procacciatore d'affari

Procacciatore d'affari e provvigioni: quando il diritto alle provvigioni è subordinato alla comunicazione di inizio attività

Con una recente sentenza le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che che chi esercita l'attività di procacciatore d'affari senza avere comunicato l'inizio attività è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite.

Il ragionamento della Corte è assai complesso e tortuoso a causa di un assai tortuoso e poco lineare tessuto normativo.

Per comprendere i motivi che hanno spinto le Sezioni Unite ad affermare che il diritto alle provvigioni del procacciatore d'affari è subordinato all'obbligo di inizio attività, bisogna fare qualche passo indietro e ripercorrere quello che è stato il percorso normativo che ha disciplinato una figura assai analoga al procacciatore d'affari, ossia il mediatore, e quindi comprendere come tali interventi normativi possano avere avuto ripercussioni così gravi sui procacciatori stessi.

1. L'abolizione del ruolo dei mediatori.

Fino al 2010 il ruolo dei mediatori era disciplinato dall’art. 2 L. 1989/39, che imponeva l'obbligo di iscrizione a tutti i soggetti che svolgevano attività di mediazione, anche se in modo discontinuo o occasionale. Il ruolo era suddiviso in tre sezioni:

  • una per gli agenti immobiliari,
  • una per gli agenti merceologici ed
  • una per gli agenti muniti di mandato a titolo oneroso.

L’art. 73 del D. Lgs 26.03.2010, n. 59 ha abrogato l’art. 2 della L. 1989/39, andando così a sopprimere i ruoli qui sopra elencati.

A seguito di tale modifica legislativa lo svolgimento dell’attività di mediatore immobiliare è unicamente condizionata alla:

  • DIA (Dichiarazione Inizio Attività) – ora SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) – corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti;
  • verifica dei requisiti da parte della Camera di Commercio territorialmente competente e conseguente iscrizione dei mediatori nel RI (Registro delle Imprese) se l’attività è svolta in forma di impresa, ovvero in un’apposita sezione del REA (Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative).

Posto che il D.lgs. 2010/59 ha soppresso il ruolo dei mediatori, ma non ha abrogato integralmente la Legge 1989/39, ci si è chiesti come dovesse essere interpretato l’articolo 6 di tale testo normativo, che subordina il diritto del mediatore alla provvigione, alla sua regolare iscrizione al ruolo. L'art. 6 così recita:

"hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli".

La Giurisprudenza maggioritaria[1] si è espressa, affermando che hanno diritto a ricevere la provvigione solo i mediatori che abbiano segnalato l'inizio della propria attività alla Camera di Commercio competente e siano stati regolarmente iscritti nei registri delle imprese o nei repertori tenuti da tale Ente. Si legge, infatti, che:

la L. n. 39 del 1989, art. 6, secondo cui <hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli>, va interpretata nel senso che, anche per i rapporti di mediazione sottoposti alla normativa prevista dal D.Lgs. n. 59 del 2010, hanno diritto alla provvigione solo i mediatori che siano iscritti nei registri delle imprese o nei repertori tenuti dalla camera di commercio.”

2. Differenza tra procacciatore d'affari e mediatore.

Ciò chiarito, ci si è chiesti se a tale obbligo di segnalazione dovessero essere assoggettati unicamente i mediatori, ovvero anche i procacciatori d'affari, che di fatto svolgono attività di intermediazione.

Prima di dare una risposta a tale quesito è necessario comprendere brevemente la distinzione tra mediatore e procacciatore d’affari. Ai sensi dell’art. 1754 c.c., mediatore, è colui che

mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza”.

Il mediatore svolge, pertanto, la propria attività senza vincoli ed incarichi, in una posizione di imparzialità ed autonomia.[2]

Contrariamente, il procacciatore d’affari agisce in quanto incaricato da una delle parti, venendo così meno il requisito dell’indipendenza. Una sentenza del 2016 della Corte di Cassazione, che conferma un orientamento ormai consolidato, distingue le due figure asserendo che:

la mediazione ed il contratto atipico di procacciamento d'affari si distinguono sotto il profilo della posizione di imparzialità del mediatore rispetto a quella del procacciatore il quale agisce su incarico di una delle parti interessate alla conclusione dell'affare e dalla quale, pur non essendo a questa legato da un rapporto stabile ed organico (a differenza dell'agente) può pretendere il compenso.  

La Corte prosegue, analizzando anche ciò che accomuna tali figure, ossia:

“l'elemento della prestazione di una attività di intermediazione finalizzata a favorire fra terzi la conclusione degli affari.

La Giurisprudenza ha considerato che entrambe le figure svolgono di fatto attività di “intermediazione”, ha inquadrato il procacciatore d'affari come mediatore "atipico", che si distingue dal mediatore c.d. tipico, appunto per il carattere della "parzialità".

Stante l'inserimento del procacciatore nella "categoria dei mediatori", è sorta consequenziale la seguente domanda: il procacciatore deve anch'esso adempiere all’obbligo di comunicazione di inizio attività? La questione non era (e non è) priva di conseguenze pratiche, posto che, come si è già qui sopra accennato, la mancata segnalazione di inizio attività alla Camera di Commercio competente, fa venire meno, ex art. 6 L 1989/39, al diritto del mediatore alle provvigioni.

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, che con sentenza n. 19161 2017, in primo luogo hanno confermato essere:

configurabile, accanto alla mediazione ordinaria, una mediazione negoziale cosiddetta atipica, fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche a una sola soltanto delle parti interessate (c.d. mediazione unilaterale).

In secondo luogo hanno altresì affermato che:

“proprio per il suo estrinsecarsi in attività di intermediazione, rientra nell’ambito di applicabilità della disposizione prevista dall’art. 2, comma 4, della legge 39/89, che, per l’appunto, disciplina anche ipotesi atipiche di mediazione per il caso il cui oggetto dell’affare siano beni immobili o aziende.

Contrariamente, ove oggetto dell’affare siano i beni mobili:

l’obbligo di iscrizione sussiste solo per chi svolga la detta attività in modo non occasionale e quindi professionale o continuativo.

Pertanto, l'obbligo di iscrizione ai registri dei mediatori, si estende anche a tutti i procacciatori d'affari che svolgono attività di intermediazione di beni immobili o aziende (anche occasionalmente), ovvero di beni mobili (in via professionale).

La sanzione per la mancata segnalazione è piuttosto rigida, ed è disciplinata dall'art. 8 L. 1989/39:

Chiunque esercita l'attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma compresa tra lire un milione e lire quattro milioni ed è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite."

3. Differenza tra agente di commercio e mediatore.

A questo punto, si ritiene opportuno effettuare una brevissima analisi della distinzione tra agente di commercio e mediatore, che viene così riassunta dalla sentenza delle Sezioni Unite oggetto di esaminata:

[il mediatore]agisce in posizione di terzietà rispetto ai contraenti posti in contatto, a tale stregua differenziandosi dall'agente di commercio, che attua invece una collaborazione abituale e professionale con altro imprenditore.”

Il motivo per cui ci si sofferma su questa distinzione è volta a sottolineare il fatto che, seppure anche l'agente di commercio sia tenuto a segnalare l'inizio della propria attività (l'art. 74 della Legge 2010/59, ha abrogato oltre al ruolo dei mediatori, anche quelli degli agenti), l’inadempimento a tale onere non comporta il venir meno al diritto alle provvigioni: non è infatti prevista nella Legge 1985/204, che disciplina appunto l'attività degli agenti di commercio, una sanzione simile o paragonabile a quella oggetto di esamina del presente articolo.

- Leggi anche: Differenze tra contratto di agenzia e procacciatore d'affari.

Tenendo conto di tale sostanziale differenza tra agente e mediatore (tipico o atipico), si consiglia di verificare con il proprio consulente, nel caso in cui un preponente contestasse al procacciatore il versamento delle provvigioni per la mancata iscrizione al registro dei mediatori, se l’attività svolta dal procacciatore debba effettivamente considerarsi tale ovvero, contrariamente, debba essere ritenuta un’attività di agenzia “camuffata” da attività di procacciatore d’affari.

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[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 762 del 2014; Cass. Civ. n. 10125 del 2011, Cass. Civ. n. 16147 del 2010.

[2] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 16382 del 2009.


Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

"Il contratto di concessione di vendita non è regolato dalla legge italiana e segue le norme generali sui contratti, con applicazione di alcuni principi in tema di mandato e somministrazione. Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, non può essere sciolto in anticipo salvo gravi inadempienze; se a tempo indeterminato, può essere sciolto unilateralmente con congruo preavviso. Il termine di preavviso, se non pattuito, viene determinato in base alla durata del contratto e agli investimenti effettuati; qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità.

Posto che il contratto di concessione di vendita non è espressamente regolato dal nostro ordinamento, si applicano allo stesso i principi generali previsti in materia di contratti, ponendo comunque particolare attenzione alle disposizioni previste per il contratto di somministrazione (1559 e ss. c.c.) e di mandato (1703 e ss. c.c.), tipologie negoziali molto vicine a quella in esame.

Qualora il contratto di concessione sia stato stipulato a tempo determinato, esso durerà fino alla naturale scadenza non potendo quindi essere sciolto anticipatamente in via unilaterale da una delle parti, salvo il caso di (grave) inadempimento.[1]

Contrariamente, qualora il contratto di concessione di vendita abbia durata indeterminata, esso potrà essere sciolto unilateralmente, senza la necessità di invocare una giusta causa, ma previa concessione di un congruo preavviso. Dottrina e giurisprudenza giungono a tale conclusione, sia in applicazione analogica dei principi dettati in tema di somministrazione (art. 1569 c.c.)[2] e mandato (art. 1725 c.c.),[3] ma altresì poggiandosi alle disposizioni generali dell’ordinamento in ambito di recesso unilaterale ed in applicazione dei principi di buona fede ex art. 1375 c.c.

Un rilevante problema si apre in merito all’individuazione della durata del preavviso, in tutti quei casi in cui le parti non lo abbiano pattuito contrattualmente; tale evenienza può riscontrarsi non solamente qualora i contraenti non abbiano pensato di regolamentare tale questione in sede di redazione del contratto quadro, ma anche nella ben più complessa situazione, in cui il rapporto tra le parti, partito come rapporto di semplice acquirente venditore, si è di fatto nel tempo “trasformato” in un contratto di vera e propria distribuzione (sul punto, confronta l’articolo Concessione di vendita, distributore o cliente abituale? Differenze, elementi caratterizzanti e criteri interpretativi).

Per comprendere cosa si intenda per congruo preavviso e, quindi, per dare un valore temporale a questo termine, bisogna fare riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] pertanto il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Per dare un taglio più pratico a tale tematica, si elencano qui sotto alcuni casi decisi dalla giurisprudenza, ove è stato ritenuto come:[6]

  • congruo un termine di 18 mesi, con riferimento ad un contratto durato 25 anni circa;[7]
  • non congruo un termine di 6 mesi (sostituito poi con uno di 12 mesi), per un contratto di 10 anni di durata;[8]
  • congruo un preavviso di 3 mesi in relazione ad un contratto di 26 mesi.[9]

In altre situazioni la giurisprudenza ha applicato quale parametro di riferimento il periodo di preavviso previsto dalle disposizioni in ambito di agenzia.[10]

Qualora invece le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso, la giurisprudenza maggioritaria è concorde nel ritenere che si debba comunque fare riferimento a tale termine, anche se molto breve, ritenendo che il Giudicante non possa svolgere alcuna valutazione sulla congruità del preavviso concordato dalle parti.[11]

Con riferimento a tale specifica questione, ossia in ordine alla sindacabilità del termine di preavviso concordato dalle parti, è sicuramente importante tenere presente una rilevante pronuncia della Cassazione del 18 settembre 2009,[12] che ha sancito una serie di interessanti principi. Nel merito, la controversia è stata promossa da una associazione creata da diversi ex concessionari d’auto, nei confronti della casa madre Renault, la quale aveva risolto i rapporti contrattuali con detti concessionari concedendo come termine di preavviso il periodo di 1 anno, in conformità delle disposizioni contrattuali; i concessionari chiedevano la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto. Tale procedimento è stato respinto in primo e secondo grado, ma accolto in ultima istanza da parte della Corte, la quale ha ritenuto che non si possa escludere la possibilità del giudicante di valutare se il diritto di recesso ad nutum sia stato esercitato secondo buona fede, ovvero, contrariamente, possa essere configurabile un esercizio abusivo di tale diritto. La Cassazione è giunta a tale conclusione tramite l’utilizzo del criterio della buona fede oggettiva, che deve considerarsi quale “canone generale cui ancorare la condotta delle parti.[13]

Suddetto orientamento è stato contestato da parte dalla dottrina,[14] che ha ritenuto debba essere considerato con la massima prudenza”. A conferma di ciò il fatto stesso che:

“anche dopo tale sentenza non ci risultano essere stati casi di applicazione concreta di tale principio da parte della giurisprudenza; è auspicabile, che la nozione di abuso del diritto continui ad essere applicata solo in casi estremi e giustificati.”

Contrariamente, non ci sono dubbi sulla validità del recesso in tronco, e quindi senza la concessione di un preavviso, in caso di giusta causa.[15]

Quanto all’apposizione nel contratto di distribuzione di una clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la stessa possa essere validamente inserita nell’accordo (contrariamente a quelle che sono gli orientamenti in tema di contratto di agenzia).

Qualora il rapporto venga sciolto in tronco senza giusta causa, la parte che ha provveduto a terminare il rapporto è tenuta a risarcire il danno al soggetto che ha subito tale iniziativa. Al fine del calcolo del danno, bisognerà tenere conto dei guadagni che il concessionario avrebbe presumibilmente ottenuto nella parte residua del contratto (sulla base dello storico del fatturato) ovvero delle spese sostenuto dal concessionario per l’organizzazione e la promozione delle vendite in previsione della maggiore durata del rapporto.

La giurisprudenza è invece unanime nel ritenere che l’indennità di risoluzione del rapporto in favore del concessionario debba essere esclusa e non possono applicarsi a tale tipologia contrattuale le disposizioni in ambito di agenzia.[16]

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[1] Cass. Civ. 1968 n. 1541.; in dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 139, CEDAM. 

[2] È convinzione unanime in dottrina che alla fattispecie possa applicarsi analogicamente l’art. 1569 c.c., relativo appunto al contratto di somministrazione, secondo cui ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza che sia necessario invocare al riguardo una giusta causa (cfr. sul punto I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET)

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013;

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET

[6] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 564, Wolters Kluver.

[7] Trib. Treviso 20 novembre 2015 in Leggi d’Italia.

[8] Trib. Napoli 14 settembre 2009 in Leggi d’Italia.

[9] Trib. Bologna 21 settembre 2011 in Leggi d’Italia.

[10] Trib. Bergamo 5 agosto 2008 in Agenti e Rappresentanti di commercio 2010, n. 1, 34.

[11] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni).

[12] Cass. Civ. 2009, n. 20106.

[13] Cass. Civ. 18.9.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[14] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 565, Wolters Kluver

[15] Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013

[16] Trib. Trento 18.6.2012; Cass. Civ. 1974 n. 1888; Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 567, Wolters Kluver; Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 153, CEDAM


Il patto di non concorrenza post contrattuale del lavoratore dipendente, autonomo, amministratore, socio ed agente. Una breve panoramica.

Il patto di non concorrenza post-contrattuale è sicuramente un elemento molto delicato in un rapporto di lavoro e che, in base al soggetto destinatario di tale obbligazione, presenta differenti requisiti di forma e di sostanza. Con il presente articolo si intende fornire al lettore, una panoramica di tale istituto, andando ad analizzare brevemente come e con che limiti tale vincolo possa legare il lavoratore dipendente, il lavoratore autonomo, l'amministratore, il socio e l'agente di commercio.

  1. Lavoratore dipendente

Il patto di non concorrenza del lavoratore dipendente è disciplinato all’art. 2125 c.c. Tale articolo dispone espressamente che il patto deve a pena di nullità:

  1. a)  essere stipulato in forma scritta;
  2. b)  stabilire un vincolo contenuto entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo;
  3. c)  prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore.

Con riferimento al punto a) non ci sono questioni particolari da affrontare. Il patto dovrà̀ essere sottoscritto (e preferibilmente siglato su ogni pagina) da parte del lavoratore. Inoltre, seppure secondo la giurisprudenza tradizionale, il patto di non concorrenza non richiede la doppia sottoscrizione ex. art.13.41 c.c.[1], si consiglia comunque, prudenzialmente, di apporre una specifica approvazione per iscritto di tale impegno post contrattuale onde evitare eventuali contestazioni, anche in vista di un eventuale mutamento dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.

Quanto al punto b), i limiti temporali del patto postcontrattuale vengono definiti dal secondo comma dell’art. 2125 c.c. in 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri casi. Si tiene a sottolineare che i termini indicati dal 2125 c.c. costituiscono i limiti massimi di durata del patto e la corresponsione del compenso dovuto al lavoratore deve essere anch’esso calibrato sull’effettiva durata del patto concordata tra le parti.

La valutazione della congruità del luogo entro cui è vietata l’attività è in stretto collegamento con l’oggetto dell’attività che viene svolta dal dipendente e, a tal fine, l’indicazione di uno spazio troppo ampio può comportare la nullità del patto stesso. Sul punto, si riscontrano precedenti giurisprudenziali controversi, una parte della giurisprudenza ritiene infatti che il patto esteso all’intero territorio nazionale sia nullo, in quanto eccessivamente limitativo della possibilità di reimpiego del lavoratore.[2] Altre pronunce, invece, hanno considerato validi patti estesi a tutto il territorio comunitario,[3] in quanto l’attività era stata puntualmente specificata in modo da non limitare eccessivamente la capacità lavorativa e professionale del dipendente.

Circa invece la quantificazione del compenso, la giurisprudenza assume quale criterio valutativo la congruità dello stesso al sacrificio sopportato dal lavoratore nel singolo caso di specie[4], ritenendo che la somma corrisposta al lavoratore debba essere ad esso proporzionata.[5]

È chiaro che, essendo il concetto di congruità molto astratto, è assai difficile declinarlo con criteri oggettivi. Ad ogni modo, seppure non esista un criterio univoco ed obiettivo al fine di stabilire la congruità del patto, la giurisprudenza ritiene che un corrispettivo che si aggiri intorno al 15%-35% della retribuzione lorda annua possa essere considerato congruo.[6]

In secondo luogo, il quantum oltre ad essere congruo deve essere predeterminato e/o predeterminabile. La giurisprudenza ha ritenuto nullo, in quanto appunto indeterminabile, un patto che prevedeva a favore del lavoratore un tot euro per ogni mensilità fino alla cessazione del rapporto, in quanto tale patto non permetteva al lavoratore di determinare ex ante, già all’atto della sottoscrizione dell’accordo, un ammontare minimo.[7]

Al fine di trovare una soluzione alle problematiche qui sopra illustrate e per cercare di stipulare un patto di non concorrenza che effettivamente sia valido e con più ridotte possibilità di essere impugnato, si potrebbe ipotizzare di inserire quale indennità riconosciuta al lavoratore, una somma percentuale il cui valore incrementa con l’allungarsi del rapporto e che sia collegata alle somme lorde corrisposte al lavoratore nell’ultimo anno di rapporto ovvero, in caso più̀ favorevole, nei dodici mesi successivi alla sottoscrizione del patto.

  1. Lavoratore autonomo

Il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un lavoratore autonomo,[8] è regolamentato dall’art. 2596 c.c.

I limiti previsti da tale norma sono i seguenti:

  1. deve essere provato per iscritto
  2. esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività;
  3. non può eccedere la durata di cinque anni.

Come si evince, i punti a), b) e c), sono analoghi a quelli già sopra trattati, ai quali ci si rimanda integralmente.

La differenza essenziale e che l’art. 2596 c.c., contrariamente all’art. 2125 c.c., non contempla alcuna sanzione per la mancata previsione di un corrispettivo in favore di chi si sottopone convenzionalmente a limitazioni concorrenziali. Pertanto, a nulla rileva il fatto che il patto di non concorrenza non preveda alcun corrispettivo, risultando sotto questo aspetto, comunque valido, efficace ed inopponibile.

Ad ogni modo, molto spesso si riscontra in azienda la problematica collegata ad un non corretto inquadramento dei lavoratori autonomi, i quali, per le modalità in cui svolgono la loro attività all'interno di una azienda, potrebbero non essere stati adeguatamente inquadrati come dipendenti. Per tali figure, potrebbe delinearsi la problematica per cui, una volta cessato il rapporto, esse intendano promuovano ricorso d’avanti al Tribunale del lavoro, al fine di accertare la subordinazione del rapporto e, con essa, l'invalidità del patto di non concorrenza, in quanto privo di uno degli elementi essenziali previsti ex art. 2125 c.c. (appunto la retribuzione).

Ad ogni modo, si sottolinea come la previsione, a favore di detti soggetti, di prevedere un patto di non concorrenza retribuito, potrebbe essere da questi utilizzato quale ulteriore elemento per provare la natura subordinata del rapporto.

  1. Amministratore di società

Al pari dei lavoratori autonomi, il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un amministratore è anch’esso soggetto ai limiti di cui all’art. 2596 c.c. e, pertanto, non è previsto l’obbligo che lo stesso debba essere retribuito.

Con riferimento al divieto di concorrenza dell’amministratore in corso di rapporto, esso è unicamente regolato ex art. 2390 c.c., per gli amministratori di società per azioni, che così dispone:

"[1] Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea.

[2] Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni"

Contrariamente, per le s.r.l. non è previsto un esplicito divieto degli amministratori ad agire in concorrenza nel corso del loro mandato [9], con la conseguenza che è lo Statuto della società che può liberamente prevedere se l’amministratore possa o non possa svolgere tali attività.

  1. Soci di s.r.l.

I soci di s.r.l. non sono tenuti ad astenersi da attività concorrenziali con la società di cui sono titolari di quote. Invero, nel sistema italiano la concorrenza è inibita solo ex art. 2301 c.c. ai soci delle società in nome collettivo e agli accomandatari delle s.a.s.

Se si intende prevedere un obbligo di non concorrenza anche per i soci, si potrebbe:

  1. fare sottoscrivere ai soci un patto di non concorrenza;
  2. sottoscrivere un patto parasociale, con il quale, tutti i soci si impegnano a non svolgere attività in concorrenza con la società e i cui contenuti sono comunque quelli previsti dall’art. 2596 c.c.

Si tiene a precisare che il patto parasociale ha anch’esso validità massima di 5 anni e che, pertanto, dovrà essere rinnovato alla sua scadenza.

  1. Contratto di agenzia

Il contratto di agenzia regola espressamente la disciplina del patto di non concorrenza, all’art. 1751-bis del codice civile.

Tale tematica è stata già trattata in questo blog e si rimanda pertanto, alla consultazione del seguente articolo (L’obbligo di non concorrenza nel contratto di agenzia: durante e a seguito della cessazione del rapporto).

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[1] La giurisprudenza tradizionale ha escluso l'applicabilità al patto di non concorrenza delle disposizioni relative alle clausole vessatorie, sulla base del rilievo che l'art. 2125 delinea condizioni più garantistiche rispetto a quelle stabilite dall'art. 1341, e stante la tassatività delle ipotesi contemplate nel 2° co. di quest'ultima disposizione (Cfr. Trib. Torino 8.2.1979).

[2] Trib. Monza 3.9.2004.

[3] Cass. 21.6.1995 n. 6976; Trib. Milano 22.10.2003.

[4] Sul punto Cassazione 1998 n. 4891.

[5] Cass. Civ. 1998 n. 4891; Trib. Milano 27.1.2007.

[6] Ad es. è stato ritenuto congruo un corrispettivo quantificato nel 15% dell’importo totale delle retribuzioni corrisposte al lavoratore negli ultimi 2 anni del rapporto a fronte di un obbligo di non concorrenza di 2 anni di durata) Trib. Milano, 22.10.2003.

[7] Trib. Venezia 31.5.2014.

[8] IMPORTANTE. In tale categoria non rientra l’agente di commercio, per il quale è prevista una disciplina a parte, regolamentata all’art. 1751-bis, che non è oggetto di esamina per il presente parere.

[9] Infatti, prima della riforma operata con il d. lgs. n. 6 del 2003, l'art. 2475 del c.c. faceva esplicito riferimento all'art. 2390 del c.c. Ora il richiamo è stato eliminato.

 


Il periodo di prova nel contratto di agenzia: è valido? La Corte di Giustizia Europea si pronuncia.

 

 

Nella prassi è assai frequente che le parti sottopongano il contratto di agenzia ad un cosiddetto “patto di prova”; il fine perseguito da tale accordo è quello di tutelare un interesse comune ad entrambe le parti, ossia quello di accertare il rapporto di collaborazione, tramite una concreta sperimentazione.

Con la stipulazione di detto patto, viene conferita alle parti la facoltà, durante il periodo di prova, di recedere dal contratto senza osservare alcun termine di preavviso e senza la necessità di alcuna motivazione.

Il periodo di prova dovrebbe dunque essere inteso, come una sorta di fase preliminare del contratto nella quale, le parti, intendono sperimentare reciprocamente il rapporto di collaborazione, che assumerebbe un carattere di stabilità solo una volta trascorso positivamente detto periodo.[1]

Seppure tale istituto non sia espressamente disciplinato nel nostro ordinamento,[2] in linea di principio, il periodo di prova, deve ritenersi ammissibile nel contratto di agenzia, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia stato stipulato a tempo determinato, ovvero a tempo indeterminato.[3]

Posto che tale patto risponde all’esigenza delle parti di verificare la reciproca convenienza a dare stabilità al contratto, secondo parte della dottrina,[4] nel corso del periodo di prova, le parti possono recedere immediatamente, senza la necessità di dovere dare alcun periodo di preavviso. Tale posizione, è stata altresì confermata da un orientamento giurisprudenziale meno recente, che ha sostenuto, non solo la legittimità del periodo di prova, ma, altresì, il conferimento ad entrambe le parti la facoltà di recedere nel periodo di prova con effetto immediato, senza giusta causa.[5]

Quanto alla durata del patto, la stessa deve essere limitata “al tempo necessario e sufficiente per compiere la valutazione”.[6] Per declinare tale principio in termini pratici, bisogna considerare di volta in volta il singolo rapporto, tenendo conto, ovviamente, del settore in cui le parti operano, la tipologia di prodotti che vengono promossi e utilizzando come metro valutativo quello della buona fede; ad ogni modo, per dare un riferimento temporale indicativo, si può ritenere ragionevole un patto di prova che abbia una durata che varia tra i due e i sei mesi.[7]

Con riferimento al diritto dell’agente a ottenere un’indennità di fine rapporto in caso di scioglimento del rapporto, per fatto non imputabile all’agente, la giurisprudenza maggioritaria italiana, ha ritenuto negli ultimi decenni che:

qualora il preponente receda dal contratto di agenzia durante il periodo di prova non spetta all'agente l'indennità di scioglimento del contratto ex art. 1751 c.c.

Ad ogni modo, su tale questione, recentemente si è pronunciata la Corte di Giustizia Europea con sentenza del 19.4.2018, con la quale, i Giudici del Lussemburgo, si sono trovati a decidere una controversia, rimessa pregiudizialmente dalla Cour de Cassation francese, vertente su un interpretazione autentica della direttiva 86/653/CEE in tema di agenti di commercio; nello specifico è stato richiesto se la direttiva conferisca o meno alle parti la facoltà di escludere il diritto dell’agente all’indennità in caso di risoluzione del contratto, nel corso del periodo di prova contrattualmente pattuito.

La vertenza era sorta, originariamente, tra un agente e un preponente, entrambi operanti in Francia nel settore della vendita immobiliare, i quali avevano inserito all’interno di un contratto di agenzia, un periodo di prova di dodici mesi; durante detto periodo, l’agente si era altresì obbligato a concludere la vendita di venticinque abitazioni.

A seguito di circa cinque mesi di rapporto, posto che l’agente era riuscito a concludere unicamente un contratto di vendita, la preponente è receduta dal rapporto con effetto immediato, fiduciosa del fatto che, essendo il rapporto ancora nella fase “sperimentale”, non fosse dovuto all’agente alcun preavviso, né tantomeno alcuna indennità.

Di diversa opinione era, invece, l’agente, il quale ha contestato la risoluzione senza giusta causa, ritenendo che, seppure il rapporto fosse ancora nel periodo di prova, avesse comunque diritto a ricevere l’indennità di fine rapporto, nonché un risarcimento del danno, previsto dalla legislazione francese.

La questione, dopo essere stata difformemente decisa in primo grado ed in appello, è stata rimessa, dalla Cour de Cassation, alla Corte di Giustizia.

La Corte Europea, in via preliminare, nella propria motivazione, ha rilevato che seppure la direttiva non contiene alcun riferimento alla nozione di “periodo di prova”, tale omissione non possa essere interpretata come un divieto all’utilizzo di detto strumento da parte dei contraenti.

La sentenza, successivamente, si sofferma ad analizzare la funzione che la direttiva aveva conferito all’indennità di fine rapporto, rilevando che tale istituto, non perseguisse tanto un fine sanzionatorio, bensì, piuttosto, quello di indennizzare l’agente

per le prestazioni compiute, di cui il preponente continui a beneficare anche successivamente alla cessazione del rapporto contrattuali, ovvero per gli oneri e le spese sostenuti ai fini delle prestazioni medesime.

La Corte, prosegue, prendendo atto che lo stesso art. 18 della direttiva disciplina espressamente le ipotesi in cui l’indennità non sono dovute e che, in tale elenco, da interpretare in via restrittiva,[8] non è ricompreso il periodo di prova.

Sulla base degli elementi sopra sommariamente riportati, la Corte ha pertanto affermato che:

l’interpretazione secondo cui nessuna indennità è dovuta nel caso di risoluzione del contratto di agenzia commerciale durante il periodo di prova non è compatibile con la natura imperativa della disciplina istituita dall’art. 17 della direttiva 86/653. Infatti, un’interpretazione di tal genere, che si risolverebbe nel subordinare il riconoscimento dell’indennità alla pattuizione o meno di un periodo di prova nell’ambito del contratto d’agenzia commerciale, senza tener conto delle prestazioni rese dall’agente o degli oneri e spese dal medesimo sostenuti, contrariamente a quanto dettato dallo stesso articolo 17, costituisce […] un’interpretazione a detrimento dell’agente commerciale, al quale verrebbe negato qualsiasi indennizzo per il solo motivo che il contratto inter partes preveda un periodo di prova.”

Tale sentenza avrà sicuramente un impatto molto forte su quello che sarà l’utilizzo del patto di prova nel contratto di agenzia; invero, seppure la Corte non delegittima la possibilità delle parti di prevedere un patto di prova nel contratto di agenzia, di fatto, fa venire meno l’interesse ad un utilizzo di tale strumento, posto che le parti, non potranno più escludere il diritto dell’agente a percepire l’indennità di fine rapporto.

Decade, pertanto, quello che era il presupposto fondante e la finalità che ha sempre spinto i contraenti a stipulare un patto di prova, ossia quello di convenire un periodo iniziale del rapporto, in cui le parti possono reciprocamente testarsi, senza preoccuparsi delle conseguenze, in caso non intendano rendere il rapporto stabile.

________________________

[1] Sul punto – VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss.

[2] Fatto salvo dall’art. 2096 c.c. che regolamento il periodo di prova nel lavoro subordinato e che, per la sua specialità, non può essere applicato analogicamente al contratto di agenzia – Sul punto cfr. VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss. Viene fatto invece un riferimento al patto di prova in alcuni accordi economici collettivi e nello specifico: nel contratto tra Federagenti e CNAI del 22.4.2013, (dichiarazione a verbale art. 10), si prevede un periodo di prova di durata massima di 6 mesi; AEC commercio 2009, art. 2 e AEC industria 2014 art. 4, in cui viene previsto che, in caso di uno o più rinnovi del contratto di agenzia, il preponente può stabilire un periodo di prova solo nel primo contratto.

[3] Sul punto cfr. Trib. Grosseto 30.11.2004; Trib. Firenze 2.10.2003; Trib. Milano 18.12.1986; In dottrina PERINA – BELLIGOLI  – Il rapporto di agenzia, 2014.

[4] TRIONI – Contratto di agenzia, in Commentario del Codice Civile, Bologna, 2006.

[5] Cass. Civ. 1991 n. 544.

[6] Trib. Torino 7 luglio 2004.

[7] VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss.

[8] In tal senso, Corte di Giustizia, 28.10.2010, Volvo Car Germany, C-203/09.


Il preponente è responsabile per i danni cagionati dall'agente a terzi?

Nel rapporto di agenzia, può accadere che l’agente, nello svolgimento delle proprie mansioni, cagioni un danno a un  terzo; in tal caso si pone il problema se il preponente possa essere chiamato a rispondere per i danni causati al terzo e, quindi, essere ritenuto indirettamente responsabile ex art. 2049 c.c. per il danno cagionato al terzo. Tale norma dispone che:

i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.”

Da una lettura di tale articolo, si comprende che gli elementi costituitivi della responsabilità del "padrone e committente" sono:

  • la sussistenza di un fatto illecito che ha prodotto un danno ad un terzo;
  • il fatto che il danno è stato cagionato da un preposto (che non necessariamente si identifica in un rapporto di lavoratore subordinato);
  • che il danno sia stato causato (o comunque agevolato) nell’esercizio delle mansioni a cui il preposto era stato incaricato.[1]

Secondo la giurisprudenza la responsabilità ex art. 2049 c.c. ha "natura oggettiva"[2] e ciò implicata che i committenti non possono proporre alcuna prova liberatoria della loro responsabilità, con la conseguenza che gli stessi rispondono indirettamente del fatto altrui, indipendentemente dalla sussistenza o meno, di una colpa nella scelta o nella vigilanza del preposto.[3] In poche parole, i responsabili del danno sono due soggetti (il preposto e il preponente), distinti tra loro, seppure uno solo di essi è stato l’autore del fatto dannoso.

Il classico esempio di applicazione di tale norma è quello del lavoro subordinato: in tale caso il preponente è tenuto a rispondere per il fatto illecito compiuto dal proprio dipendente, in forza del l’incarico che è stato allo stesso conferito. Ad ogni modo, è importante sottolineare che, la giurisprudenza maggioritaria, da tempo afferma che ai fini dell'applicazione della responsabilità ex art. 2049 c.c., è sufficiente che il soggetto preposto agisca per conto del committente in virtù di un vincolo di subordinazione inteso in senso lato.[4]  Si legge infatti che:

affinché operi il regime di responsabilità sancito dall'art. 2049 c.c., è sufficiente che l'autore dell'illecito sia inserito, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell'organizzazione aziendale ed abbia agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell'imprenditore.

Posto che il rapporto di agenzia è un rapporto di natura appunto parasubordinato e, in quanto tale, potenzialmente inquadrabile come lavoro di subordinazione “in senso lato”, ci si domanda se la fattispecie la responsabilità ex art. 2049 c.c, sia applicale anche a detta tipologia contrattuale.

Secondo una autorevole dottrina[5] non possono trovare applicazione nel rapporto di agenzia le disposizioni di cui all’art. 2049 c.c., posto che tale istituto presuppone per la sua applicazione un vincolo di dipendenza e di subordinazione, seppur avente anche carattere meramente occasionale, o temporaneo; tale rapporto di dipendenza non si riscontra in una fattispecie contrattuale quale quella del contratto di agenzia, essendo l'agente configurabile piuttosto quale collaboratore autonomo del preponente.

Contrariamente, parte della giurisprudenza[6] ha affermato che il preponente è responsabile indirettamente del fatto illecito dell’agente, nel caso quest’ultimo operi in qualità di rappresentante. Sul punto:

l’attività dell’agente, che è un mandatario del preponente, costituisce fonte di responsabilità indiretta del mandante, ai sensi dell’art. 2049 c.c., solo quando l’agente si sia avvalso della sua qualità di rappresentante per consumare l’illecito.”

Tale orientamento espande i limiti della responsabilità del preponente, anche nel caso in cui l’agente (imp! operante sempre come rappresentante), agisca colposamente con modalità diverse da quelle impartitegli, ovvero addirittura oltre i limiti conferitigli.[7] Punto fondamentale è il fatto che il preposto, esercitando l'incombenza a cui è adibito, ancorché con modalità diverse dalle disposizioni del committente o anche oltre i limiti ad essa posti, abbia causato il danno ingiusto ad altri.[8]

Si legge un più recente orientamento della Cassazione, che non esclude l’applicabilità dell’art. 2049 c.c. anche in caso in cui l’agente abbia agito senza alcun potere di rappresentanza:[9]

Ai fini della responsabilità solidale ex art. 2049 c.c. del committente è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal preposto, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se egli ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti.”

La sentenza continua statuendo che:

Non è necessario che sussista uno stabile rapporto di lavoro subordinato tra i due soggetti, essendo sufficiente che l'autore del fatto illecito sia legato al committente anche solo temporaneamente od occasionalmente e che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso.

In particolare, quella del committente è una responsabilità̀ di natura oggettiva ispirata a regole di solidarietà̀ sociale, tesa ad attribuire - secondo la teoria della distribuzione dei costi e dei profitti - l'onere del rischio a colui che si giova dell'opera di terzi.  […] In quest'ottica la giurisprudenza civile, in tempi più recenti, è giunta a riconoscere la responsabilità̀ del committente per l'attività illecita posta in essere dall'agente anche privo del potere di rappresentanza, richiedendosi in tal senso soltanto che la commissione dell'illecito sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze demandate a quest'ultimo e che il committente abbia avuto la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza”

Se si segue tale ultimo orientamento giurisprudenziale, si può affermare che il contratto di agenzia non è, di per sé, estraneo all'ambito di applicazione dell'art. 2049 c.c., nemmeno nell'ipotesi in cui il suo contenuto sia quello del mandato senza rappresentanza.

Come si è già avuto modo di rilevare, la responsabilità ex art. 2049 c.c. rientra tra le responsabilità oggettive, con la conseguenza che non viene conferito al preponente la possibilità di fornire una prova liberatoria basata sull'assenza di colpa nella scelta o nella vigilanza del preposto da parte del preponente; ne consegue che il preponente può difendere la propria posizione, dimostrando unicamente che non sussistono i presupposti per l'applicazione della norma oggetto di esame, e pertanto provare:

  • che non sussiste il rapporto di preposizione con il soggetto che ha commesso l’illecito;
  • che non sussiste il nesso causale tra le incombenze affidate e la consumazione dell'illecito;
  • l'insussistenza del fatto illecito.

Contrariamente sarà onere del danneggiato dimostrare che:

  • si è verificato un illecito fonte di danno;
  • il rapporto di vigilanza tra preponente e agente;
  • l'evento che ha prodotto il danno sia in rapporto di causalità o, quantomeno, di occasionalità necessaria con l'esercizio delle mansioni per le quali era stato adibito.

Da ultimo, si evidenzia brevemente che in linea di massima l’agente può essere ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. per l’operato di un subagente, qualora dall'istruttoria del Giudice di merito si accerti l'effettivo inserimento del subagente nell'organizzazione dell'impresa dell’agente, con conseguente diritto di quest'ultimo di vigilanza e di controllo del subagente stesso.[10]

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[1] Cass. Civ. 2002 n. 26503; sul punto cfr. Gualtierotti, La responsabilità del preponente per fatto illecito dell’agente, in Agenti & rappresentanti di commercio – n. 4/2014.

[2] Cass. Civ. 2001 n.  8381; Cass. Civ. 2000 n.  3536.

[3] Sul punto cfr. Commentario Codice Civile, 2009,  art. 2049, pag. 84 ss.  COMPORTI, GIUFFRE EDITORE

[4] Sul punto cfr. Commentario breve al codice civile, CIAN TRABUCCHI, art. 2049, CEDAM, 2016.

[5] BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 306 ss., Giuffrè Editore.

[6] Cass. Civ. 1995 n. 12945

[7] Cass. Civ. 2014, n. 23448 “Il principio dell'apparenza del diritto, mediante il quale viene tutelato l'affidamento incolpevole del terzo che abbia contrattato con colui che appariva legittimato ad impegnare altri, trova operatività alla duplice condizione che sussista la buona fede di chi ne invoca l'applicazione e un comportamento almeno colposo di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza. (Cassa con rinvio, App. Bologna, 21/01/2011).” In senso Contrario BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 306 ss., Giuffrè Editore. “Giova peraltro rilevare che, poiché ai sensi dell’art. 13939 c.c. il terzo che contratta con l’agente può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri di rappresentanza, non potendo tali poteri presumersi, non può invocarsi da esso terzo una responsabilità del preponente qualora l’agente ecceda i limiti dei poteri conferitigli, ovvero agisca in funzione di poteri di rappresentanza che non ha.

[8] Sul punto cfr. Codice Civile commentato, Plurisdata, art. 2049 c.c., 2014 Wolters Kluwer Italia Srl.

[9] Cass. Pen. 2016, n. 7124.

[10] Cass. Civ. 2014 n. 23448; Cass. Civ. 2012 n. 7634.


Ex agenti: diritto di lavorare per la concorrenza, ma entro i limiti della "lealtà".

Mentre l’obbligo di non concorrenza durante il contratto rappresenta un normale onere imposto all’agente, il patto di non concorrenza postcontrattuale è ammesso solo in presenza di specifico accordo tra le parti e, comunque, entro i ristretti limiti previsti dall’art. 1751-bis c.c.

In assenza di tale patto, una volta sciolto il rapporto contrattuale, nulla vieta all’agente di avviare un’attività in concorrenza col precedente preponente, posto che la pura e semplice qualifica di ex agente non è sufficiente a rendere illecita un’attività che non abbia in sé stessa alcun autonomo connotato di slealtà.

La disciplina della concorrenza sleale viene normata all’art. 2598 c.c. che così dispone:

"Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

  1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
  2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;
  3. si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda."

La norma in esame delinea, ai nn. 1 e 2, le fattispecie tipiche di concorrenza sleale, facendo rientrare al punto 1 tutti gli atti “idonei a produrre confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”, mentre al punto 2 gli atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.

La fattispecie della “confusione” è integrata dalla condotta dell’imprenditore che indirizza al pubblico dei potenziali acquirenti un messaggio idoneo a generare il falso convincimento che i suoi prodotti e/o le sue attività siano riconducibili ad un imprenditore concorrente; si ha invece “imitazione servile” in caso di sviluppo di un prodotto tramite la violazione di un brevetto della società concorrente e/o con l’ausilio di informazioni tecniche di carattere confidenziale di proprietà della mandante.

Il punto 3 dell’art. 2598 c.c. prevede, invece, la clausola generale della correttezza professionale quale regola a cui gli imprenditori devono attenersi per evitare di danneggiare i concorrenti e compiere atti di concorrenza sleale.

Seppure in assenza di un valido patto di non concorrenza postcontrattuale è perfettamente lecito che l’ex agente svolga a seguito dello scioglimento del rapporto un’attività in concorrenza con l’ex preponente, parte della giurisprudenza[1] ritiene, sul presupposto della maggiore “pericolosità” della concorrenza dell’ex agente, che esiste in capo allo stesso una speciale accentuazione del dovere di lealtà e probità professionale, nonché uno speciale dovere di discrezione e di non aggressione verso l’impresa di provenienza.

Quindi evidente la difficoltà di bilanciare quelli che sono, di fatto, due interessi tra loro contrapposti: da un lato il diritto di svolgere attività in concorrenza al preponente in assenza di un patto di non concorrenza post-contrattuale, dall’altro lato, il dovere dell’agente di agire secondo lealtà professionale ed entro i limiti imposti dall’art. 2598 c.c.

In linea di principio, il dovere di correttezza professionale si declina, nel caso dell’ex-agente, principalmente nella gestione dei rapporti che lo stesso instaura con la clientela dell’ex preponente.

Sul punto la giurisprudenza[2] si è più volte pronunciata, affermando che:

“i vantaggi, in termini di avviamento e clientela, che derivano al committente dall'attività promozionale svolta dall'agente, restano acquisiti al committente medesimo, anche dopo l'estinzione del rapporto di agenzia, come bene appartenente alla sua azienda, tutelabile contro eventuali atti di concorrenza sleale, pure se provenienti dall'agente stesso dopo l'estinzione del rapporto; con la conseguenza che  lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex agente […] di una azienda, facendo uso delle conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto o, comunque, con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, costituisce concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c."

La Corte si è altresì pronunciata sul punto, chiarendo che:

costituisce concorrenza sleale per lo sviamento di clientela la sistematica utilizzazione da parte di ex collaboratori di informazioni riservate acquisite nel precedente rapporto, quali la lista della clientela, ed aver proposto ad essi condizioni contrattuali più favorevoli.

Sempre nella medesima sentenza la Suprema Corte afferma che:

“costituisce atto di concorrenza sleale, contrario alle regole di correttezza professionale (art. 2598, n. 3, c.c.), lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex dipendente di un'azienda che, facendo uso di conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto di lavoro subordinato (e relative alla clientela ed alle condizioni economiche dei rapporti contrattuali in corso), intraprenda analoga attività imprenditoriale acquisendo sistematicamente i clienti del concorrente (attraverso la predisposizione di lettere di disdetta dei contratti preesistenti, l'invio delle stesse a sua cura nei termini contrattualmente previsti, la conseguente stipulazione di nuovi contratti).[3]

In giurisprudenza si trovano altri precedenti, collegati soprattutto ad attività di concorrenza sleale compiute da parte di ex dipendenti per i quali è disponibile maggiore casistica sia in letteratura che in giurisprudenza. Si riportano comunque alcuni di tali precedenti stante l’applicabilità di principi generali ivi annunciati anche alla categoria di agente di commercio.[4]

  • Commette concorrenza sleale chi “propone a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili; b) ostenti in funzione reclamistica, presso clienti dell’ex datore di lavoro, la propria qualità di ex dipendente di questi; c) istituisca, nell’opera di propaganda della propria impresa svolta presso clienti dell’ex datore di lavoro, un’esplicita comparazione tra i prodotti e i prezzi di quest’ultimo e i propri.” (cfr. anche: Obblighi dell’agente. È sufficiente una semplice attività di propaganda?)
  • Compie atto di concorrenza sleale l’ex dipendente che, avvalendosi non solo delle liste dei clienti, ma anche della conoscenza delle condizioni dei singoli contratti del datore di lavoro, una volta cessato il rapporto di lavoro storni una parte della clientela proponendo tariffe inferiori e predisponendo ed inviando negli opportuni tempi lettere di disdetta dei contratti dell’ex datore di lavoro.[5]
  • “Costituisce atto di concorrenza sleale l’uso di una banca dati contenente nominativi di potenziali clienti, forniti ed elaborati informaticamente dall’ex amministratore unico della società prima utilizzatrice, da parte di un’impresa concorrente cui la banca dati sia stata fornita dallo stesso soggetto nell’ambito di un successivo rapporto di collaborazione.[6]
  • “Costituisce concorrenza sleale l’utilizzazione, da parte dell’ex dipendente, di nozioni concernenti le specifiche, peculiari esigenze dei singoli clienti dell’ex datore di lavoro, al fine di offrire a ciascuno di costoro prodotti esattamente messi a punto per soddisfare le loro esigenze, quando una simile messa appunto abbia richiesto all’ex datore di lavoro contatti ripetuti con i singoli clienti per individuarne i desideri e le attese e per giungere progressivamente alla soluzione ottimale. […] L’illiceità di questo comportamento è accentuata dal fatto che l’ex dipendente ostenti ai clienti l’identità dei prodotti offerti, prospettando una continuità di pregi produttivi intesi come rispondenza ai desiderata di ogni singolo cliente, rispetto alla produzione dell’ex datore di lavoro.[7]

Fermo restando quanto sopra esposto, bisogna altresì sottolineare il fatto che il divieto di concorrenza sleale non si può estendere a tal punto da impedire all’agente qualsiasi utilizzazione delle esperienze acquisite nelle precedenti esperienze di lavoro. Sull’inammissibilità di una siffatta conclusione una sentenza storica (e tutt’oggi attuale) della Cassazione ha sancito che:

Non si può inibire al lavoratore licenziato di sfruttare la propria capacità tecnica, anche se acquista nella esplicazione di mansioni alle quali esso era addetto e per cui era tenuto a mantenere il segreto, ed anche se tale capacità, la quale costituisce un patrimonio personale del lavoratore, ed è impiegata per procurare a quest'ultimo i mezzi di sussistenza, venga svolta in attività e in prodotti similari a quelli del datore di lavoro. Pertanto, non costituisce atto di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c., l'utilizzazione, da parte di un dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, di cognizioni tecniche anche se acquisite nella esplicazione delle mansioni cui era addetto.”

Tale principio vale sia che l’ex agente si sia messo a lavorare alle dipendenze di una altra impresa, sia che si sia messo a lavorare per conto proprio.[8]

Tuttavia, secondo la giurisprudenza prevalente, nel bagaglio di conoscenze e competenze dell’ex agente liberamente utilizzabili non possono essere comprese specifiche notizie su esigenze di singoli clienti contattati durante il periodo di lavoro pregresso, posto che le cognizioni acquisite non rientrano nel concetto di informazione ed esperienza aziendali;[9] vengono quindi contrapposte le conoscenze tecniche utilizzabili, alle non utilizzabili notizie apprese nel pregresso rapporto di lavoro.[10]

Per potere concludere, si può ragionevolmente ritenere che all’ex agente non è impedito sviluppare prodotti in concorrenza con l’ex preponente e proporli anche ai clienti di quest’ultimo; ad ogni modo il rapporto con detti clienti è molto delicato e deve essere gestito con massima cautela e lealtà professionale, non potendo l’agente effettuare mirate campagne di vendita nei confronti di tali soggetti e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

Concludendo si può affermare che:

  • l’agente può svolgere qualsiasi attività in concorrenza con il preponente a seguito del rapporto di lavoro;
  • i limiti della concorrenza sono dettati dagli atti di concorrenza sleale che si identificano, nel caso dell’agente, principalmente in:
    • imitazione servile e confusione dei prodotti dallo stesso sviluppati per la attività in concorrenza che pone in essere;
    • denigrazione dei prodotti venduti dall’ex preponente;
    • sviamento della clientela, tramite il lancio di mirate campagne di vendita nei confronti dei clienti della ex casa mandante e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

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[1] Cfr. UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, art. 2598, CEDAM.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[3] Trib. Torino 11.1.2008; Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[4] Trib. Di Milano 1974; Corte d’Appello Firenze 27.9.1987.

[5] Trib. Torino 28.12.1973.

[6] Trib. Torino 28.12.1973.

[7] Trib. Genova 19.6.1993.

[8] Corte d’Appello Milano 5.6.1987.

[9] Trib. Milano 25.9.1989.

[10] Trib. Firenze 26.11.2008.


Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi.

Quando si parla di agenzia si può pacificamente affermare che tale figura vada inserita nella categoria dei lavoratori autonomi.

Infatti, seppure nella definizione di agente di commercio formulata all’art. 1746 c.c. non vi è alcun riferimento all’indipendenza dell’attività lavorativa dell’agente, la normativa europea 86/653/CEE (su cui si basa il modello italiano) aveva fatto specifico riferimento all’agente quale lavoratore indipendente, tenuto comunque ad “attenersi alle ragionevoli istruzioni impartite dal preponente.

Già da una prima lettura della normativa si comprende che l'agente, seppure sia indipendente e svolge la propria attività in autonomia, deve comunque adeguarsi alle disposizioni del preponente, preposto a decidere quelle che sono le politiche commerciali della azienda. Tale rapporto di interdipendenza, assai delicato, viene regolato in maniera più chiara dagli AEC Commercio 2009 ed Industria 2014, che all'art. 1 comma 3 così dispongono:

[L’] Agente [è] tenuto ad orientare le politiche distributive del preponente in conformità alle indicazioni fornite dal preponente. Il preponente decide nelle grandi linee ciò che l’agente deve fare, pur senza poter interferire sulle modalità con cui l’agente intende giungere al risultato richiesto.”[1]

Dall’analisi congiunta delle norme sopra citate, si comprende che:

  • da un lato il preponente non può imporre all’agente obblighi incompatibili con la propria autonomia;
  • dall’altro lato l’agente, seppure opera in regime di piena autonomia, è comunque obbligato a seguire nelle grandi linee le direttive del preponente.

Qualora invece il rapporto presenti delle caratteristiche assimilabili a quelle del lavoro subordinato, lo stesso potrà essere qualificato come rapporto di lavoro dipendente, a prescindere dal nomen iuris con cui le parti hanno qualificato il rapporto stesso.[2] Secondo un costante orientamento della Cassazione, l'elemento distintivo tra le due figure è caratterizzato dalla:

subordinazione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro.[3]

Ne consegue, pertanto, che la collaborazione prestata dall’agente debba svolgersi in regime di autonomia, mentre, quella prestata dal lavoratore dipendente, si attua in regime di subordinazione gerarchica, con organizzazione da parte del datore di lavoro delle energie prestate dal dipendente[4] (cfr. anche L'agente persona fisica, il lavoro parasubordinato e il rito lavoro). Infatti, se da un lato l’agente deve esclusivamente coordinarsi con il preponente sulle attività da svolgere, il lavoratore dipendente, ex art. 2094 c.c., compie attività lavorativa coordinata organizzativamente nel tempo e nello spazio dal datore di lavoro, il quale può di volta in volta intervenire nell’esecuzione della prestazione specificandone le modalità esecutive, alle quali il lavoratore deve necessariamente adeguarsi (c.d. obbligo di obbedienza).[5]

Ad ogni modo non è sempre agevole delineare a quale categoria appartenga un lavoratore, stante che entrambe le figure, sia del dipendente che dell'agente di commercio, sono caratterizzate dalla stabilità della collaborazione[6] (proprio tale elemento, ossia la "stabilità", distingue l’agente dal procacciatore d’affari, sul punto cfr. articolo Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?).

Tale complessità si acuisce ulteriormente in alcuni settori in cui, per le modalità di svolgimento dell’attività, l’agente è di fatto tenuto a seguire in maniera rigida le direttive e gli orari imposti non tanto dal preponente, quanto piuttosto dal mercato in cui esso opera: si pensi, a titolo esemplificativo, alla figura dell’agente che promuove le vendite presso un concessionario di autovetture, il quale, di fatto, è vincolato a promuovere le vendite in un determinato spazio espositivo e durante gli orari di apertura del negozio.[7]

Non essendoci un unico e “risolutivo” elemento che permette di comprendere se un determinato rapporto debba essere qualificato come d’agenzia ovvero di lavoro dipendente, dovranno essere considerati nel singolo caso di specie i differenti elementi tipici della subordinazione (quali ad es. mancanza di autonomia decisionale, assenza di rischio, inserimento nell’organizzazione dell’impresa, obbligo di rispettare orari prefissati e itinerari fissati dal preponente), tenendo presente che nessuno di essi permette da solo di far considerare il rapporto come subordinato, dovendosi piuttosto effettuare una valutazione complessiva dell’insieme degli stessi.[8] Sul punto la Suprema Corte si è pronunciata affermando che:

il rapporto di agenzia, la cui natura autonoma non può essere messa in discussione, non è incompatibile con la soggezione dell'attività lavorativa dell'agente a direttive e istruzioni nonché a controlli amministrativi e tecnici, più o meno intensi e penetranti in relazione alla natura dell'attività e allo interesse del preponente, né con l'obbligo dello agente di visitare e istruire altri collaboratori, né con l'obbligo del preponente di rimborsare talune spese sostenute dall'agente, né, infine, con l'obbligo di quest'ultimo di riferire quotidianamente al preponente.[9]

Per dare un taglio pratico al presente articolo, si può comunque ragionevolmente ritenere che, a titolo esemplificativo, il preponente non potrà:[10]

  • imporre la lista giornaliera dei clienti da visitare (ma potrà chiedere di visitare determinati clienti o categorie di clienti a cui tiene);
  • programmare gli itinerari che l’agente deve seguire (ma potrà pretendere dall’agente che organizzi le visite in modo tale da coprire la propria zona di competenza in maniera adeguata);
  • decidere l’organizzazione interna dell’agenzia (ma pretendere determinati standard qualitativi del personale, adeguatezza dei locali e del numero dei collaboratori in base all’attività promozionale dell’agente stesso);
  • imporre rendiconti dettagliati sull’attività svolte dall’agente (ma chiedere report sull’andamento del mercato).[11]

Un’ultima questione, di grande rilevanza pratica, è quella relativa alla compatibilità della retribuzione in forma fissa, con l'autonomia tipica del rapporto contrattuale in esame.

Seppure la direttiva europea non esclude la conciliabilità di tale modalità retributiva con la figura dell’agente, la giurisprudenza italiana (criticata da parte della dottrina[12]) si è dichiarata contraria a tale tesi[13], ritenendo che in tal caso l'agente, il quale percepirebbe esclusivamente una retribuzione fissa, indipendentemente da quelli che sono i risultati dallo stesso portati, non assumerebbe alcun rischio di impresa, caratteristica che contraddistingue tale figura.

Ad ogni modo, la giurisprudenza ritiene comunque compatibile con l’agenzia le forme di remunerazione mista, con le quali viene abbinata una componente fissa ad una componente variabile. Tale soluzione con cui all’agente viene assicurato un “minimo garantito” viene considerato lecito e compatibile con il rapporto di lavoro d’agenzia.[14]

_______________________

[1] BORTOLOTTI, Il contratto di agenzia commerciale, Vol. I, pag. 86, 2007, CEDAM.

[2] Cass. Civ. 2004, n. 9060.

[3] Cass. Civ. 1990 n. 2680.

[4] BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 33, Giuffrè Editore.

[5] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore

[6] Trib. Milano 8 marzo 20210, in Agenti e rappresentanti di commercio 2012, n. 3 p. 31. Il Tribunale di Milano precisa sul punto che “l’obbligazione dell’agente consiste nel visitare, in modo stabile e continuativo, tutti i possibili clienti e a formulare una predeterminata proposta contrattuale (predeterminata dal preponente, quanto ai suoi aspetti essenziali), al preponente medesimo.

[7] Sul punto cfr. anche Cass. Civ. 2009 n. 9696. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso la sussistenza di un rapporto di subordinazione atteso che, da un lato, svolgendo l'interessato attività di propagandista o promotore per la vendita di apparecchiature didattiche per la scuola e le università, i suoi orari dovevano necessariamente coincidere con quelli di apertura di tali istituzioni e non costituivano un indice decisivo, mentre, dall'altro, il medesimo si era più volte qualificato, nel corso del rapporto, come agente e non dipendente, il suo contratto era stato concluso per sostituire un altro precedente agente e non aveva alcun obbligo di giustificare le proprie assenze.

[8] BORTOLOTTI, Contratti di distribuzione, pag. 129, 2016, Wolters Kluwer.

[9] Cass. Civ., 1990 n. 2680, Cass. Civ. 2001, n.  11264. Con tale sentenza la Cassazione ha quindi ritenuto che “tra le parti era intercorso, un rapporto di agenzia, a prescindere dal tempo in cui esso s'era protratto, in quanto l’agente, pur dovendo dar conto con un rapporto giornaliero del lavoro svolto e pur dovendo seguire un itinerario preordinato dalla ditta preponente, non veniva a perdere l'autonomia propria dell'agente con possibilità di scelta della clientela nell'ambito della zona assegnatagli e con possibilità di adottare i metodi di lavoro ritenuti più idonei.

[10] BORTOLOTTI, Il contratto di agenzia commercia, Vol. I, pag. 88, 2007, CEDAM.

[11] Sul punto importante rimarcare il fatto che gli AEC Commercio ed Industria che prevendono all’art. 1 comma 3 che l’agente è “tenuto ad informare costantemente la casa madre sulla situazione del mercato in cui opera, non è tenuto peraltro a relazioni con periodicità prefissata sulla esecuzione della sua attività”. Importante sottolineare quindi che il preponente non potrà pretendere dall’agente relazioni periodiche sullo svolgimento dell’attività dell’agente (ad es. report sulle visite effettuate), ma potrà contrariamente chiedergli di essere informato, anche in maniera periodica, sulle condizioni del mercato e dei dati rilevanti (nomi dei clienti vistati e risultati delle viste).

[12] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore; Saracini-Toffoletto, p. 327 ss.

[13] Cass. Civ. 1986 n. 3507; Cass. Civ. 1991 n. 10588; Cass. Civ. 2012 n. 12776. Tale ultima sentenza si è spinta ad ammettere che “nel rapporto di agenzia le parti possono prevedere forma di compenso delle prestazioni dell’agente diverse dalla provvigione determinata in misura percentuale sull’importo degli affari conclusi (come ad esempio una somma fissa per ogni contratto concluso”, ma senza spingersi a riconoscere che la remunerazione in forma provigionale possa essere del tutto sostituita da una retribuzione fissa.

[14] Cfr. sul punto Cass. Civ. 1975 n. 1346; Cass. Civ. 1980 n 34; Trib. Di Milano 9 settembre 2011.


Come si calcola l'indennità di fine rapporto degli agenti assicurativi? I parametri previsti dall'ANA 2003.

Il calcolo dell'indennità di fine rapporto prevista dall'Accordo Nazionale Agenti 2003, è piuttosto articolata e complessa e viene regolata agli artt. 12 e seguenti.

In primo luogo è importante sottolineare che l'art. 18 ANA dispone che in caso di scioglimento del contratto di agenzia per recesso dell'impresa o dell'agente per giusta causa:

  • non è dovuto alcun preavviso;
  • se recedente è l'impresa, all'agente spettano le indennità di risoluzione di cui agli artt. da 27 a 33 (di seguito esaminate); se recedente è l'agente, allo stesso spettano le indennità di risoluzione previste per il caso di recesso dell'impresa.

Ciò premesso, in base all’art. 12, I comma ANA, il contratto di agenzia può sciogliersi per:

  1. Cancellazione dell’agente dall’Albo nazionale degli agenti di cui alla legge 7 febbraio 1979, n. 48;
  2. Morte;
  3. Invalidità totale;
  4. Limiti di età;
  5. Recesso per giusta causa.

Il II comma del medesimo articolo, dispone altresì che il contratto di agenzia può sciogliersi per recesso da parte dell’impresa ovvero da parte dell’agente. Il recesso da parte dell’impresa, viene a sua volta distinto in tre tipologie:

  1. Recesso con indicazione dei motivi ed eventuale ricorso al Collegio arbitrale, nel qual caso si applica la disciplina di cui all’art. 12-bis;
  2. recesso dell’impresa senza indicazione dei motivi, nel qual caso si applica la disciplina di cui all’art. 12-ter;
  3. recesso dell’impresa con applicazione dell’art. 12-quater per gli agenti che ne abbiano diritto.

Qualora il recesso venga effettuato da parte dell’agente si applicherà la disciplina dell’art. 12-bis

Il III comma, prevede che le indennità di risoluzione del contratto spettanti all'agente sono  sono indicate agli articoli da 14 a 19.

Ad ogni modo, il IV comma dell’art. 12 prevede che, nei casi di scioglimento del contratto per morte o invalidità totale dell’agente, spetti all’agente un’ulteriore somma all’agente cessato o ai suoi eredi, che va ad aggiungersi alle indennità di cui agli articoli da 14 a 19, come dal seguente prospetto:

Scaglioni di provvigioni

(Euro)

Anzianità

 

Fino a 5 anni compiuti Oltre 5 anni compiuti
fino a 20.500,00

da 20.501,00 a 26.400,00

da 26.401,00 a 38.000,00

da 38.001,00 in poi

20%

15%

15%

15%

30%

25%

20%

15%

Detta ulteriore somma non potrà essere inferiore a euro 8.800,00 né superiore a euro 29.300,00.

L’art. 12 A prevede  poi una dettagliata disciplina con un preciso schema di riferimento per il calcolo della somma aggiuntiva eventualmente spettante all’agente in applicazione dell'ANA 2003, ossia:

Schema di riferimento e disciplina ex art. 12A
sui primi € 103.291,00 di provvigioni 65%
sui successivi € 103.291,00 di provvigioni 40%
sui successivi € 154.937,00 di provvigioni 15%
sui successivi € 154.937,00 di provvigioni 10%
su quanto supera € 516.457,00 5%
Detta ulteriore somma non potrà essere inferiore a euro 8.800,00 né superiore a euro 29.300,00.

L'art. 12-bis prevede che entro 20 giorni dal ricevimento della comunicazione del recesso, l’altra parte ha facoltà di ricorrere ad una procedura di arbitrato irrituale; le modalità di accesso a tale procedura, vengono espressamente disciplinate nell’art. 12-bis stesso.L’art. 12-bis disciplina il recesso da parte dell’impresa con indicazione dei motivi.

L’art. 13-ter disciplina, invece, l’ipotesi di recesso dell’impresa senza indicazione dei motivi. In tale caso il preavviso dovuto all’agente, ai sensi dell’art. 13, decorrerà solo dopo il trentesimo giorno successivo alla comunicazione del recesso da parte dell’impresa. Entro tale termine, l’agente potrà scegliere tra il pagamento degli indennizzi e la liberazione del portafoglio gestito dall’agenzia, inviando all’impresa apposita comunicazione. Nel caso le parti concordino di optare per la liberalizzazione del portafoglio, essa dovrà avvenire tramite la sottoscrizione del testo allegato di cui all’allegato A dell’accordo ANA 2003.

Importante sottolineare che, secondo la giurisprudenza, la liberalizzazione del portafoglio è ritenuta una legittima alternativa al pagamento delle indennità di fine rapporto.[1]

In caso di mancata opzione da parte dell’agente e comunque in caso di mancata sottoscrizione da parte dello stesso dell’atto di liberalizzazione, di cui al punto precedente, l’impresa è tenuta a corrispondere all’agente gli indennizzi di cui agli art. II e III dell'arto12-ter ed il contratto si risolve con diritto dell’agente:

  • al trattamento di cui all’art. 13 dell’ANA (che disciplina il termine di preavviso);
  • le indennità di risoluzione di cui agli art. 25 e 33;
  • nonché ad una somma aggiuntiva pari al 50% di quella calcolata per l’agenzia sulla base dello schema di riferimento e disciplina di cui all’art. 12A.

L’art. 13 comma III, fissa quali termini di preavviso:

1 mese per il primo anno di gestione;
2 mesi per il secondo anno di gestione
3 mesi per il terzo anno di gestione
4 mesi per il quarto anno di gestione
5 mesi per il quinto anno di gestione
6 mesi per il sesto anno di gestione

Il IV comma dell'art. 13 prevede che l'impresa può sostituire in tutto o in parte il preavviso dovuto con un'indennità determinata come segue:

  1. se l'agente ha iniziato il primo anno di gestione ma non lo ha completato: in sostituzione del mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni;
  2. se l'agente ha completato il primo anno di gestione ma non ha iniziato il secondo anno di gestione: in sostituzione del mese di preavviso, 1/10 delle provvigioni;
  3. se l'agente ha iniziato il secondo anno di gestione ma non lo ha completato:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/15 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/20 delle provvigioni.
  4. se l'agente ha completato il secondo anno di gestione ma non ha iniziato il terzo anno di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/10 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni.
  5. se l'agente ha iniziato il terzo anno di gestione ma non ha superato i quattro anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/18 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/24 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni.
  6. se l'agente ha iniziato il quinto anno di gestione ma non ha completato i quindici anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/15 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/20 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/25 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/30 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 5° mese di preavviso, 1/35 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 6° mese di preavviso, 1/40 delle provvigioni.
  7. se l'agente ha completato o superato i quindici anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/18 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/24 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/30 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 5° mese di preavviso, 1/36 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 6° mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni.

Per il computo dell'indennità sostitutiva, si tiene conto delle provvigioni liquidate all'agente nell'intero esercizio precedente quello dello scioglimento del contratto o, in mancanza, negli ultimi 12 mesi di gestione.

In merito all’indennità di fine rapporto per i rami Furti, Incendio, Infortuni, Malattie, Responsabilità civile, Responsabilità civile veicoli e natanti, Automobili rischi diversi, Vetri e cristalli, Rischi diversi sono previste tre indennità, calcolate secondo le norme contenute nei successivi artt. 25, 26 e 27.

L’art. 25 (indennità sull’incremento del monte premi) si applica agli agenti che abbiano svolto un’attività per almeno due anni ed è costituita da una percentuale, così fissata dal V comma e relativa:

Scaglioni Percentuali
fino a euro 35.100,00 6,30 6,30
da euro 35.101,00 a euro 70.200,00 4,80 4,80
da euro 70.201,00 a euro 105.200,00 3,38 3,38
da euro 105.201,00 a euro 140.300,00 2,63 2,63
oltre euro 140.300,00 1,65 1,65

Per gli agenti che abbiano svolto abbiano compiuto almeno un anno di gestione, l’indennità è dovuta nella misura del 75%.

L’art. 26 riconosce una secondo indennità, relativa agli incassi. Anch’essa è costituita da una percentuale sugli per agenti con almeno due anni di gestione e relativa riduzione, al 75%, dopo il prima anno di gestione). Il II comma prevede le seguenti percentuali:

Scaglioni Percentuali
fino a euro 87.700,00 1,25
da euro 87.701,00 a euro 251.400,00 0,90
da euro 251.400,00 0,45

L’art. 27 disciplina la terza indennità (estesa anche ai rami Credito e Cauzione), che è costituita da una percentuale fissata dal IV comma, sulla media annua delle provvigioni liquidate all’agente negli ultimi tre anni di esercizio e descritta nella seguente tabella:

Anzianità Percentuali
Fino a 2 anni 2,5
Oltre 3 anni 3,5
Oltre 4 anni 5
Oltre 5 anni 7
Oltre 6 anni 8,5
Oltre 7 anni 11,5
Oltre 8 anni 13,5
Oltre 9 anni 16
Oltre 10 anni 20,5
Oltre 11 anni 26
Oltre 12 anni 29,5
Oltre 13 anni 35
Oltre 14 anni 40,5
Oltre 15 anni 50,5
Oltre 16 anni 56
Oltre 17 anni 57
Oltre 18 anni 58,5
Oltre 19 anni 59,5
Oltre 20 anni 60,5
Per ogni anno successivo di gestione compiuto la percentuale viene aumentata di 0,50
Se il periodo di gestione è inferiore a 12 mesi, l’indennità viene calcolata applicando la percentuale 2,5 all’ammontare delle provvigioni effettivamente liquidate nel corso della gestione, fermo quanto previsto dal precedente III comma
Se nei periodi di cui ai commi precedenti siano state effettuate riduzioni di portafoglio per le quali sia stata corrisposta l'indennità prevista dal III comma dell'art. 8 bis, l'ammontare delle provvigioni, da considerarsi per stabilire la media, sarà ridotto dell'entità delle provvigioni per le quali sia stata corrisposta la predetta indennità.

Le seguenti specifiche disposizioni disciplinano l’indennità per il ramo Vita (art. 28), Capitalizzazione (art. 29), Bestiame (art. 30), Grandine (art. 31), Trasporti (art. 32) e i rami non previsti dagli art. 24 e 32 (art. 33). Per i quali ci si richiama integralmente all’ANA 2003 qui allegato.

Da ultimo l’art. 35 regola l’indennità di risoluzione del rapporto nel caso di coagenzia, prevedendo che, nonostante il carattere congiunto dell'incarico coagenziale, lo scioglimento del contratto di agenzia nei confronti di uno o di alcuni dei coagenti non è di per sé causa di scioglimento nei confronti dell'altro o degli altri coagenti, i quali conservano a tutti gli effetti l'anzianità di gestione maturata.

_____________________

[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. 2006 n. 1286 che ha disposto che, salvo differente accordo tra le parti, “alla cessazione del rapporto di agenzia assicurativa, l'agente uscente non ha diritto di disporre del portafoglio clienti dell'agenzia, di cui è titolare l'impresa preponente, avendo egli solo diritto al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva in relazione allo scioglimento del contratto, in parte commisurato all'incremento da lui apportato al portafoglio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, di condanna dell'impresa preponente a corrispondere all'agente la indennità sostitutiva del preavviso e le altre spettanze di fine rapporto, e di rigetto della richiesta dell'agente di acquisizione del portafoglio, ritenendo nel contempo che legittimamente la stessa impresa recedente non aveva corrisposto all'agente la indennità sostitutiva del preavviso, benché dovuta, a fronte dell'inadempimento da parte dell'agente della riconsegna di tutto il materiale inerente al suo incarico, relativo al portafoglio clienti di cui era titolare l'impresa, obbligo puoi adempiuto dall'agente a seguito di ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. nei suoi confronti).

 

 


Come si calcola l’indennità di scioglimento del contratto secondo gli AEC Commercio 2009?

L’art. 13 degli AEC commercio 2009, suddivide l'indennità di fine rapporto in tre componenti (sul punto cfr. anche calcolo indennità ex art. 1751 c.c.calcolo indennità ex AEC 2014calcolo indennità ex ANA 2003):

  • indennità di risoluzione del rapporto, accantonata dal preponente presso il fondo ENASARCO (FIRR) (capo I);
  • indennità suppletiva di clientela riconosciuta all’agente o rappresentante anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo II);
  • indennità meritocratica, collegata all’incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo III).

(cfr. anche La contrattazione collettiva. Origini, valore ed applicabilità. E se un contraente è straniero, si applicano oppure no?)

I. FIRR

Il FIRR viene accantonato presso l’ENASARCO da parte del preponente e, allo scioglimento del rapporto, è dovuto all’agente indipendentemente da un eventuale incremento della clientela e/o degli affari.

L’obbligo di accantonamento del FIRR sussiste solamente nel caso di applicazione degli AEC al rapporto. Gli AEC sono applicabili al contratto, solamente qualora entrambe le parti (preponente e agente) siano iscritte alle associazioni sindacali stipulanti, oppure, in caso contrario, le parti abbiano richiamato espressamente gli AEC nel contratto, ovvero abbiano provveduto ad una loro applicazione implicita nel corso del rapporto (ad esempio, quando il preponente abbia provveduto ad un’applicazione spontanea, costante ed uniforme di alcune provvisioni previste dagli AEC).[1]  Ciò comporta che in caso di mancata applicazione degli AEC, il preponente non è tenuto ad accantonare il FIRR, bensì solamente versare all’Enasarco i contributi previdenziali.[2] (sul punto cfr. l’obbligo previdenziale dell’agente italiano e del preponente straniero).

Importante rilevare che giurisprudenza[3] e dottrina,[4] ritengono univocamente che la richiesta di pagamento del FIRR, vada avanzata nei confronti dell’Enasarco e non del preponente, fatto salvo per le somme non eventualmente accantonate da quest’ultimo.

Tale indennità si calcola annualmente con le seguenti modalità:

AGENTE MONOMANTATARIO

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a € 12.400 annui
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 12.400 annui e € 18.600 annui
  • 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 18.600 annui

AGENTE PLURIMANDATARIO

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a € 6.200 annui
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 6.200 annui e € 9.300 annui
  • 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 9.300 annui
II. INDENNITÀ SUPPLETTIVA

Essa verrà riconosciuta secondo le seguenti aliquote:

3% sulle provvigioni maturate nei primi tre anni di durata del rapporto di agenzia
3,50% sulle provvigioni maturate dal quarto al sesto anno compiuto
4,00% sulle provvigioni maturare negli anni successivi

Tale indennità sarà dovuta in tutti il rapporto sia in atto da almeno un atto e nel caso le dimissioni dell'agente siano dovute a:

  • invalidità permanente e totale;
  • per infermità e/o malattia per le quali non può essergli ragionevolmente richiesta la prosecuzione del rapporto;
  • conseguimento di pensione di vecchiaia Enasarco e/o Inps;
  • per circostanze attribuibili al preponente (art. 1751 c.c.);
  • in caso di decesso. In tal caso le indennità verranno corrisposte agli eredi legittimi o testamentari.

Ad ogni modo oltre alle fattispecie sopra indicate, posto che secondo la giurisprudenza maggioritaria, gli AEC rappresentano per l'agente un trattamento minimo garantito,[5] tale indennità viene riconosciuta all’agente allo scioglimento del rapporto, indipendentemente dalla prova da parte dell’agente di avere sviluppato gli affari e/o la clientela del preponente, così come invece è previsto dall'indennità civilistica di cui all’art. 1751 c.c. (sul punto cfr. l’indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia).

III. INDENNITÀ MERITOCRATICA

L’AEC Commercio 2009 prevede un calcolo piuttosto strutturato per quantificare l'indennità meritocratica, che sarà riconosciuta all’agente solamente nel caso in cui risulti superiore alla somma delle due indennità sopra analizzate (FIRR + suppletiva).

Il calcolo dell’indennità meritocratica è la seguente:

  • Determinazione dell’incremento di clientela, costituita dalla differenza delle provvigioni percepite dall’agente all’inizio ed alla fine del rapporto, tenendo presente che il periodo di prognosi varierà in base alla durata del rapporto, seguendo la seguente tabella:
DURATA DEL RAPPORTO PERCENTUALE DI INCREMENTO DEL FATTURATO PERCENTUALE DI INDENNITA’ RISPETTO AL VALORE MASSIMO DETERMINATO IN APPLICAZIONE DELL’ART. 1751 CODICE CIVILE (DA CUI SOTTRARRE INDENNITA’ F.I.R.R. E INDENNITA’ SUPPLETIVA DI CLIENTELA
Fino a 12 mesi (1° anno) Da 0 a 5%
Da 5 a 30% 25%
Da 30 a 60& 30%
Da 60 a 150% 40%
Oltre il 150% 100%
Da 12 a 24 mesi (2°anno) Fino a 30% 30%
Da 30 a 60% 35%
Da 60 a 150% 40%
Oltre il 150% 100%
Da 24 a 36 mesi (3°anno) Fino a 30% 35%
Da 30 a 60% 40%
Da 60 a 150% 45%
Oltre il 150% 100%
Da 36 a 48 mesi (4° anno) Fino a 30% 40%
Da 30 a 60% 45%
Da 60 a 150% 50%
Oltre il 150% 100%
Da 48 a 60 mesi (5° anno) Fino a 30% 45%
Da 30 a 60% 50%
Da 60 a 150% 55%
Oltre il 150% 100%
Da 60 mesi in avanti Fino a 30% 50%
Da 30 a 60% 55%
Da 60 a 150% 60%
Oltre il 150% 100%
  • Per individuare il valore reale dell'incremento del fatturato procurato dall'agente, sarà preso in considerazione il volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuato dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente.
  • Per la determinazione percentuale dell'incremento si porranno a confronto i valori del volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuate dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente, all'inizio del rapporto (valore iniziale), con i valori del volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuate dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente, al termine del rapporto (valore finale), secondo le seguenti modalità:
Durata del rapporto Valore iniziale Valore finale
Per il primo anno di durata del rapporto Media del fatturato dei primi 3 mesi Media del fatturato degli ultimi 3 mesi
Per il secondo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 2 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 2 trimestri
Per il terzo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 3 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 3 trimestri
Dall’inizio del quarto anno al compimento del sesto anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 8 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 8 trimestri
Dall’inizio del settimo anno al compimento del nono anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 12 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 12 trimestri
Dall’inizio del decimo al compimento del dodicesimo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 16 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 16 trimestri
Oltre il dodicesimo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 20 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 20 trimestri
  • Da ultimo si rende omogenea la cifra iniziale con quella finale, applicando alla stessa il coefficiente di rivalutazione Istat per i crediti di lavoro.

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[1] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 87 e ss.

[2] Trib. Roma 14.1.2010.

[3] Trib. Bari 2.5.2012.

[4] Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 365 e ss.

[5] Cfr. sul punto Cass. Civ. 2014 n. 7567. Si rileva comunque che la Corte di Giustizia europea, con una pronuncia del 23 marzo 2006, ha contestato la legittimità dell’indennità suppletiva di clientela così come prevista dal l’AEC, che consente all’agente di percepire comunque una indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui l’agente non abbia effettivamente sviluppato la clientela del preponente e quest’ultimo ne tragga vantaggi anche a seguito della cessazione del rapporto; in linea con tale orientamento si riscontra un indirizzo minoritario della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto gli AEC inapplicabili al nostro ordinamento e non ha pertanto riconosciuto all’agente la disciplina ivi riportata come un minimo garantito (Tribunale Treviso 29 maggio 2008. Tribunale Treviso 8 giugno 2008; Tribunale di Roma 11 luglio 2008).


La contrattazione collettiva. Origini, valore ed applicabilità. E se un contraente è straniero, si applicano oppure no?

Una peculiarità che caratterizza la disciplina italiana del contratto di agenzia è costituita dalla centralità e importanza che assume la contrattazione collettiva, che rende l’agente di commercio, soprattutto se agisce quale persona fisica, una figura che di fatto si avvicina per diversi aspetti al lavoratore subordinato (cfr. Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi).

In Italia la contrattazione collettiva degli agenti di commercio ha una lunga tradizione, che risale addirittura al diritto corporativo degli anni ’30, quindi prima ancora della entrata in vigore del codice civile del 1942, che, con riferimento alla disciplina del contratto di agenzia, si è ispirata ai contenuti della contrattazione collettiva stessa. Per l’esattezza la prima regolamentazione dell’agente di commercio è avvenuta con la stipula degli Accordi Economici Collettivi (AEC) corporativi del 26 maggio 1935.

Successivamente, nel secondo dopoguerra, con l’abolizione delle corporazioni si arrivò all’elaborazione di un nuovo contratto collettivo sulla base di quanto previsto dalla Costituzione. Invero, l’art. 39, quarto comma della Costituzione, prevede che:

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

La Costituzione intendeva dare ai sindacati personalità giuridica e facoltà di stipulare contratti collettivi con efficacia per tutta la categoria, potere che, ad oggi, è però rimasto inapplicato. Ad ogni modo, stante la mancata attuazione dell’art, 39 commi 2 e seguenti della Costituzione, nel 1959 fu approvata una legge transitoria,[1] che di fatto ha conferito allo Stato la temporanea facoltà di recepire attraverso decreto legislativo alcuni contratti collettivi stipulati prima dell’entrata in vigore della legge e conferendo agli stessi efficacia erga omnes. Il fine perseguito dal legislatore, era quello appunto di garantire sul territorio nazionale condizioni minime di lavoro inderogabili dalla volontà delle parti.

Ad oggi, a parte i contratti collettivi con efficacia erga omnes dei quali si è qui sopra brevemente accennato, i contratti collettivi vengono stipulati dai sindacati e dalle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro, che continuano ad assumere la veste giuridica di associazioni non riconosciute di diritto privato. Per tale motivo, il contratto collettivo, nonostante la sua indubitabile centralità come “fonte” di regolazione dei rapporti individuali di lavoro, ha assunto natura giuridica di atto di autonomia privata di “diritto comune”, non diversamente cioè da un qualunque altro contratto civilistico e come tale sottoposto alle norme sul diritto dei contratti in generale di cui agli artt. 1321 e seguenti c.c. [2] Bisogna comunque rilevare che, sia in dottrina,[3] che in giurisprudenza,[4] si è comunque cercato di tutelare maggiormente l’efficacia dispositiva dei contratti collettivi stessi, introducendo il principio della derogabilità solo in melius.

In materia di agenzia, al momento sono vigenti in Italia i seguenti AEC erga omnes:

  • AEC 20 giugno 1956 sugli agenti delle imprese industriali;
  • AEC 13 ottobre 1958 sugli agenti delle aziende commerciali.

ed i seguenti principali accordi collettivi di diritto comune:

  • AEC 16 febbraio 2009 per gli agenti di commercio del settore commercio;
  • AEC 10 dicembre 2014 per gli agenti di commercio del settore artigiano;
  • AEC 10 dicembre 2014 per gli agenti di commercio del settore industria.

Quanto all’applicabilità della contrattazione collettiva, la regola generale prevede che il contratto collettivo si applica solo ai lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti (artt. 1387 e ss. c.c.). Ad ogni modo, negli anni la giurisprudenza e il legislatore sono intervenuti per cercare di estendere l’efficacia soggettiva in mancanza di iscrizione del lavoratore.[5] Pertanto gli AEC di diritto comune saranno applicabili tutte le volte in cui:

  • entrambe le parti (quindi sia l’agente che il preponente), aderiscono alle associazioni sindacali stipulanti;
  • vi sia un richiamo espresso all’AEC nel contratto di agenzia;
  • vi sia un richiamo tacito, ossia se si può evincere l’applicazione continua e costante delle norme AEC da parte dei contraenti.[6]

Con riferimento a quest’ultimo punto, in Italia la Cassazione ha più volte avuto modo di affermare che gli AEC hanno efficacia vincolante:

“non solo per gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, ma anche per coloro che esplicitamente o implicitamente vi prestino adesione”[7]

Nel caso di contratto di agenzia internazionale, regolato dalla legge italiana, si pone il doppio problema sia dell’applicabilità degli AEC di diritto comune, che dei contratti collettivi con efficacia erga omnes.

Nel primo caso si ritiene debbano applicarsi i principi generali del diritto italiano qui sopra indicati. Ciò comporta che, nel caso in cui non sia iscritto ad alcuna associazione italiana degli agenti di commercio, gli AEC di diritto comune non saranno applicabili, neppure se il preponente (o l’agente) italiano sia iscritto al sindacato, salvo non ci sia un richiamo espresso o tacito alla contrattazione collettiva oppure .[8]

Con riferimento agli AEC erga omnes, al momento vi sono due orientamenti giurisprudenziali. Quello maggioritario, che ritiene che, gli AEC erga omnes non debbano applicarsi ai rapporti di agenzia soggetti alla legge italiana, ma da eseguirsi all’estero, posto che la contrattazione collettiva si applica ed e non ha per questo forza transnazionale.[9] L’orientamento minoritario, contrariamente, ritiene che possano applicarsi all’estero solamente quegli istituti contrattuali, che nell’intenzione delle parti sociali debbano avere efficacia internazionale.[10]

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[1] In attesa dell’attuazione del dettato costituzionale, nel 1959, è stata emanata la Legge n. 751/59, nota come legge Vigorelli: essa delegava il governo ad emanare decreti legislativi aventi lo scopo di individuare i minimi inderogabili di trattamento economico e normativo validi per tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi a quanto già statuito dagli accordi collettivi, cosiddetti contratti collettivi erga omnes.

[2] G. Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci, Bari, 2001, 58 ss; Le fondi del diritto del lavoro tra stato e ragione, Trojsi, Giappichelli, 2013, 82 ss.; Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, Atti delle Giornate di studio di Diritto del Lavoro. Ferrara, 11-12-13-maggio 2000, Giuffrè, Milano 2002, 49 ss.

[3] Rotondi, Codice commentato del rapporto di lavoro, Milano, 2008, 33; Persiani, Saggio sull'autonomia privata collettiva, Padova, 1972, 7

[4] Cass. Civ. 4850/2006; Cass. Civ.  41/2003; Cass. Civ.  8097/2002; Cass. Civ.  4570/1996; Cass. Civ.  13351/1991; Cass. Civ.  2198/1991.

[5] Cass. Civ. 1996 n. 319; Cass. Civ. 1993 n. 1359 ““i contratti collettivi di lavoro, non dichiarati efficaci erga omnes […] si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatta espressa adesione ai patti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costatene prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti”.

[6] Cass. Civ. 1993 n. 1359, In questo caso la Cassazione ha ritenuto applicabile l’AEC al rapporto al contratto di agenzia, seppure il preponente non fosse iscritto all’associazione sindacale e nel contratto non vi fosse alcun richiamo espresso: è stato invece riconosciuta l’esistenza di una prassi consolidata aziendale succedutasi del tempo, del rispetto del preponente della normativa collettiva.

[7] Cfr. Nota n. 9; Cass. Civ. 1999 n. 368

[8] Cfr. Nota n. 9; Bortolotti, Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2007.

[9] Cass. Civ. 1993 n. 4505; Bortolotti, Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2007.

[10] Cass. Civ. 1988 n. 5021.