenuto per l'esecuzione del contratto, può sempre far valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro otto giorni dalla scoperta e prima del decorso dell'anno dalla consegna.”

Ci si domanda se tale termine di un anno, possa coordinarsi con il termine di due anni previsto dall’art. 39,2 della Convenzione per la denuncia dei vizi. Sul punto sussistono anche qui pareri discordanti.

Nella sentenza sopra richiamata, il Tribunale di Bolzano ha ritenuto che il termine di due anni di cui all’art. 39, 2 comma della Convenzione è incompatibile con la previsione di un termine di prescrizione più breve di un anno di cui all’art. 1495 comma 3. Secondo il Tribunale di Bolzano, pertanto, il termine ex art. 1495 comma 3, va allungato da 1 anno a 2 anni.

Secondo autorevole dottrina (A. Reinstadler; F. Ferrari) e la giurisprudenza dei Tribunali europei (Oberster Gerichtshof – Österreich, - 25.6.1998) le lacune della convenzione vanno colmate in base alla legge applicabile al contratto, anche se questa prevede un termine inferiore ai due anni.

Pertanto, anche su questo punto, la giurisprudenza e la dottrina italiana non sono concordi e si ritiene consigliabile, in via prudenziale, verificare se sia stato rispettato il termine di prescrizione di 1 anno, ex art. 1495 c.c..