vendite parallele

Le vendite parallele nell'UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?

Quando si parla di vendite parallele, ci si riferisce alle importazioni che si affiancano a quelle effettuate da un importatore “ufficiale”, ossia territorialmente competente[1]: i commercianti paralleli entrano nel mercato riservato a distributori esclusivi, senza avere accesso diretto al fornitore, che appunto alimenta e fornisce unicamente i rivenditori autorizzati.

Il commercio parallelo, nel corso degli anni ha assunto forme assai diversificate e spesso ha permesso il sorgere di reti commerciali “alternative”, che si sono affiancate a quelle ufficiali impostate dal produttore; a volte sono alimentate dai distributori esclusivi stessi, che avendo acquistato la merce dal produttore, trovano più conveniente rivenderla a commercianti paralleli, con i quali hanno instaurato dei rapporti commerciali; altre volte i commercianti paralleli si procurano i beni presso rivenditori al dettaglio di un altro paese, ove i prezzi di mercato sono più bassi.[2]

1. È lecito un sistema di vendita esclusivo che blocca la distribuzione parallela?

La normativa comunitaria, si è sin dal principio confrontata con tale fenomeno ed ha dovuto cercare di trovare un bilanciamento tra, da un lato, il principio del libero scambio delle merci e, dall’all’altro lato, gli interessi commerciali dei singoli produttori di suddividere i diversi mercati europei tramite la nomina di concessionari esclusivi. L’impostazione della Commissione è stata da sempre, quella di permettere al produttore di creare delle reti tramite la nomina di concessionari esclusivi, affinché questi potesse gestire con maggiore facilità i diversi mercati europei. Il “compromesso” che è stato raggiunto, è stato quello di creare una netta linea di demarcazione tra le forme di distribuzione esclusiva “aperta”, considerate in linea di principio ammissibili, e le c.d. esclusive “chiuse”, ritenute quasi sempre non autorizzate[3].

Le prime forme si contraddistinguono dal fatto che il concessionario ottiene il diritto di essere l’unico soggetto a venire rifornito dal produttore in un determinato territorio. In ogni caso, la posizione che viene a questi garantita non è di “monopolio”, posto che gli importatori paralleli, nelle modalità e con i limiti che verranno di seguito descritti, potranno acquistare la merce da soggetti terzi (grossisti o concessionari di altre zone), per poi, eventualmente, rivenderli anche nel territorio esclusivo del concessionario.

Contrariamente, l’esclusiva “chiusa” è caratterizzata dal fatto che al concessionario viene garantita una protezione territoriale perfetta e ciò tramite l’imposizione a tutti i distributori della rete di non rivendere a soggetti al di fuori dalla loro zona e con l’ulteriore obbligo di imporre tale divieto anche ai loro acquirenti e così via.

Tale impostazione è stata assunta nella (ormai lontana) decisione Grundig[4], alla quale la Commissione non si è mai allontanata, ove è stato appunto ritenuto contrario ai principi del mercato unico europeo, la protezione assoluta dei concessionari e la creazione di distribuzioni esclusive chiuse, tramite, ad es[5]:

  • divieto di esportare imposto dai fornitori ai distributori;
  • approvvigionare commercianti noti per la loro attività di rivendita al di fuori delle zone stabilite;
  • differenziazione dei prezzi in funzione della destinazione;
  • riduzione o vera e propria soppressione degli sconti ai grossisti che avessero effettuato esportazioni indesiderate[6];
  • riduzione delle quantità abitualmente cedute ai grossisti, con l’intento di scoraggiare l’esportazione parallela.

La Corte ha quindi ritenuto, non solo che i contratti di distribuzione con protezione territoriale assoluta rientrano nel divieto dell’art. 101, § 1 TFUE, ma addirittura che tali accordi sono vietati unicamente sulla base del loro oggetto restrittivo, senza che sia necessario effettuare alcuna indagine di mercato, atta a verificare gli effetti che tali divieti abbiano effettivamente sul mercato.

2. Il Regolamento 330/2010: vendite attive e passive.

L’impostazione della Corte è stata confermata anche dal Regolamento 330/2010, sulle vendite verticali. Il Regolamento, da un lato, conferisce la facoltà di suddividere il mercato tramite la concessione di esclusive aperte[7], dall’altro lato, prevede all’art. 4, let. b) la validità di clausole contrattuali che impongono agli importatori il divieto di vendite attive [8] (e non passive[9]) nel territorio esclusivo o alla clientela esclusiva riservati ad altri distributori. Importante sottolineare il fatto che l’eccezione non si limita al divieto di vendite attive nel territorio esclusivo, ma copre anche il divieto di vendite alla clientela esclusiva, cioè quella che il fornitore si riserva, o che ha riservato ad un altro acquirente.

Il fornitore, pertanto, non può limitarsi a vietare al distributore di effettuare vendite fuori zona o ad un gruppo di clienti, posto che il divieto, per essere legittimo, deve riferirsi a vendite attive in una zona o a clienti riservati in esclusiva ad un differente distributore, ovvero al fornitore stesso.

Il concedente potrà, pertanto, impedire al proprio concessionario esclusivo di assumere iniziative miranti a conquistare parti di mercato in zone diverse da quelle loro assegnate; in ogni caso, il divieto di vendere fuori zona non può essere imposto, per le vendite passive, ossia la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti non appartenenti alla zona esclusiva.

3. Le vendite su internet e gli impatti sulle vendite parallele.

Il fenomeno della distribuzione parallela si è certamente sviluppato con l’avvento di Internet. Il web essendo una piattaforma che, per definizione, può essere visitata “worldwide”, ha aumentato sensibilmente le potenzialità dei singoli anelli della catena distributiva di essere visibili (e, quindi, vendere) in territori riservati in esclusiva ad altri soggetti (sul tema cfr. Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online? Vendite attive, vendite passive e geoblocking.).

Seppure ci siano delle sostanziali differenze tra vendite online e vendite offline, si può certamente affermare che i principi esposti al paragrafo precedente si applicano indifferentemente ad entrambe le tipologie di mercato.  I poteri  ed i limiti del produttore di vietare ed indirizzare le vendite dei propri concessionari sono i medesimi per il commercio tradizionale e quello elettronico: essenziale sarà pertanto comprendere, anche in tale contesto, la distinzione delle vendite attive, rispetto alle passive.

Secondo gli Orientamenti della Commissione, la mera esistenza di un sito Internet deve essere considerata, in linea di principio, come una forma di vendita passiva. Si legge infatti:

se un cliente visita il sito Internet di un distributore e lo contatta, e se tale contatto si conclude con una vendita, inclusa la consegna effettiva, ciò viene considerato come una vendita passiva. Lo stesso avviene se un cliente decide di essere informato (automaticamente) dal distributore e questo determina una vendita.” [10]

Contrariamente, deve considerarsi vendita attiva:

La pubblicità on-line specificamente indirizzata a determinati clienti [...]. I banner che mostrino un collegamento territoriale su siti Internet di terzi […] e, in linea generale, gli sforzi compiuti per essere reperiti specificamente in un determinato territorio o da un determinato gruppo di clienti costituisce una vendita attiva in tale territorio o a tale gruppo di clienti [ivi incluso] il pagamento di un compenso ad un motore di ricerca o ad un provider pubblicitario on-line affinché vengano presentate inserzioni pubblicitarie specificamente agli utenti situati in un particolare territorio.”

L’allargamento sensibile delle vendite tramite internet ha avuto l’effetto di aprire spazi considerevoli alla concorrenza intra-brand ed alla distribuzione parallela e ciò è stato certamente favorito anche dalla giurisprudenza europea, tendenzialmente favorevole all’utilizzo di tale strumento anche da parte dei concessionari ed intermediari del fornitore.

Invero, a seguito delle sentenze Pierre Fabre del 13.10.2011[11], un divieto assoluto ai distributori dell’utilizzo di internet per la distribuzione dei prodotti acquistati è da considerarsi sostanzialmente inammissibile. Un limite a tale potere dispositivo è stato imposto dalla sentenza del 6 dicembre 2017 Coty Germany GmbH[12], ove la Corte ha chiarito che in un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso, un produttore (in questo caso Coty) è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività sia realizzata in modo da preservare la connotazione lussuosa dei prodotti.

Da ultimo è intervenuta la più recente decisione Guess del dicembre 2018[13], con cui la Commissione ha condannato la casa madre ad una sanzione di 40 milioni di euro, per avere imposto ai dettaglianti un divieto di vendere prodotti contrattuali tramite internet o qualsiasi altro sistema elettronico o informatico, senza il previo consenso scritto di Guess stessa.

Sempre legata ad internet è la questione – che richiederebbe da sola un approfondimento molto più ampio – legata al fatto se un produttore può direttamente vendere su una piattaforma online prodotti a prezzi inferiori rispetto a quelli consigliati ai propri concessionari. Ci si domanda, infatti, se tale comportamento possa essere considerato contrario di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In merito non risulta che la giurisprudenza italiana si sia ancora espressa; ci si limita, per il momento, a consigliare di prevedere in maniera chiara e precisa tale fattispecie nel contratto di concessione, potendo, in caso contrario, tale comportamento dare adito a controversie molto complesse e gravose per entrambe le parti.[14]

4. Si può evitare la distribuzione parallela, creando un sistema di distribuzione selettiva?

Una modalità per evitare il crearsi di una distribuzione parallela potrebbe essere la creazione di una rete distributiva selettiva, posto che, in tale tipologia di distribuzione, il produttore può pretendere che i propri beni possano essere acquistati solamente da determinati intermediari, che rispettano i requisiti di forma e qualità  dallo stesso imposti (cfr. La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi). Ne consegue che, in un sistema di distribuzione selettiva senza falle, i prodotti non vengono in possesso di intermediari o rivenditori commerciali non ammessi alla rete. (cfr. Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

In ogni caso, anche tale sistema ha dei vantaggi, degli svantaggi e dei limiti; in primo luogo, può essere attuato solamente per i prodotti di alta qualità e tecnologicamente sviluppati.[15]

Inoltre, l’art. 4 d) del Regolamento, prevede comunque delle restrizioni al potere direttivo del produttore, il quale non potrà impedire le “forniture incrociate tra distributori all’interno di un sistema di distribuzione selettiva, ivi inclusi i distributori operanti a differenti livelli commerciali.” Tale libertà, per ogni membro appartenente alla rete selettiva, di approvvigionarsi senza alcun ostacolo presso gli altri membri, costituisce la necessaria contropartita dell’esclusione di reti distributive parallele. Gli Orientamenti prevedono al punto 58, che:

“un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale. La distribuzione selettiva non può pertanto essere combinata con restrizioni verticali volte ad obbligare i distributori ad acquistare i prodotti oggetto del contratto esclusivamente da una fonte determinata.

Da ultimo, ma non meno importante, si rileva che, seppure in una distribuzione selettiva, “il produttore può imporre l’obbligo di non vedere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla reteex art. 4 lett. b), iii), molto spesso, nella pratica, molti produttori distribuiscono in via "selettiva" soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo) alle altre zone. In tal caso, il produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite attive.

È comunque fatto salvo il diritto del produttore, che ha legittimamente adottato un sistema di distribuzione selettiva al fine di tutelare i prodotti contraddistinti dal marchio, di agire nei confronti dei distributori paralleli, le cui modalità di rivendita siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e prestigio -  che il produttore cerca di difendere proprio attraverso l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva - , o comunque che sussista un effetto confusorio circa l’esistenza di un legame commerciale tra il titolare del marchio e il rivenditore non autorizzato. In merito, si evidenziano due recenti ordinanze del Tribunale di Milano (cfr. La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley). [16]

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[1] Cfr. definizione da Dizionari Online Simone https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=736&dizionario=11

[2] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 403, 2018, UTET.

[3] Sul punto cfr. Bortolotti, I contratti di distribuzione, pag. 690, 2016, Wolters Kluwer.

[4] Decisione Grundig-Costen, 23.9.1964.

[5] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 383, 2018, UTET.

[6] In merito la Commissione si è espressa nel caso Distillers (1978), ove la Commissione ha sottolineato il fatto che gli sconti possono essere utilizzati per disciplinare, in via indiretta, i flussi di esportazione “stabilendo che nei confronti dei rivenditori britannici della DCL che esportano alcolici verso altri paesi della CEE il prezzo è diverso da quello che viene praticato quando gli alcolici sono rivenduti per il consumo nel mercato nazionale, e riservando inoltre gli sconti di prezzo unicamente alle vendite di alcolici destinati ad essere rivenduti e consumati nel Regno Unito, restringono la libertà dei suddetti clienti di rivendere i prodotti in questione in un altro Paese della CEE (…).

L’inapplicabilità degli sconti alle vendite di alcolici destinati all’esportazione e l’applicazione, nei confronti degli stessi clienti, di prezzi diversi per gli alcolici destinati all’esportazione e per quelli destinati al consumo nel Regno Unito, costituiscono un chiaro tentativo di impedire le importazioni parallele dal Regno Unito negli altri paesi della CEE ed equivalgono pertanto a un divieto espresso di esportazione (n. 2, p. 25).

[7] Importante comunque sottolineare il fatto, che il Regolamento 330/2010, contrariamente al precedente 2790/1990, non menziona la clausola di esclusiva “aperta”, ma la stessa risulta esentata “automaticamente” in base al principio della liceità di tutte le clausole non espressamente vietate, statuito all’art. 2 del Regolamento.

[8] Le Line Guida della Commissione (LGC o Orientamenti) al punto 51, definiscono vendite attive: “il contatto attivo con singoli clienti ad esempio per posta, compreso mediante l’invio di messaggi di posta elettronica non sollecitati, o mediante visite ai clienti; oppure il contatto attivo con uno specifico gruppo di clienti, o con clienti situati in uno specifico territorio attraverso inserzioni pubblicitarie sui media o via Internet o altre promozioni specificamente indirizzate a quel gruppo di clienti o a clienti in quel territorio. La pubblicità o le promozioni che sono interessanti per l’acquirente soltanto se raggiungono (anche) uno specifico gruppo di clienti o clienti in un territorio specifico, sono considerati vendite attive a tale gruppo di clienti o ai clienti in tale territorio.”

[9] Le LGC, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio. Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori

[10] LGC n. 52

[11] C-439/09, Pierre Fabre del 13.10.2011.

[12] C-230/16, Coty Germany del 6.12.2017.

[13] https://www.bbmpartners.com/news/La-decisione-Guess-della-Commissione-Europea-Una-prima-analisi

[14] Si rimanda in materia Dr. Thume “Paralleler Online-Vertrieb des Herstellers im Spannungsfeld seiner Dispositionsfreiheit und Treuepflicht”, Betriebs-Berater, 15.2018, pag. 770.

[15] Ciò significa che l’applicazione di tale sistema a tipologie di prodotti non “adeguate”, comporta il rischio, di una (seppure ipotetica) revoca dell’esenzione da parte della Commissione, ovvero dell’Autorità garante, per gli accordi che producano effetti esclusivamente sul mercato interno. Sul tema cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell'Unione Europea, 2018, pag. 405, UTET.

[16] Ordinanze del 19 novembre 2018 e 18 dicembre 2018 del Tribunale di Milano. https://sistemaproprietaintellettuale.it/notizie/angolo-del-professionista/13754-distribuzione-selettiva-di-cosmetici-di-lusso-il-tribunale-di-milano-chiarisce-i-presupposti-per-l-esclusione-del-principio-dell-esaurimento-del-marchio.html


distribuzione selettiva

La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi.

Determinati prodotti, in funzione delle loro caratteriste intrinseche (si pensi ad esempio al settore del lusso, ovvero a prodotti tecnicamente molto complessi), spesso necessitano di un sistema di rivendita più selezionato e curato rispetto ai prodotti di largo consumo.

In tali casi, il produttore è portato, non tanto a puntare sulla vastità e capillarità della propria rete vendita, quanto a prediligere una limitazione dei canali commerciali, preferendo affidare i propri prodotti ad un ristretto numero di rivenditori specializzati, scelti in funzione di determinati criteri oggettivi dettati dalla natura dei prodotti: competenza professionale (per quanto riguarda gli aspiranti distributori),[1] qualità del servizio offerto, ovvero prestigio e cura dei locali nei quali i rivenditori dovranno svolgere la loro attività.[2]

1. Definizione e breve panoramica.

Per distribuzione selettiva si intende appunto un sistema di distribuzione in cui i prodotti passano esclusivamente dalle mani del produttore a quelle dei rivenditori autorizzati, ossia a quegli intermediari che rispettano i requisiti di forma e qualità richiesti dal produttore stesso. Il Regolamento UE 330/2010 sugli accordi verticali definisce, a tal fine, la distribuzione selettiva come:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulle base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema.”

Secondo la Corte, una distribuzione selettiva è conforme all’art. 101 § 3 del Trattato (e non ricade nel divieto generale fissato dal § 1 di suddetto articolo), essenzialmente se sussistono tre principi fondamentali:

  • la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi di indole qualitativa, riguardanti la qualificazione professionale del rivenditore del suo personale e dei suoi impianti”,
  • che “questi requisiti siano richiesti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali”,
  • e che “vengano valutati in modo non discriminatorio”.[3]

In determinati casi, il produttore può aggiungere un’ulteriore barriera nella selezione dei soggetti che possono aderire alla propria rete selettiva, potendo questi valutare di imporre una supplementare restrizione di carattere quantitativo, optando così per non ammettere automaticamente alla rete tutti i rivenditori che presentano gli standards richiesti, ma effettuando altresì delle limitazioni nel numero dei soggetti riconosciuti, spesso calibrate tenendo conto delle potenzialità economiche dei differenti mercati in qui vengono venduti i prodotti contrattuali.[4]

La Giurisprudenza Europea ha concesso l’esenzione per sistemi di distribuzione selettiva quantitativa, riconoscendo che la restrizione presenta il carattere dell’indispensabilità richiesto dall’art. 101 § 3 del Trattato, in forza di un principio prevalentemente economico: ha ritenuto tale sistema distributivo legittimo, ogni volta che l’ammissione al sistema selettivo di tutti i rivenditori qualificati abbia un impatto negativo sulla redditività della rete vendita, posto che “ridurrebbe ad alcune unità l’anno le possibilità di vendita di ognuno di questi.”[5] Si richiama qui brevemente il Caso Vichy,[6] in cui il produttore aveva riservato i prodotti alle sole farmacie di determinati prodotti cosmetici.

La Commissione ha ritento che si trattasse di un sistema distributivo quantitativo, in ragione del fatto che in alcuni Paesi l’accesso alla professione di farmacista era soggetto ad un numero chiuso. Ancora gli Orientamenti sulle restrizioni verticali (n. 175)[7], fanno ricadere nella restrizione quantitativa, l’imposizione al fornitore di realizzare un fatturato minimo, stabilito dal fornitore, limitando così in via indiretta di accedere alla rete tutti i soggetti che non riescono a raggiungere la soglia di fatturato fissata.

Con riferimento alla tipologia di prodotti per i quali può essere giustificato il ricorso ad un sistema selettivo, il Regolamento 330/2010 non fa alcun cenno in merito, poiché si limita a dare una definizione di tale sistema. In ogni caso, una risposta si ritrova all’interno degli Orientamenti della Commissione, ove al n. 176, viene affermato che:

se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva […], tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio. Se si verificano effetti anticoncorrenziali sensibili, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato”.

Si può, quindi, affermare che la distribuzione selettiva è riservata solamente a prodotti di alta qualità e tecnologicamente sviluppati; ciò significa che l’applicazione di tale sistema a tipologie di prodotti non “adeguate”, comporta il rischio, di una (seppure ipotetica) revoca dell’esenzione da parte della Commissione, ovvero dell’Autorità garante, per gli accordi che producano effetti esclusivamente sul mercato interno.[8]

Andiamo qui di seguito ad analizzare brevemente quelle che sono le peculiarità di un sistema distributivo selettivo.

2. Distribuzione selettiva e divieto di vendere a soggetti esterni alla rete.

Il primo elemento è quello collegato è sicuramente al fatto che in un sistema distributivo, il produttore può imporre l’obbligo di non vendere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla rete (art. 4 lett. b), iii)).[9]

Tale vantaggio, ad ogni modo, è controbilanciato dal divieto imposto al fornitore dall’art. 4 lett. c), di limitare la libertà di effettuare “vendite attive e passive agli utenti finali da parte dei membri di un sistema di distribuzione selettiva operante nel commercio al dettaglio.”

Tale divieto si discosta da quanto normalmente previsto, ex art. 4 lett. b) i), per i sistemi di distribuzione non selettiva, che permette al fornitore di vietare ai propri rivenditori unicamente vendite attive in territori o a gruppi riservati in esclusiva ad altri intermediari.

Ciò premesso, si fa presente che molto spesso, nella pratica, molti produttori distribuiscono in via "selettiva" soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo) alle altre zone. In tal caso, il produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite attive (sul punto cfr. Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

3. La vendita su internet e distribuzione selettiva.

La conseguenza che nel sistema selettivo non si possa impedire ad un dettagliante, appartenente alla rete, di promuovere i prodotti ed effettuare pubblicità, al di fuori della propria zona, verso gli utilizzatori finali, ha certamente un effetto dirompente, soprattutto se associato alle vendite online (in tema cfr. anche “Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?”): è chiaro che, stante la trasversalità di internet, concedere la facoltà ad un dettagliante di effettuare vendite anche al di fuori del proprio territorio, ha un impatto assai importante (si pensi solamente alla complessità di gestire una politica dei prezzi). Se ciò viene associato al fatto che con il nuovo regolamento 302/2018 sul cd. Geoblocking, l'UE ha impedito i blocchi geografici ingiustificati basati sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell’ambito del mercato interno. [10]

Ciò ha spinto molti produttori a vietare ai membri della rete l’utilizzo di internet. Sulla legittimità del produttore di impedire ai propri rivenditori/dettaglianti di vendere online, si è sviluppata una corrente giurisprudenziale europea piuttosto articolata ed assai complessa, la cui analisi richiederebbe uno studio molto approfondito. Al fine di consentire al lettore di avere una panoramica più ampia su tale tematica, si riprendono qui brevemente quelle che sono le pronunce più importanti degli ultimi anni.

La prima della “serie” è stata la sentenza del 2011 della Corte, nel Caso Pierre Fabre, ove è stato affermato che un divieto assoluto di vendere su Internet, nel caso in cui non sia oggettivamente giustificato, costituisce una restrizione per oggetto che esclude l’applicazione del Regolamento di esenzione per categoria n. 330/2010.[11]

È seguita la sentenza del 2017, nel caso Coty Germany, in cui è stata (anche) sancita la compatibilità con l’articolo 101, di una clausola contrattuale

“che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso finalizzato, primariamente, a salvaguardare l’immagine di lusso di tali prodotti di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo Internet dei prodotti oggetto del contratto, qualora tale clausola sia diretta a salvaguardare l’immagine di lusso di detti prodotti, sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio, e sia proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.[12]

Da ultimo è intervenuta la più recente decisione Guess del dicembre 2018, con cui la Commissione ha condannato la casa madre ad una sanzione di 40 milioni di Euro, per avere imposto ai dettaglianti un divieto di vendere prodotti contrattuali tramite internet o qualsiasi altro sistema elettronico o informatico, senza il previo consenso scritto di Guess stessa.[13]

4. Le vendite incrociate all’interno della rete di distribuzione selettiva.

L’art. 4 lett. d) del Regolamento vieta “la restrizione delle forniture incrociate tra  distributori all’interno di un sistema di distribuzione selettiva, ivi inclusi i distributori operanti a differenti livelli commerciali”.

Tale disposizione conferisce ai membri della rete distributiva la libertà di vendere ad altri membri della rete; ciò al fine di permettere almeno all’interno di un sistema “chiuso”, la massima libertà di circolazione.

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[1] Si pensi alla decisione Grundig approvata nel 1985 dalla Commissione, in cui si richiedeva la presenza “di personale qualificato e di un servizio esterno con la competenza tecnica necessaria per assistere e consigliare la clientela”, nonché “l’organizzazione tecnica necessaria per l’immagazzinamento e il tempestivo rifornimento degli acquirenti”; “presentare ed esporre i prodotti Grundig in maniera rappresentativa in locali appositi, separati dagli altri reparti, e il cui aspetto rispecchi l’immagine di mercato di Grundig”.

[2] Sul punto cfr. PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 409, UTET, 2018.

[3] Sentenza Metro I, 25.10.1977 e causa C-31/80, L’Oréal/ PVBA. Tale orientamento è stato confermato anche dagli Orientamenti della Commissione al n. 175, che dispongono che “In genere, si ritiene che la distribuzione selettiva basata su criteri puramente qualitativi non rientri nell’ambito dell’articolo 101, paragrafo 1, in quanto non provoca effetti anticoncorrenziali, purché vengano soddisfatte tre condizioni. In primo luogo la natura del prodotto in questione deve rendere necessario un sistema di distribuzione selettiva nel senso che un tale sistema deve rappresentare un requisito legittimo, in considerazione delle caratteristiche del prodotto in questione, per conservarne la qualità e garantirne un utilizzo corretto. In secondo luogo, la scelta dei rivenditori deve avvenire secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa stabiliti indistintamente e resi disponibili per tutti i rivenditori potenziali e applicati in modo non discriminatorio. In terzo luogo i criteri stabiliti non devono andare oltre il necessario

[4] Sul punto cfr. caso Omega, decisione della Commissione del 28.10.1970 e caso BMW del 23.12.1977.

[5] Caso Omega, decisione della Commissione del 28.10.1970

[6]  Caso Vichy, decisione della Commissione del 27.2.1992

[7]La distribuzione selettiva quantitativa aggiunge ulteriori criteri di selezione che limitano in maniera più diretta il numero potenziale di rivenditori, imponendo per esempio un livello minimo o massimo di acquisti, fissando il numero di rivenditori, ecc.

[8] Sul punto cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 720, Wolters Kluwer; Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell'Unione Europea, 2018, pag. 405, Wolters Kluwer.

[9] A tal proposito, si richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba I, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente – altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.

[10] Con il nuovo regolamento 302/2018 sul cd. geoblocking, recante misure volte a impedire i blocchi geografici ingiustificati e altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell’ambito del mercato interno. Tale regolamento (si accenna qui solo brevemente), si propone di impedire i blocchi geografici ingiustificati o altre forme di discriminazione basate direttamente o indirettamente sulla nazionalità, sul luogo di residenza o stabilimento dei clienti: il regolamento cancella infatti il blocco, ma non obbliga a vendere fuori dal proprio paese o ad avere prezzi uguali per tutta l’Europa.

[11] Caso Pierre Fabre, sentenza del 13.10.2011

[12] Caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017.

[13] https://www.bbmpartners.com/news/La-decisione-Guess-della-Commissione-Europea-Una-prima-analisi


indennità di fine rapporto

Indennità di fine rapporto dell'agente. Come si calcola se non si applicano gli AEC?

Nei casi in cui al rapporto di agenzia non si applichino gli Accordi Economici Collettivi, comprendere se (e in che entità) sia dovuta all’agente l’indennità di fine rapporto non è per nulla agevole .

Contrariamente agli AEC, che prevedono un preciso calcolo che permette alle parti di quantificare l’indennità di fine rapporto, il codice civile prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo

L'indennità di fine rapporto è stata introdotta a livello europeo dalla direttiva 86/653CEE, poi recepita dal nostro ordinamento da ultimo con la riforma del dlgs. 65/1999, che ha novellato l'attuale testo dell’art. 1751 c.c. che così dispone:

All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni:

  • L’agente abbia procurato nuovo clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti;
  • Il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
  • Il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.”

Il Giudice deve quindi, in prima analisi riscontrare sulla base delle risultanze istruttorie, se l’agente abbia aumentato la clientela e/o gli affari dell’agente e, quindi, determinare quale importo debba essergli dovuto, giudicando secondo equità.

Nei casi in cui al rapporto di agenzia non si applichino gli Accordi Economici Collettivi, comprendere se (e in che entità) sia dovuta all’agente l’indennità di fine rapporto non è per nulla agevole .

Contrariamente agli AEC, che prevedono un preciso calcolo che permette alle parti di quantificare l’indennità di fine rapporto, il codice civile prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo

- Leggi anche: Indennità di fine rapporto: art. 1751 c.c. ed AEC a confronto.

Si vanno qui di seguito ad analizzare brevemente quelli che sono i criteri indicati dal Codice civile.


1. L'apporto di clientela da parte dell'agente.

L’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. è indubbiamente finalizzata a premiare l’attività di promozione e sviluppo della clientela del preponente. Per tale motivo, deve considerarsi esclusa dall’ambito di applicabilità di tale norma, l’attività di reclutamento e coordinamento di agenti, posto che quest’ultima, seppure rilevante e molto importante sul piano organizzativo, ha natura esclusivamente strumentale ed accessoria rispetto a quella di potenziamento della clientela.[1]

Seguendo tale ragionamento, neppure il mero incremento del fatturato da parte dell’agente, può considerarsi sufficiente per provare l’apporto di nuovi clienti o lo sviluppo sostanziale di quelli già esistenti all’inizio del rapporto:[2] non è bastevole che l’agente dimostri (cfr. onere della prova nel contratto di agenzia) l’incremento delle proprie provvigioni negli anni, se altresì non indica diligentemente i clienti nuovi che ha apportato. Si legge in giurisprudenza:

la domanda volta al pagamento dell’indennità ex art. 1751 c.c. non può trovare accoglimento nell’ipotesi in cui il ricorrente dia genericamente atto in ricorso della ricorrenza dei relativi presupposti, tuttavia omettendo di dedurre puntualmente in ordine al volume di affari gestito per ogni singolo cliente, così come di specificare gli affari conclusi, il valore complessivo dei contratti, l’eventuale incremento rispetto agli affari conclusi con lo stesso cliente nell’anno precedente, tralasciando del tutto di indicare quali clienti abbia personalmente seguito.”[3]

E ancora:

L’agente che agisce ex art. 1751 c.c. deve provare pima di tutto di avere apportato nuova clientela alla casa mandante, o quanto meno, di avere determinato un incremento del fatturato relativo ai clienti che, prima dell’inizio del rapporto di agenzia, già trattavano affari con la stessa.[4]

Quanto alla definizione di “nuovo cliente”, si ricordare che nel 2016 è intervenuta la Corte di Giustizia europea,[5] interrogata circa la possibilità di riconoscere come tali, soggetti giuridici che già precedentemente il conferimento del mandato di agenzia, avevano instaurato rapporti commerciali con la casa mandante, ma per prodotti differenti rispetto a quelli oggetto del contratto di agenzia. Nello caso di specie, l’agente aveva ricevuto mandato per la vendita di montature per occhiali di marchi differenti rispetto a quelli che erano stati già commercializzati da parte del preponente; si domandava pertanto alla Corte se la vendita di tali nuovi prodotti a clienti già esistenti, potesse rientrare nella definizione civilistica[6] di “nuovo cliente”. La Corte, si espresse affermando che;

devono essere considerati nuovi clienti ai sensi di detta disposizione, sebbene questi intrattenessero già rapporti commerciali con il preponente in merito ad altre merci, qualora la vendita delle prime merci realizzata dall’agente stesso gli abbia imposto di porre in essere rapporti commerciali specifici, cosa che spetta al giudice del rinvio accertare.”


2. Vantaggi per il preponente derivanti dall'attività svolta dall'agente.

La seconda condizione prevista dall’art. 1751 c.c. è che “il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.” Quando si analizza tale condizione, bisogna certamente comprendere a quale periodo temporale bisogna fare riferimento per verificare la sussistenza o meno dei vantaggi. Secondo la migliore dottrina[7] il dettato normativo è abbastanza chiaro e si riferisce alla situazione esistente al momento della cessazione del rapporto; la giurisprudenza, contrariamente, non è univoca in merito, e si  registra un orientamento opposto, che ritiene necessario verificare se i vantaggi sussistono e permangono anche negli anni successivi ed escludendo, in tal senso, l’indennità, qualora l’agente non sia in grado di provare giudizialmente la “fidelizzazione” dei clienti anche a seguito dello scioglimento del rapporto.[8]

Certamente non può incidere negativamente per l’agente la scelta personale del preponente di optare per cedere ad altri l'azienda (per un prezzo indubbiamente determinato, oltre che dal marchio, anche dall'avviamento, costituito essenzialmente dal portafoglio clienti), salvo, ovviamente, che non venga accertato che l'incremento di clientela sia dipeso da fattori esterni all'agente.[9]

Deve, invece, considerarsi sussistente la condizione, ove i contratti conclusi dall’agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell’avviamento e i vantaggi per il preponente, anche successivamente lo scioglimento del rapporto, sono in re ipsa.[10]


3. La determinazione dell'indennità di fine rapporto secondo equità.

Una volta accertata l’esistenza dei primi due requisiti, il Giudice dovrà quantificare l’indennità secondo equità. Come si è già accennato, ai fini della determinazione del quantum, il Giudice è tenuto a verificare il rispetto del requisito di equità prescritto dall'art. 1751 c.c., tenuto conto di tutte le circostanze del caso ed in particolare delle provvigioni che l'agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

È interessante sottolineare che, mentre la legge individua chiaramente i requisiti perché possa essere riconosciuta all’agente l’indennità, per la quantificazione secondo equità, il riferimento normativo non è tassativo e riguarda tutte “le circostanze del caso”, individuando, unicamente a titolo esemplificativo, il riferimento alle provvigioni che l’agente perde e che risultino dagli affari con i clienti.[11] A tal riguardo, la Giurisprudenza ritiene che il Giudice deve:

avere riguardo a tutti quegli elementi che sono idonei a pervenire ad una adeguata personalizzazione dei quantum spettante all’agente[12] e “possa considerarsi o no ‘equa, nel senso di compensativa anche del particolare merito dell’agente emergente dalle [emergenti] circostanze di fatto.[13]

Ove non la ritenga congrua, in mancanza di una specifica disciplina, deve riconoscere all'agente il differenziale necessario per riportarla ad equità.”[14]

È chiaro che l’equità è un principio difficilmente declinabile da un punto di vista pratico. Ne consegue che la mancata applicazione degli AEC al rapporto, comporta certamente una maggiore incertezza in merito alla quantificazione dell’indennità di fine rapporto, posto che la stessa è demandata, in ultima analisi, alla sensibilità del singolo Giudice.

Importante inoltre ricordare che quella di cui all’art. 1751 c.c. si tratta di una tipica ipotesi di equità giudiziale e in quanto tale è censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione, ma non nel suo ammontare.[15]


4. Indennità di fine rapporto calcolata sulla base dei criteri fissati dalla Commissione.

Dall'analisi qui sopra riportata, emerge che l'impostazione della direttiva europea, che prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo, abbia e continua a creare una grande incertezza. È di tutta evidenza, quindi, che un metodo chiaro e preciso, magari sviluppato da parte della giurisprudenza nazionale, porterebbe ad una maggiore certezza del diritto, con vantaggi per entrambe le parti contraenti.

Tale problematica è stata altresì riscontrata da parte della stessa Commissione Europea nella relazione del 23/7/1996, la quale ha, consapevole di tale limite normativo, ha predisposto una relazione volta da un lato ad analizzare in che maniera la giurisprudenza europea ha approcciato tale problematica interpretativa e dall'altro lato a fornire una soluzione ai paesi membri.

Una soluzione sarebbe stata ritrovata nel modello tedesco (ed in particolare il §89b del HGB a cui la normativa si è ispirata), tenuto conto del fatto che dal 1953 prevede il pagamento di un'indennità di plusvalore, che ha dato luogo ad un'ampia giurisprudenza per quanto riguarda il calcolo di quest'ultima.

La relazione della Commissione, si addentra nel dettagli ad analizzare il modello di calcolo sviluppato dalla giurisprudenza tedesca, al quale si rimanda integralmente. Per quel che possa servire, è importante sottolineare il fatto che il sistema sviluppato dalla giurisprudenza tedesca è stato poi utilizzato come modello per la redazione dei calcoli degli AEC e che, pertanto, lo stesso seppure assai complesso, non è poi per noi del tutto alieno.

La Commissione, dopo avere analizzato in maniera analitica il metodo di calcolo, conclude osservando come il modello sviluppato dalla Giurisprudenza tedesca, possa essere comunque utilizzato come modello da applicare, potendo ciò "facilitare un'interpretazione più uniforme di tale articolo."

La giurisprudenza italiana ha in ogni caso assai raramente seguito tale modello (forse anche perché non spinto da parte dei difensori delle parti), che al momento resta essere quasi del tutto sconosciuto; in ogni caso si riscontrano alcune pronunce di merito che hanno condiviso la posizione della Commissione, che hanno ritenuto adeguato effettuare la quantificazione dell'indennità di fine rapporto sulla base dei criteri di calcolo fissati dalla Commissione Europea nella relazione del 23/7/1996 sull’applicazione dell’art. 17 direttiva 86/653/CEE. [16]

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[1] Cass. Civ. 2018 n. 25740.

[2] Sul punto cfr. anche Bortolotti, Contratti di distribuzione, pag. 386 e ss., 2016, Wolters Kluver.

[3] Tribunale di Milano 26.7.2016.

[4] Tribunale di Bari 12.2.2014.

[5] Sentenza del 7.4.2016, causa C-314/14, Marchon c. Karaskiewicz

[6] Per essere più precisi, nella definizione di “nuovo cliente”, di cui all’art. 17 della direttiva europea 1986/653 in tema di agenti di commercio, con art. 4, D.Lgs. 10.9.1991, n. 303 che ha modificato l’art. 1751 c.c. e sostituito con art. 5, D.Lgs. 15.2.1999, n. 65.

[7] Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 388.

[8] Cfr. Tribunale di Padova 21.9.2012 ove è stato negata l’indennità per mancanza di ordini a seguito dello scioglimento del rapporto; in senso contrario Cass. Civ. 2013 n. 24776 “Del resto l'utilità per il preponente va valutata al momento della cessazione del rapporto assumendo rilevanza la cristallizzazione dei risultati ottenuti dall'agente a tale momento.”

[9] Cass. Civ. 2013 n. 24776.

[10] Cass. Civ. 2013 n. 24776.

[11] Cfr. Cass. Civ. 2018 n. 21377, Cass. Civ. 2008 n. 23966.

[12] Cass. Civ. 2016 n. 486.

[13] Cass. Civ. 2014 n. 25904.

[14] Corte d'Appello Firenze 4.4.2012.

[15] Cass. Civ. 2018 n. 25740.

[16] Tribunale di Pescara del 23.9.2014, con commento di Trapani in Agenti&Rappresentanti di commercio n. 2/2015; Tribunale di Bassano del Grappa del 22.11.2008


contratto di agenzia

Agente di commercio e normativa antitrust: quando il contratto di agenzia è considerato un accordo verticale.

Con il presente articolo si vuole cercare di comprendere se il contratto di agenzia possa essere considerato accordo verticale ai sensi del regolamento europeo 330/2010 sugli accordi verticali e, in quanto tale, essere soggetto al divieto ex art. 101 § 1, TFUE e alla normativa antitrust.

Come si è già avuto modo di analizzare (cfr. clausole di esclusiva ed accordi economici verticali), il regolamento n. 330/2010 dispone che, negli accordi verticali tra imprese, non possono essere raggiunte intese che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare la concorrenza all’interno del mercato comune e che tali intese, ove previste, sono nulle in base all’art. 101, § 1, TFUE.

In tale blog, si è già brevemente trattata la tematica relativa all'applicabilità del regolamento ai distributori esclusivi ed ai rivenditori che utilizzano l'e-commerce per distribuire i prodotti contrattuali. Con il presente articolo si vuole analizzare (seppur sommariamente) un tema altrettanto complesso ed interessante, ossia se i contratti di agenzia possano essere considerati accordi verticali ai sensi del regolamento e, in quanto tali, essere soggetti al divieto ex art. 101 § 1, TFUE; tale questione è di particolare rilevanza, posto che gli accordi di agenzia normalmente contengono una serie di pattuizioni restrittive della concorrenza quali limitazioni sulla determinazione del prezzo, del territorio e della clientela.

Suddette restrizioni rientrano espressamente tra quelle definite fondamentali dall'art. 4 del regolamento e la cui presenza comporta che l'accordo nella sua totalità perda il beneficio dell’esenzione per categoria previsto dal regolamento stesso[1]. Le restrizioni verticali che avrebbero maggiore impatto su un contratto di agenzia, sarebbero sicuramente quelle relative al divieto di:

  1. determinazione da parte dell’acquirente del prezzo di rivendita;
  2. determinazione da parte dell’acquirente del territorio o dei clienti ai quali l’acquirente può vendere i beni o i servizi oggetto del contratto;
  3. restrizione delle vendite (attive o passive) agli utenti finali;

Di qui l'importanza di comprendere quando un contratto di agenzia debba essere considerato (ai sensi della normativa antitrust) come vero e quando falso: nel caso in cui il contratto di intermediazione dovesse essere considerato (ai sensi della normativa antitrust) un contratto di agenzia falso, lo stesso ricadrebbe sotto il divieto dell’art. 101, con il conseguente impossibilità del preponente di imporre all'agente limiti in merito alla determinazione del prezzo (od almeno riservargli la facoltà di concedere degli sconti sulla propria provvigione), del territorio, dei clienti ed inibire allo stesso le vendite passive a clienti non appartenenti alla propria zona. [11]

La prima valutazione in merito alla soggezione degli accordi aventi ad oggetto la rappresentanza commerciale al divieto ex art 101, § 1, risale alla “Comunicazione di Natale” del 1962[2]; la Commissione aveva escluso, in linea di massima a tale divieto, il rappresentante di commercio, a condizione che non assumesse “nello svolgimento delle sue funzioni (…) nessun altro rischio contrattuale, ad eccezione dell’usuale garanzia dello star del credere.”[3] La Commissione, ha ritenuto che gli accordi di rappresentanza commerciale,

non hanno né per oggetto né per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza”, poiché il rappresentante svolge sul mercato “unicamente una funzione ausiliaria [agendo] in conformità delle istruzioni e nell’interesse dell’impresa per conto della quale esercita la sua attività”

Nel corso degli anni, si sono affermati orientamenti giurisprudenziali[4] in base ai quali si può sostanzialmente affermare[5] che il principio di cui all’art. 101, §1, non si applica ai contratti di intermediazione commerciale nel caso in cui:

  • l’agente non si assuma i rischi commerciali e finanziari tipici di un distributore/rivenditore;
  • l’agente sia integrato all’interno della struttura distributiva del preponente;
  • il contratto di agenzia non rientra in un quadro più ampio di contratti rientranti sotto l’art. 101.

Parimenti, anche negli Orientamenti sulle restrizioni verticali,[6] l’elemento caratterizzante, per potere comprendere se un contratto di agenzia sia o meno soggetto al divieto, è caratterizzato dai rischi assunti dalla parte qualificata (correttamente o meno) come agente:[7] se i rischi gravano sostanzialmente sul preponente, siamo in presenza di un vero accordo di agenzia, in caso contrario, di un accordo suscettibile di incorrere nel divieto ex art. 101, § 1.

Gli stessi Orientamenti al punto 16 dispongono che:

un accordo verrà considerato in genere […] di agenzia […] se la proprietà dei beni oggetto del contratto […] non passa all’agente o se l’agente non fornisce egli stesso i servizi oggetto del contratto.”

Negli Orientamenti vengono quindi enumerati diversi esempi di rischi che esulano dalla tipica attività dell’agente (in senso stretto), che si verificano quando l'agente:

  1. acquista la proprietà dei beni oggetto del contratto[8];
  2. concorre alle spese connesse alla fornitura/acquisto di beni oggetto del contratto;
  3. mantiene a proprio costo o rischio, scorte dei beni oggetto del contratto;
  4. assume responsabilità nei confronti di terzi per eventuali danni;
  5. assume responsabilità per l’inadempimento del contratto da parte dei clienti;
  6. è obbligato ad effettuare investimenti nella promozione delle vendite;
  7. effettua investimenti in attrezzature, locali o formazione del personale;
  8. svolge altre attività del medesimo mercato del prodotto richiesto dal preponente.

La migliore dottrina[9] (alla quale ci si richiama per uno studio più approfondito della tematica qui brevemente riportata) rileva che le considerazioni svolte dalla Commissione negli Orientamenti riguardo ai criteri distintivi tra agenti veri e falsi sono spesso "fuorvianti"; ciò è in parte dovuto al fatto che i criteri generali indicati negli Orientamenti sono stati ripresi (prevalentemente) da una serie di precedenti giurisprudenziale della Corte di Giustizia Europea di carattere molto particolare e ciò non ha permesso alla Commissione di “considerare il modo di operare degli agenti ‘normali’, di cui [la Commissione] non ha avuto modo di prendere conoscenza […]; la Commissione ha individuato una sere di criteri difficilmente applicabili alla realtà dei ‘normali’ rapporti di agenzia transfrontalieri”. [10] 

Da ciò deriva una situazione di grave incertezza: i criteri distintivi indicati negli Orientamenti possono indurre in errore il lettore (ad es. giudici e autorità nazionali della concorrenza) che vi faccia affidamento, portando lo stesso a qualificare come falsi agenti, intermediatori che di fatto (almeno da un punto di vista civilistico) svolgono una attività tipica di agenzia.

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[1] Il regolamento definisce delle categorie di accordi per i quali, anche qualora vi fosse una restrizione della concorrenza ai sensi dell’art. 101, § 1, si può presumere che siano esenti da una sua applicazione.

[2] GUCE, n. 139, 24.12.1962, p. 2912 ss.

[3] Id. p. 2922.

[4] Caso Zucchero, decisione della Commissione del 2.1.1973, caso Vlaamse Reisbureaus decisione della Corte di Giustizia del 1.10.1987, caso Vag Leasing decisione della Corte di Giustizia del 24.10.1995.

[5] Cfr. sul punto Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 674., Wolters Kluwer, 2016

[6] Punto 13) degli Orientamenti: “Il fattore determinate per definire un accordo di agenzia commerciale ai fini dell’applicazione dell’articolo 101, § 1, è il rischio finanziario o commerciale assunto dall’agente in relazione alle attività per le quali è stato nominato come agente dal preponente.

[7] Cfr. sul punto Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’unione europea, p. 321 ss. UTET, 2018.

[8] Sul punto cfr. il caso Mercedes Benz deciso dalla commissione con decisione 10.10.2001, in cui il Tribunale di primo grado ha ritenuto che l’acquisto di vetture da dimostrazione ed dei pezzi di ricambio non fosse un elemento sufficiente per considerare l’agente un distributore in proprio.

[9] Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 675 ss., Wolters Kluwer, 2016

[10] Id. p. 675

[11] Gli Orientamenti, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio.

Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori”.


bloccare le vendite online

Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?

Quando è possibile bloccare le vendite online dei distributori o dei soggetti appartenenti alla propria rete vendita? Vendite attive, vendite passive, geoblocking… Facciamo un po' di chiarezza!

L’e-commerce è indubbiamente uno strumento che ha delle potenzialità straordinarie: permette di rivolgersi ad una platea amplissima di utenti, di indirizzare con grande precisione offerte a categorie di clienti ben definite e per il consumatore finale, non dimentichiamo, è senza dubbio comodo!

Stante le sue potenzialità, tale strumento deve essere utilizzato con grande consapevolezza da parte di ogni soggetto che intende operare nel settore del commercio elettronico; si deve elaborare attentamente una strategia marketing, bisogna tenere conto delle complessità logistiche ad esso connesse ed ottemperare ai dettati normativi sempre più articolati e vincolanti (si pensi solo ad esempio alla normativa privacy, resasi certamente più complessa a seguito dell’entrata in vigore del GDPR).

Inoltre, stante la trasversalità del web, l’utilizzo del commercio elettronico contribuisce in maniera sensibile a rendere i prezzi sempre più trasparenti e ciò non di rado si scontra con le strategie distributive del produttore,  spesso volte a tutelare il marchio e creare una politica di prezzi il più controllata possibile.


1. L'analisi della Commissione Europea sugli impatti dell'e-commerce.

La Commissione Europea ha recentemente svolto un indagine sugli impatti commerciali che l’e-commerce ha sul mercato e sui consumatori, conclusasi con la redazione della “relazione finale sull’indagine settoriale sul commercio elettronico.[1] Qui di seguito alcuni spunti delle conclusioni a cui è giunta la Commissione:

[tramite l’e-commerce è] aumentata la trasparenza dei prezzi [ed] i consumatori sono […] in grado di ottenere e confrontare online immediatamente le informazioni sul prodotto e sul prezzo e di passare rapidamente da un canale (online/offline) all’altro.[2]

[…]

La possibilità di confrontare i prezzi dei prodotti tra diversi rivenditori online comporta un aumento della concorrenza sul prezzo per le vendite sia online che offline[3] ed i modelli di distribuzione alternativi online, quali i marketplace online, hanno consentito ai dettaglianti di raggiungere più facilmente i clienti […] con investimenti e sforzi limitati.”[4] 

Tale analisi dipinge in maniera molto efficace la realtà delle vendite online, che porta sempre più ad una:

  • maggiore trasparenza sui prezzi;
  • maggiore facilità di raggiungere una platea di clienti molto ampia, anche oltre i limiti territoriali eventualmente imposti dal distributore.

2. Può il produttore bloccare le vendite online dei propri distributori? Il regolamento 330/2010.

Consapevole di tali rischi, il produttore, al fine di difendere la propria strategia, di frequente decide di imporre ai propri distributori dei limiti all’utilizzo di tale mezzo, vietando agli stessi di vendere online (talvolta altresì imponendo ai distributori di applicare a loro volta la medesima restrizione ai propri acquirenti), ovvero impedendo di vendere online al di fuori del territorio a loro conferito (in materia cfr. anche Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

A questo punto, la domanda sorge spontanea: può il produttore impedire al proprio distributore di vendere online?

Per rispondere a tale domanda, bisogna partire dall’art. 101, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE). Tale norma vieta gli accordi e le pratiche concordate di imprese “che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”; in tale divieto rientrano gli accordi che impediscono al distributore di vendere a clienti domiciliati al di fuori del territorio.[5]

In ogni caso, la normativa europea ricava delle specifiche eccezioni che sono fissate nel regolamento n. 330/2010  relativo ai cd. “accordi verticali”, ossia gli accordi di distribuzione e di fornitura di beni o servizi conclusi tra imprese operanti ciascuna ad un diverso livello della catena di produzione o di distribuzione. Tale regolamento deve essere interpretato ed integrato alla luce delle Linee Guida della Commissione (LGC), pubblicate il 20 Aprile 2010, che approfondiscono tra l’altro il tema delle restrizioni al commercio elettronico.

La normativa europea qui sopra richiamata vieta all’art. 4 del regolamento accordi che impediscono al distributore di vendere a clienti domiciliati al di fuori del territorio. Ad ogni modo, al fine di evitare che un produttore possa suddividere la propria rete di distributori in differenti territorio, consente limitazioni che abbiano ad oggetto unicamente le cd. “vendite attive[6] nel territorio esclusivo o alla clientela esclusiva riservata al fornitore, non consentendo invece di vietate la cd. “vendite passive.”[7]

Per quanto riguarda le vendite on-line, le Linee Guida (punto 52) specificano che esse devono considerarsi generalmente come “passive”, con la conseguenza che, in linea di principio, non si può impedire ad alcun distributore di utilizzare internet per vendere i propri prodotti. In particolare, è fatto espresso divieto di negoziare accordi in base ai quali il distributore accetti di:

  1. re-indirizzare i consumatori sul sito internet del produttore o di altri distributori dotati di esclusiva territoriale;
  2. interrompere le transazioni online dei consumatori a seguito dell’accertamento della loro area geografica di residenza tramite i dati della loro carta di credito;
  3. limitare la proporzione delle vendite complessive fatte via internet;
  4. versare un prezzo più elevato per i prodotti destinati ad essere rivenduti online rispetto a quelli destinati ai punti vendita tradizionali (punto 52 LGC).

Non è quindi possibile impedire ad un distributore o rivenditore di attivare un proprio sito per la vendita online, né, tantomeno, servirsi per la commercializzazione di piattaforme digitali (ad es. Amazon, E-bay, Alibaba, etc.).[8] Il produttore può trovare i propri prodotti online, messi dal distributore ovvero dal negozio a sua volta rifornito da parte del distributore, senza potere né impedire tale processo, né tantomeno controllarlo (in tema confronta anche articolo “Clausole di esclusiva e accordi economici verticali in ambito europeo: e-commerce ed esclusiva territoriale” del Collega Vittorio Zattra).

Il distributore, comunque, non sarà obbligato ad accettare tutti gli ordini che provengono da parte di clienti che si trovano fuori dal suo territorio: per evitare il rischio che i clienti stranieri possano ritenere che l’offerta sia diretta a loro, per il solo motivo che hanno visibilità della proposta sul loro dispositivo, si consiglia di indicare direttamente nel sito che l’offerta non riguarda vendite che prevedono la consegna della merce all’estero. Tale clausola è in linea anche con il nuovo regolamento 302/2018 sul cd. geoblocking, recante misure volte a impedire i blocchi geografici ingiustificati e altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell'ambito del mercato interno.

Tale regolamento (si accenna qui solo brevemente), si propone di impedire i blocchi geografici ingiustificati o altre forme di discriminazione basate direttamente o indirettamente sulla nazionalità, sul luogo di residenza o stabilimento dei clienti: il regolamento cancella infatti il blocco, ma non obbliga a vendere fuori dal proprio paese o ad avere prezzi uguali per tutta l’Europa.[9]


3. Le sentenze della Corte di Giustizia in materia di vendite online.
3.1. Il Caso Pierre Fabre.

Ad ogni modo, la Corte di Giustizia nel caso Pierre Fabre C‑439/09 ha deciso che il divieto assoluto di utilizzare internet imposto da un produttore ad un distributore, costituisce una restrizione non in linea con le disposizione del regolamento n. 330/2010, a patto che il produttore dimostri che detto divieto non sia oggettivamente giustificato.

Un (altra) domanda sorge spontanea: quando è giustificabile tale restrizione e in che limiti?

3.2. Il caso Coty Germany GmbH.

La Corte nella recente sentenza del 6 dicembre 2017,  C-230/16 Coty Germany GmbH ha chiarito che in un sistema di distribuzione selettiva[10] di prodotti di lusso, un produttore (in questo caso Coty) è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività di vendita online sia realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che venga in tal modo preservata la connotazione lussuosa dei prodotti.

In tal caso la Corte ha deciso che è legittima la clausola che impedisce al rivenditore non tanto di utilizzare internet per vendere/promuovere i beni acquistati dal produttore, ma di commercializzarli attraverso piattaforme digitali quali Amazon e simili. Ciò in quanto la qualità dei prodotti:

non risulta solo dalle loro caratteristiche materiali, ma anche dallo stile e dall’immagine di prestigio che conferisce loro un’aura di lusso, perché tale aura costituisce un elemento essenziale di detti prodotti affinché siano distinti, da parte dei consumatori, da altri prodotti simili.”

Per concludere si può affermare che il produttore/fornitore, una volta autorizzato un distributore a trattare la sua merce, non può impedire che questi utilizzi il commercio elettronico per venderla anche al di là dei confini prestabiliti, invadendo il territorio esclusivo riservato ad altri distributori, purché la richiesta del cliente finale possa considerarsi come spontanea e non specificamente sollecitata dal distributore.

Vi è inoltre la possibilità per il fornitore di imporre, in ogni caso, ai propri distributori alcuni standard qualitativi per la presentazione dei prodotti, o specifiche modalità di vendita coerenti con il proprio sistema distributivo, purché tali condizioni non influiscano direttamente sul quantitativo di merce commerciabile via internet o sui  prezzi praticabili su tale piattaforma.

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[1] Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, relazione finale sull’indagine settoriale sul commercio elettronico del 10.5.2017.

[2] Id. n. 11

[3] Id. n. 12

[4] Id. n. 14

[5] Sul punto Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, Wolters Kluwers, 2016, p. 746 e ss.

[6]  Le LGC, punto 51, definiscono vendite attive: “il contatto attivo con singoli clienti ad esempio per posta, compreso mediante l’invio di messaggi di posta elettronica non sollecitati, o mediante visite ai clienti; oppure il contatto attivo con uno specifico gruppo di clienti, o con clienti situati in uno specifico territorio attraverso inserzioni pubblicitarie sui media o via Internet o altre promozioni specificamente indirizzate a quel gruppo di clienti o a clienti in quel territorio.

La pubblicità o le promozioni che sono interessanti per l’acquirente soltanto se raggiungono (anche) uno specifico gruppo di clienti o clienti in un territorio specifico, sono considerati vendite attive a tale gruppo di clienti o ai clienti in tale territorio.”

[7] Le LGC, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio.

Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori”.

[8] Sul punto cfr. Stefano Dindo, E-Wine, Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino online, G. Giappichelli Editore, p. 47, 2018.

[9] Sul punto cfr. Stefano Dindo, E-Wine, Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino online, G. Giappichelli Editore, p. 41, 2018.

[10] Non vi è una definizione di distribuzione selettiva, ad ogni modo già con la sentenza Metro, Corte di Giustizia, 25.9.1977, indica i criteri per poterla individuare: a) deve trattarsi di prodotti per la loro qualità o contenuto tecnologico richiedono un sistema distributtivo selettivo, che ne tuteli la qualità e l’uso corretto; b) la scelta dei distributori avviene secondo criteri oggettivi di carattere qualitativo; c) i criteri definiti non devono andare oltre i limiti del necessario.


Area manager

Agente e/o Area Manager? Una breve panoramica.

Quando una società intende organizzare in maniera strutturata la propria rete vendita, ha spesso la necessità di affidarsi non solo ad una pluralità di agenti, ma altresì assicurarsi che questi siano tra loro organizzati gerarchicamente e vengano coordinati da parte di un soggetto che svolga un'attività di supervisione: l'area manager.

La funzione di coordinamento di agenti di commercio spesso viene assegnata dall’azienda ad un Area Manager (detto anche capo-area o coordinatore/supervisore di zona), a cui vengono affidate le più svariate mansioni: può essergli richiesto di affiancare gli agenti all’inizio del rapporto e controllare il loro operato; coordinare la rete vendita nell’area assegnata, che può essere composta sia da agenti, ma anche da venditori diretti o rivenditori; oppure selezionare e reclutare agenti andando così a creare/implementare una rete distributiva all’interno della zona affidatagli.

Stante la molteplicità di funzioni che possono essere attribuite ad un Area Manager, tale figura non è agevolmente inquadrabile; inoltre, nonostante il ruolo fortemente strategico che questi ricopre, di frequente viene sottovalutata l’importanza di delineare in maniera adeguata il rapporto di collaborazione, con la consapevolezza di quelli che potrebbero essere i rischi legati ad una gestione non scientemente ponderata.


1. Area manager: lavoratore autonomo oppure agente di commercio?

Prima di iniziare ad instaurare il rapporto, bisognerebbe avere ben chiaro in che modo si intende inserire tale figura all'interno della rete di distribuzione dell'azienda: dipendente, lavoratore autonomo, oppure agente di commercio?

Bisognerebbe porsi tali domande non solo prima di contrattualizzare la collaborazione, ma anche in fase di sviluppo: spesso accade che un Area Manager, inquadrato come agente, a seguito della chiusura del rapporto, ne rivendichi la natura subordinata, asserendo (e dimostrando) che la collaborazione ha sempre presentato le caratteristiche tipiche del lavoro dipendente[1]. In caso di vertenza è pacifico che, indipendentemente da quello che è il nome iuris che le parti hanno conferito al rapporto, il Giudice è chiamato ad inquadrarlo in base alle modalità in cui le parti lo hanno effettivamente “vissuto” (sul punto cfr. differenze tra agente e lavoratore dipendente).

Ne consegue che la creazione di una struttura gerarchico piramidale, strutturata in modo tale da incidere fortemente sull’autonomia di scelta dell’Area Manager, può comportare il rischio che tra le parti si instauri un (spesso non voluto…) rapporto di natura subordinata.

Tra gli elementi caratterizzanti della natura subordinata della collaborazione, vi è, ad esempio, l’imposizione all’Area Manager di obblighi di visita troppo stringenti, l’impartizione di costanti istruzioni sulla gestione degli agenti da questi coordinati, ovvero un obbligo di report molto frequente.[2]

La Corte ha altresì ritenuto avere natura di rapporto di lavoro subordinato, quello di un Area Manager inquadrato come agente, ma che non svolgeva quasi alcuna attività di promozione diretta, limitandosi a coordinare ed indirizzare gli agenti a questo sottoposti. Questi veniva retribuito con un fisso mensile, qualificato quale anticipo sulle provigioni, a fronte di provvigioni che di fatto erano praticamente nulle (5.400 lire in 10 mesi di attività).[3]

Diversamente, la Corte ha escluso la natura subordinata del rapporto di un coordinatore di un gruppo di agenti commerciali, ove le parti avevano pattuito un compenso mensile anticipato, da conguagliarsi con le provvigioni realmente maturate, oltre ad una quota delle provvigioni che avrebbero maturato gli agenti commerciali del gruppo sottoposto al suo coordinamento. La Corte ha riconosciuto in tale struttura sia l’attività effettiva di coordinamento, ma anche quella di promozione, tipica dell’agente, con l’allocazione in capo a quest’ultimo di un

rischio nell'attività dell’[agente], rappresentato dalla insicurezza del livello delle provvigioni.”[4]

Qualora non sussistano i caratteri tipici della subordinazione qui sopra brevemente riportati, è necessario in primo luogo chiarire che l’attività di Area Manager non sia incompatibile con quella di agente di commercio[5]; ad ogni modo se questi svolge unicamente l'attività di coordinamento/supervisione, senza di fatto promuovere in maniera attività le vendite nella zona affidatagli, non potrà essere inquadrato come agenzia.[6]

Tale principio viene costantemente ribadito dalla Giurisprudenza, che afferma che l’attività di promozione della conclusione di contratti, che costituisce obbligazione tipica dell’agente ex art. 1742 c.c., non può consistere in una semplice attività né di mero controllo, né tantomeno di “propaganda, seppure da questa derivi un incremento delle vendite (cfr. anche: Obblighi dell’agente. È sufficiente una semplice attività di propaganda?). Sul punto si legge:

L'attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l'obbligazione tipica dell'agente, [...] non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell'attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all'agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine”[7]

In ogni caso, l'attività di promozione non deve essere intesa unicamente come attività di ricerca del cliente finale, che può essere stato acquisito anche su indicazione del preponente (o in qualsiasi altro modo),

purché sussista nesso di causalità tra l'opera promozionale svolta dall'agente nei confronti del cliente e la conclusione dell'affare cui si riferisce la richiesta di provvigione (In applicazione di tali principi, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di un contratto di agenzia tra le parti, atteso che la ricorrente aveva l'incarico di creare una rete commerciale mediante il reclutamento e la formazione di agenti, nonché di svolgere attività di propaganda e supporto nei loro confronti, senza tuttavia incidere in alcun modo sui singoli affari conclusi dagli agenti stessi con i clienti). (Cass. Civ. 2018, n. 20453)

Pertanto, a rigore, non essendo l’attività di controllo e coordinamento degli agenti un’attività di “promozione” di conclusione di contratti, l’Area Manager che svolge unicamente tale compito non può ritenersi essere un agente di commercio.[8] Per inquadrare l'Area Manager quale agente di commercio, questi dovrà affiancare all'attività di coordinamento, quella di promozione di affari in via diretta, ovvero in collaborazione con gli agenti assegnati (o da lui selezionati);[9] certamente sarà più facile considerarlo agente, ove la seconda attività abbia carattere se non preponderante, comunque significativo.


2. La natura accessoria dell'incarico di area manager.

Ciò premesso, nel caso in cui l'Area Manager svolga in maniera prevalente l'attività di promozione e sia pertanto inquadrabile come agente, l'attività di coordinamento ha natura accessoria, rispetto a quella di agente. Sul punto la Cassazione si è più volte espressa: [10]

il rapporto tra contratto di agenzia ed incarico accessorio di supervisione deve essere ricostruito attraverso lo schema del collegamento negoziale, con vincolo di dipendenza unilaterale.”

Stante la natura accessoria del rapporto di coordinatore, rispetto a quello di agente, una delle conseguenze principali di tale interdipendenza univoca, è che in caso di scioglimento del contratto principlale (agenzia), il contratto accessorio (coordinamento), seguirà

"la sorte del contratto principale cui accede [11][…].

Contrariamente, in caso di revoca del contratto accessorio (quindi quello di coordinatore),

"proprio in quanto riferito ad un rapporto contrattuale distinto da quello di agenzia, non può dispiegare alcun effetto su quest’ultimo, né sotto il profilo della pretesa inadempienza del preponente revocante agli obblighi discendenti dal contratto di agenzia, né dall’angolo visuale di una pretesa carenza di interesse del medesimo preponente alla prosecuzione del rapporto di agenzia[11].”

Dirette (e tutt’altro che secondarie) conseguenze della natura accessoria dell’incarico di Area Manager rispetto al contratto di agenzia sono essenzialmente due:


2.1. L'obbligo del preavviso e relativa indennità.

Con riferimento all’obbligo del preavviso (e conseguente diritto all'indennità di mancato preavviso) in caso di revoca unicamente dell'incarico di Area Manager, la Corte:

ha escluso che fosse configurabile nell'ordinamento una regola generale di sistema che, nei rapporti contrattuali a durata indeterminata, imporrebbe la concessione di un periodo di preavviso (ovvero la corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso stesso) in ogni caso di recesso di una delle parti, salvo che non si rinvenga una deroga convenzionale che escluda un siffatto obbligo per il recedente", e che ciò si desumerebbe proprio dal fatto che, solo per alcune figure tipiche di contratto di durata, la legge subordina la validità del recesso alla concessione all'altra parte di un periodo di preavviso, e salva, in ogni caso, la valutazione sul rispetto dei doveri imposti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. nell'esecuzione del contratto.[11]


2.2. Area manager e quantificazione dell'indennità di fine rapporto.

Quanto all’indennità di fine rapporto:

non ha alcun supporto normativo, e neanche contrattuale, la pretesa […] di applicazione, all'incarico accessorio, della disciplina dettata dall'art. 1751 c.c. per il contratto base di agenzia.

La natura accessoria di tale rapporto, da cui scaturisce un compenso non provigionale che non incide né sull’indennità di preavviso, né tanto meno sull’indennità di fine rapporto, si evince anche indirettamente da una lettura degli AEC. L’art. 6 comma 4 dell’AEC industria 2014, stabilisce infatti che:

Nel caso in cui sia affidato all’agente o rappresentante l’incarico di coordinamento di altri agenti in una determinata area, purché sia specificato nel contratto individuale, dovrà essere stabilità una provvigione separata o uno specifico compenso aggiuntivo, in forma non provigionale.”

L’art. 4, comma 11 dell’AEC Commercio 2009, estende questo regime a tutte le attività accessorio svolte dall’agente:

Nel caso in cui sia affidato all’agente o rappresentante l’incarico continuativo di riscuotere per conto della casa mandante, con responsabilità dell’agente per errore contabile, o di svolgere attività complementari e/o accessorie rispetto a quanto previsto dagli artt. 1742 e 1746 c.c., ivi comprese quelle di coordinamento di altri agenti in una determinata area, purché siano specificate nel contratto individuale, dovrà essere stabilità uno specifico compenso aggiuntivo, in forma non provigionale.

____________________________________________________

[1]  Cfr. sul punto Cass. Civ. 2004, n. 9060.

[2] Sul punto cfr. Perina – Belligoli, Il rapporto di agenzia, G. Giappichelli Editore, 2014, pag. 21 e ss.

[3] Cass. Civ. 1998, n. 813.

[4] Cass. Civ. Cass. 2002, n. 17534.

[5] Cass. Civ. 1990, n. 2680 “Il rapporto di agenzia - che è di natura autonoma - non è incompatibile […] con l'obbligo dell'agente di visitare e di istruire altri collaboratori, con la circostanza che il preponente si avvalga di una pluralità di agenti organizzati gerarchicamente fra loro, con l'obbligo del preponente medesimo di rimborsare talune spese sostenute dall'agente, e neppure con l'obbligo di questi di riferire quotidianamente al preponente.

[6] In dottrina sul punto cfr. Bortolotti, contratti di distribuzione, Wolters Kluvers, 2016, pag. 109. Cfr. anche Tassinari&Sestini, Area manager in formato agente di commercio, ci sta?

[7]Tribunale Vicenza, 22.3.2018, conforme anche Cass. Civ. 4.9.2014 n. 18690.

[8] In Dottrina, Bortolotti, op. cit., pag. 109.

[9] Cass. Civ. 2007, n. 18303 “Pur essendo irrilevante il "nomen iuris" assegnato dalle parti ad un contratto, nondimeno ai fini della ricostruzione dell'intento degli stipulanti, secondo le norme degli art. 1362 cod. civ. e seguenti, anche la qualificazione è parte delle parole usate e contribuisce ad offrire elementi per ricostruire la comune intenzione dei contraenti.

In particolare, dovendosi procedere a verificare la corrispondenza del "nomen" con il contenuto negoziale, va ritenuta compatibile con la nozione legale di agenzia sia la previsione dello svolgimento dell'attività di promozione svolta dall'agente avvalendosi, a sua volta, di altri agenti coordinati e controllati, sia la carenza di una formale ed espressa indicazione della zona di espletamento dell'incarico, allorché tale indicazione sia per altro verso evincibile dal riferimento all'ambito territoriale in cui le parti operano al momento dell'instaurazione del rapporto. (Rigetta, App. Trieste, 8 Ottobre 2004)”; Cass. Civ. 1998 n. 813; in Dottrina Perina – Belligoli, op. cit., pag. 22.

[10] Cass. Civ. 2005, n. 19678.

[11] Cass. Civ. 2018, n. 16940; Cass. n. 14436 del 2000.


procacciatore d'affari

Procacciatore d'affari e provvigioni: quando il diritto alle provvigioni è subordinato alla comunicazione di inizio attività

Con una recente sentenza le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che che chi esercita l'attività di procacciatore d'affari senza avere comunicato l'inizio attività è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite.

Il ragionamento della Corte è assai complesso e tortuoso a causa di un assai tortuoso e poco lineare tessuto normativo.

Per comprendere i motivi che hanno spinto le Sezioni Unite ad affermare che il diritto alle provvigioni del procacciatore d'affari è subordinato all'obbligo di inizio attività, bisogna fare qualche passo indietro e ripercorrere quello che è stato il percorso normativo che ha disciplinato una figura assai analoga al procacciatore d'affari, ossia il mediatore, e quindi comprendere come tali interventi normativi possano avere avuto ripercussioni così gravi sui procacciatori stessi.

1. L'abolizione del ruolo dei mediatori.

Fino al 2010 il ruolo dei mediatori era disciplinato dall’art. 2 L. 1989/39, che imponeva l'obbligo di iscrizione a tutti i soggetti che svolgevano attività di mediazione, anche se in modo discontinuo o occasionale. Il ruolo era suddiviso in tre sezioni:

  • una per gli agenti immobiliari,
  • una per gli agenti merceologici ed
  • una per gli agenti muniti di mandato a titolo oneroso.

L’art. 73 del D. Lgs 26.03.2010, n. 59 ha abrogato l’art. 2 della L. 1989/39, andando così a sopprimere i ruoli qui sopra elencati.

A seguito di tale modifica legislativa lo svolgimento dell’attività di mediatore immobiliare è unicamente condizionata alla:

  • DIA (Dichiarazione Inizio Attività) – ora SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) – corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti;
  • verifica dei requisiti da parte della Camera di Commercio territorialmente competente e conseguente iscrizione dei mediatori nel RI (Registro delle Imprese) se l’attività è svolta in forma di impresa, ovvero in un’apposita sezione del REA (Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative).

Posto che il D.lgs. 2010/59 ha soppresso il ruolo dei mediatori, ma non ha abrogato integralmente la Legge 1989/39, ci si è chiesti come dovesse essere interpretato l’articolo 6 di tale testo normativo, che subordina il diritto del mediatore alla provvigione, alla sua regolare iscrizione al ruolo. L'art. 6 così recita:

"hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli".

La Giurisprudenza maggioritaria[1] si è espressa, affermando che hanno diritto a ricevere la provvigione solo i mediatori che abbiano segnalato l'inizio della propria attività alla Camera di Commercio competente e siano stati regolarmente iscritti nei registri delle imprese o nei repertori tenuti da tale Ente. Si legge, infatti, che:

la L. n. 39 del 1989, art. 6, secondo cui <hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli>, va interpretata nel senso che, anche per i rapporti di mediazione sottoposti alla normativa prevista dal D.Lgs. n. 59 del 2010, hanno diritto alla provvigione solo i mediatori che siano iscritti nei registri delle imprese o nei repertori tenuti dalla camera di commercio.”

2. Differenza tra procacciatore d'affari e mediatore.

Ciò chiarito, ci si è chiesti se a tale obbligo di segnalazione dovessero essere assoggettati unicamente i mediatori, ovvero anche i procacciatori d'affari, che di fatto svolgono attività di intermediazione.

Prima di dare una risposta a tale quesito è necessario comprendere brevemente la distinzione tra mediatore e procacciatore d’affari. Ai sensi dell’art. 1754 c.c., mediatore, è colui che

mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza”.

Il mediatore svolge, pertanto, la propria attività senza vincoli ed incarichi, in una posizione di imparzialità ed autonomia.[2]

Contrariamente, il procacciatore d’affari agisce in quanto incaricato da una delle parti, venendo così meno il requisito dell’indipendenza. Una sentenza del 2016 della Corte di Cassazione, che conferma un orientamento ormai consolidato, distingue le due figure asserendo che:

la mediazione ed il contratto atipico di procacciamento d'affari si distinguono sotto il profilo della posizione di imparzialità del mediatore rispetto a quella del procacciatore il quale agisce su incarico di una delle parti interessate alla conclusione dell'affare e dalla quale, pur non essendo a questa legato da un rapporto stabile ed organico (a differenza dell'agente) può pretendere il compenso.  

La Corte prosegue, analizzando anche ciò che accomuna tali figure, ossia:

“l'elemento della prestazione di una attività di intermediazione finalizzata a favorire fra terzi la conclusione degli affari.

La Giurisprudenza ha considerato che entrambe le figure svolgono di fatto attività di “intermediazione”, ha inquadrato il procacciatore d'affari come mediatore "atipico", che si distingue dal mediatore c.d. tipico, appunto per il carattere della "parzialità".

Stante l'inserimento del procacciatore nella "categoria dei mediatori", è sorta consequenziale la seguente domanda: il procacciatore deve anch'esso adempiere all’obbligo di comunicazione di inizio attività? La questione non era (e non è) priva di conseguenze pratiche, posto che, come si è già qui sopra accennato, la mancata segnalazione di inizio attività alla Camera di Commercio competente, fa venire meno, ex art. 6 L 1989/39, al diritto del mediatore alle provvigioni.

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, che con sentenza n. 19161 2017, in primo luogo hanno confermato essere:

configurabile, accanto alla mediazione ordinaria, una mediazione negoziale cosiddetta atipica, fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche a una sola soltanto delle parti interessate (c.d. mediazione unilaterale).

In secondo luogo hanno altresì affermato che:

“proprio per il suo estrinsecarsi in attività di intermediazione, rientra nell’ambito di applicabilità della disposizione prevista dall’art. 2, comma 4, della legge 39/89, che, per l’appunto, disciplina anche ipotesi atipiche di mediazione per il caso il cui oggetto dell’affare siano beni immobili o aziende.

Contrariamente, ove oggetto dell’affare siano i beni mobili:

l’obbligo di iscrizione sussiste solo per chi svolga la detta attività in modo non occasionale e quindi professionale o continuativo.

Pertanto, l'obbligo di iscrizione ai registri dei mediatori, si estende anche a tutti i procacciatori d'affari che svolgono attività di intermediazione di beni immobili o aziende (anche occasionalmente), ovvero di beni mobili (in via professionale).

La sanzione per la mancata segnalazione è piuttosto rigida, ed è disciplinata dall'art. 8 L. 1989/39:

Chiunque esercita l'attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma compresa tra lire un milione e lire quattro milioni ed è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite."

3. Differenza tra agente di commercio e mediatore.

A questo punto, si ritiene opportuno effettuare una brevissima analisi della distinzione tra agente di commercio e mediatore, che viene così riassunta dalla sentenza delle Sezioni Unite oggetto di esaminata:

[il mediatore]agisce in posizione di terzietà rispetto ai contraenti posti in contatto, a tale stregua differenziandosi dall'agente di commercio, che attua invece una collaborazione abituale e professionale con altro imprenditore.”

Il motivo per cui ci si sofferma su questa distinzione è volta a sottolineare il fatto che, seppure anche l'agente di commercio sia tenuto a segnalare l'inizio della propria attività (l'art. 74 della Legge 2010/59, ha abrogato oltre al ruolo dei mediatori, anche quelli degli agenti), l’inadempimento a tale onere non comporta il venir meno al diritto alle provvigioni: non è infatti prevista nella Legge 1985/204, che disciplina appunto l'attività degli agenti di commercio, una sanzione simile o paragonabile a quella oggetto di esamina del presente articolo.

- Leggi anche: Differenze tra contratto di agenzia e procacciatore d'affari.

Tenendo conto di tale sostanziale differenza tra agente e mediatore (tipico o atipico), si consiglia di verificare con il proprio consulente, nel caso in cui un preponente contestasse al procacciatore il versamento delle provvigioni per la mancata iscrizione al registro dei mediatori, se l’attività svolta dal procacciatore debba effettivamente considerarsi tale ovvero, contrariamente, debba essere ritenuta un’attività di agenzia “camuffata” da attività di procacciatore d’affari.

_________________________

[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 762 del 2014; Cass. Civ. n. 10125 del 2011, Cass. Civ. n. 16147 del 2010.

[2] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 16382 del 2009.


esclusiva non concorrenza contratto concessione di vendita

L’obbligo di esclusiva e il patto di non concorrenza nel contratto di concessione di vendita.

L'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.

Il concedente non può impedire che i concessionari esclusivi di zona eseguano vendite passive al di fuori del territorio loro affidata.

1. Concessione di vendita ed esclusiva

In un rapporto di concessione di vendita, per "esclusiva", deve intendersi l’obbligo da parte del concedente di rifornire unicamente il concessionario determinati prodotti nella zona affidatagli.

Seppure tale obbligazione rientra tra le pattuizioni più spesso utilizzate, essa non costituisce una parte essenziale dell'accordo e, pertanto, non è necessaria affinché il rapporto tra concessionario e concedente possa essere considerato valido.[1]

Pertanto, se le parti non l'hanno espressamente pattuita nel contratto, non  si può né dedurre che essa sussista per il solo motivo che sia stato stipulato un contratto di concessione di vendita, né, tantomeno, per il fatto che al concessionario sia stata affidata una zona (non è per nulla insolito, infatti, che un concessionario agisca in una determinata zona affidatagli, ma senza esclusiva).[2] Sul punto, si legge in Giurisprudenza che:

l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.”

Ad ogni modo, non è escluso che le parti possano comunque dimostrare che tale obbligo sussista anche in assenza di un contratto scritto e provare per testi che, ad esempio, tale obbligazione derivi da un accordo verbale, oppure la stessa si evinca dallo sviluppo effettivo del rapporto (cfr. in tema di agenziaonere della prova nei contratti di agenzia). Sul punto una sentenza del 2007 della Corte d’Appello di Cagliari ha ritenuto che:

Nella concessione di vendita l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario costituisce un elemento accidentale e non essenziale del contratto, ma la sua esistenza, qualora il contratto non rivesta la forma scritta, può essere provata per testimoni e con ogni altro mezzo idoneo (nel caso di specie l'esistenza della clausola di esclusiva è stata desunta, tra l'altro, dalla circostanza che la casa madre rifiutasse rapporti diretti con i terzi indirizzandoli verso il concessionario, dalla pubblicità sulle pagine gialle e dalla mancanza di altri concessionari nella zona).

Nel caso le parti non avessero indicato l’ambito di applicazione dell’esclusiva, essa deve ragionevolmente intendersi estesa all’intera zona affidata al concessionario; quanto ai prodotti, invece, la stessa dovrà riferirsi ai prodotti contrattuali.[3]

2. Vendite passive fuori dal territorio.

Ciò premesso, ci si domanda se il concedente, che si è impegnato a vendere in esclusiva determinati prodotto ad un concessionario esclusivo di zona (ad es. Lombardia e Piemonte), possa vendere gli stessi prodotti a soggetti fuori dal territorio, sapendo che gli stessi (potenzialmente) potrebbero rivenderli nel territorio del concessionario stesso. La Cassazione, in un orientamento più “datato” ha ritenuto che:

il patto di esclusiva comporta, con riferimento alla zona contemplata e per la durata del contratto, il divieto di compiere, non solo direttamente, ma anche indirettamente, prestazione della stessa natura di quelle formanti oggetto del contratto. […] Il divieto di commerciare […] gli stessi prodotti nella zona riservata, […] imponeva al concedente – in conformità al dovere di correttezza che costituisce il limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva contrattualmente attribuita – di astenersi da ogni comportamento idoneo ad incidere sul risultato perseguito.

Tale orientamento deve essere comunque aggiornato e “calato” in un nuovo assetto normativo, in linea con le disposizione di cui al regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione europea, in tema di accordi tra imprese che operano a livelli differenti della catena di produzione e distribuzione (accordi verticali).

In particolare, l’art. 4 del Regolamento, sancisce che non è considerato illecito impedire all’acquirente di effettuare vendite attive in territori o gruppi di clienti che il fornitore riserva a se stesso, ovvero attribuisce in esclusiva ad un altro acquirente, purché la restrizione non limiti anche le vendite da parte dei clienti dell’acquirente.

Per meglio comprendere detta norma, è importare effettuare una breve distinzione tra vendite attive e vendite passive: semplificando, una vendita passiva, può essere definita come un “acquisto”, in quanto l’iniziativa viene presa dall’acquirente;[4] la vendita attiva, invece, è una conseguenza di una strategia imprenditoriale e di azioni di marketing mirate.

Alla luce delle previsioni qui sopra brevemente riportate, un concedente può certamente creare una rete esclusiva, definendo i territori in cui i propri concessionario possono promuovere e commerciare i propri prodotti, ma limitando tali restrizioni unicamente alle vendite attive. Il concedente non può, pertanto, impedire che i concessionari esclusivi di zona non accettino ed eseguano vendite passive nei confronti di soggetti estranei alla zona a loro affidata; ciò che invece è possibile escludere e impedire è che il concessionario di zona, effettui delle vendite attive, che sono il risultato di campagne marketing o strategie commerciali eseguite al di fuori del proprio territorio.

Il concedente ha comunque un obbligo di controllo sulla rete dei propri concessionari (salvo che tale obbligo non sia contrattualmente escluso[5]) , potendo ritenersi responsabile di eventuali violazioni di esclusiva all’interno della sua rete di distribuzione e, in alcuni casi, addirittura “intervenire per contrastare il comportamento degli altri concessionari.[6]

Da ultimo, si sottolinea che la violazione del diritto di esclusiva:

si configura come comportamento contrario ai doveri di correttezza e buona fede e costituisce grave inadempimento contrattuale da cui consegue la risoluzione del contratto.

3. Concessione di vendita e obbligo di non concorrenza

Quanto, invece, all'obbligo di non concorrenza da parte del concessionario, anch'esso non costituisce un elemento naturale del contratto e, quindi, in assenza di previsione espressa, il concessionario sarà libero di trattare prodotti concorrenti.[7] Come per il patto di esclusiva, le parti possono comunque dimostrare per testimoni la sussistenza di tale obbligo.

Resta comunque fermo l’obbligo del concessionario di svolgere la propria attività in linea con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potendo svolgere attività che possa danneggiare il mercato, il marchio e il commercio del concedente.

Circa la durata del patto di non concorrenza del concessionario, essa non è sottoposta ai limiti (cinque anni) imposti dall’art. 2596 c.c., in quanto non applicabile alla disciplina in esame.[8]

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[1] Appello Cagliari, 11/04/2007; Cass. Civ. 2004 n. 13079; sul punto cfr. Baldi – Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, 2014, pag. 135, GIUFFRÈ.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 13079; Cass. Civ. 1994, n. 6819; Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 552, WOLTERS KLUWER.

[3] BORTOLOTTI, pag. 553, op. cit.

[4] http://www.impresapratica.com/internet-marketing/vendita-attiva-o-passiva/

[5] Trib. Bologna 4.5.2012.

[6] Cass. Civ. 2003 n. 18743.

[7] BORTOLOTTI, pag. 557, op. cit.

[8] Cass. Civ. 2000, n. 1238.


Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

"Il contratto di concessione di vendita non è regolato dalla legge italiana e segue le norme generali sui contratti, con applicazione di alcuni principi in tema di mandato e somministrazione. Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, non può essere sciolto in anticipo salvo gravi inadempienze; se a tempo indeterminato, può essere sciolto unilateralmente con congruo preavviso. Il termine di preavviso, se non pattuito, viene determinato in base alla durata del contratto e agli investimenti effettuati; qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità.

Posto che il contratto di concessione di vendita non è espressamente regolato dal nostro ordinamento, si applicano allo stesso i principi generali previsti in materia di contratti, ponendo comunque particolare attenzione alle disposizioni previste per il contratto di somministrazione (1559 e ss. c.c.) e di mandato (1703 e ss. c.c.), tipologie negoziali molto vicine a quella in esame.

Qualora il contratto di concessione sia stato stipulato a tempo determinato, esso durerà fino alla naturale scadenza non potendo quindi essere sciolto anticipatamente in via unilaterale da una delle parti, salvo il caso di (grave) inadempimento.[1]

Contrariamente, qualora il contratto di concessione di vendita abbia durata indeterminata, esso potrà essere sciolto unilateralmente, senza la necessità di invocare una giusta causa, ma previa concessione di un congruo preavviso. Dottrina e giurisprudenza giungono a tale conclusione, sia in applicazione analogica dei principi dettati in tema di somministrazione (art. 1569 c.c.)[2] e mandato (art. 1725 c.c.),[3] ma altresì poggiandosi alle disposizioni generali dell’ordinamento in ambito di recesso unilaterale ed in applicazione dei principi di buona fede ex art. 1375 c.c.

Un rilevante problema si apre in merito all’individuazione della durata del preavviso, in tutti quei casi in cui le parti non lo abbiano pattuito contrattualmente; tale evenienza può riscontrarsi non solamente qualora i contraenti non abbiano pensato di regolamentare tale questione in sede di redazione del contratto quadro, ma anche nella ben più complessa situazione, in cui il rapporto tra le parti, partito come rapporto di semplice acquirente venditore, si è di fatto nel tempo “trasformato” in un contratto di vera e propria distribuzione (sul punto, confronta l’articolo Concessione di vendita, distributore o cliente abituale? Differenze, elementi caratterizzanti e criteri interpretativi).

Per comprendere cosa si intenda per congruo preavviso e, quindi, per dare un valore temporale a questo termine, bisogna fare riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] pertanto il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Per dare un taglio più pratico a tale tematica, si elencano qui sotto alcuni casi decisi dalla giurisprudenza, ove è stato ritenuto come:[6]

  • congruo un termine di 18 mesi, con riferimento ad un contratto durato 25 anni circa;[7]
  • non congruo un termine di 6 mesi (sostituito poi con uno di 12 mesi), per un contratto di 10 anni di durata;[8]
  • congruo un preavviso di 3 mesi in relazione ad un contratto di 26 mesi.[9]

In altre situazioni la giurisprudenza ha applicato quale parametro di riferimento il periodo di preavviso previsto dalle disposizioni in ambito di agenzia.[10]

Qualora invece le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso, la giurisprudenza maggioritaria è concorde nel ritenere che si debba comunque fare riferimento a tale termine, anche se molto breve, ritenendo che il Giudicante non possa svolgere alcuna valutazione sulla congruità del preavviso concordato dalle parti.[11]

Con riferimento a tale specifica questione, ossia in ordine alla sindacabilità del termine di preavviso concordato dalle parti, è sicuramente importante tenere presente una rilevante pronuncia della Cassazione del 18 settembre 2009,[12] che ha sancito una serie di interessanti principi. Nel merito, la controversia è stata promossa da una associazione creata da diversi ex concessionari d’auto, nei confronti della casa madre Renault, la quale aveva risolto i rapporti contrattuali con detti concessionari concedendo come termine di preavviso il periodo di 1 anno, in conformità delle disposizioni contrattuali; i concessionari chiedevano la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto. Tale procedimento è stato respinto in primo e secondo grado, ma accolto in ultima istanza da parte della Corte, la quale ha ritenuto che non si possa escludere la possibilità del giudicante di valutare se il diritto di recesso ad nutum sia stato esercitato secondo buona fede, ovvero, contrariamente, possa essere configurabile un esercizio abusivo di tale diritto. La Cassazione è giunta a tale conclusione tramite l’utilizzo del criterio della buona fede oggettiva, che deve considerarsi quale “canone generale cui ancorare la condotta delle parti.[13]

Suddetto orientamento è stato contestato da parte dalla dottrina,[14] che ha ritenuto debba essere considerato con la massima prudenza”. A conferma di ciò il fatto stesso che:

“anche dopo tale sentenza non ci risultano essere stati casi di applicazione concreta di tale principio da parte della giurisprudenza; è auspicabile, che la nozione di abuso del diritto continui ad essere applicata solo in casi estremi e giustificati.”

Contrariamente, non ci sono dubbi sulla validità del recesso in tronco, e quindi senza la concessione di un preavviso, in caso di giusta causa.[15]

Quanto all’apposizione nel contratto di distribuzione di una clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la stessa possa essere validamente inserita nell’accordo (contrariamente a quelle che sono gli orientamenti in tema di contratto di agenzia).

Qualora il rapporto venga sciolto in tronco senza giusta causa, la parte che ha provveduto a terminare il rapporto è tenuta a risarcire il danno al soggetto che ha subito tale iniziativa. Al fine del calcolo del danno, bisognerà tenere conto dei guadagni che il concessionario avrebbe presumibilmente ottenuto nella parte residua del contratto (sulla base dello storico del fatturato) ovvero delle spese sostenuto dal concessionario per l’organizzazione e la promozione delle vendite in previsione della maggiore durata del rapporto.

La giurisprudenza è invece unanime nel ritenere che l’indennità di risoluzione del rapporto in favore del concessionario debba essere esclusa e non possono applicarsi a tale tipologia contrattuale le disposizioni in ambito di agenzia.[16]

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[1] Cass. Civ. 1968 n. 1541.; in dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 139, CEDAM. 

[2] È convinzione unanime in dottrina che alla fattispecie possa applicarsi analogicamente l’art. 1569 c.c., relativo appunto al contratto di somministrazione, secondo cui ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza che sia necessario invocare al riguardo una giusta causa (cfr. sul punto I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET)

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013;

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET

[6] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 564, Wolters Kluver.

[7] Trib. Treviso 20 novembre 2015 in Leggi d’Italia.

[8] Trib. Napoli 14 settembre 2009 in Leggi d’Italia.

[9] Trib. Bologna 21 settembre 2011 in Leggi d’Italia.

[10] Trib. Bergamo 5 agosto 2008 in Agenti e Rappresentanti di commercio 2010, n. 1, 34.

[11] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni).

[12] Cass. Civ. 2009, n. 20106.

[13] Cass. Civ. 18.9.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[14] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 565, Wolters Kluver

[15] Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013

[16] Trib. Trento 18.6.2012; Cass. Civ. 1974 n. 1888; Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 567, Wolters Kluver; Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 153, CEDAM


Il patto di non concorrenza post contrattuale del lavoratore dipendente, autonomo, amministratore, socio ed agente. Una breve panoramica.

Il patto di non concorrenza post-contrattuale è sicuramente un elemento molto delicato in un rapporto di lavoro e che, in base al soggetto destinatario di tale obbligazione, presenta differenti requisiti di forma e di sostanza. Con il presente articolo si intende fornire al lettore, una panoramica di tale istituto, andando ad analizzare brevemente come e con che limiti tale vincolo possa legare il lavoratore dipendente, il lavoratore autonomo, l'amministratore, il socio e l'agente di commercio.

  1. Lavoratore dipendente

Il patto di non concorrenza del lavoratore dipendente è disciplinato all’art. 2125 c.c. Tale articolo dispone espressamente che il patto deve a pena di nullità:

  1. a)  essere stipulato in forma scritta;
  2. b)  stabilire un vincolo contenuto entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo;
  3. c)  prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore.

Con riferimento al punto a) non ci sono questioni particolari da affrontare. Il patto dovrà̀ essere sottoscritto (e preferibilmente siglato su ogni pagina) da parte del lavoratore. Inoltre, seppure secondo la giurisprudenza tradizionale, il patto di non concorrenza non richiede la doppia sottoscrizione ex. art.13.41 c.c.[1], si consiglia comunque, prudenzialmente, di apporre una specifica approvazione per iscritto di tale impegno post contrattuale onde evitare eventuali contestazioni, anche in vista di un eventuale mutamento dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.

Quanto al punto b), i limiti temporali del patto postcontrattuale vengono definiti dal secondo comma dell’art. 2125 c.c. in 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri casi. Si tiene a sottolineare che i termini indicati dal 2125 c.c. costituiscono i limiti massimi di durata del patto e la corresponsione del compenso dovuto al lavoratore deve essere anch’esso calibrato sull’effettiva durata del patto concordata tra le parti.

La valutazione della congruità del luogo entro cui è vietata l’attività è in stretto collegamento con l’oggetto dell’attività che viene svolta dal dipendente e, a tal fine, l’indicazione di uno spazio troppo ampio può comportare la nullità del patto stesso. Sul punto, si riscontrano precedenti giurisprudenziali controversi, una parte della giurisprudenza ritiene infatti che il patto esteso all’intero territorio nazionale sia nullo, in quanto eccessivamente limitativo della possibilità di reimpiego del lavoratore.[2] Altre pronunce, invece, hanno considerato validi patti estesi a tutto il territorio comunitario,[3] in quanto l’attività era stata puntualmente specificata in modo da non limitare eccessivamente la capacità lavorativa e professionale del dipendente.

Circa invece la quantificazione del compenso, la giurisprudenza assume quale criterio valutativo la congruità dello stesso al sacrificio sopportato dal lavoratore nel singolo caso di specie[4], ritenendo che la somma corrisposta al lavoratore debba essere ad esso proporzionata.[5]

È chiaro che, essendo il concetto di congruità molto astratto, è assai difficile declinarlo con criteri oggettivi. Ad ogni modo, seppure non esista un criterio univoco ed obiettivo al fine di stabilire la congruità del patto, la giurisprudenza ritiene che un corrispettivo che si aggiri intorno al 15%-35% della retribuzione lorda annua possa essere considerato congruo.[6]

In secondo luogo, il quantum oltre ad essere congruo deve essere predeterminato e/o predeterminabile. La giurisprudenza ha ritenuto nullo, in quanto appunto indeterminabile, un patto che prevedeva a favore del lavoratore un tot euro per ogni mensilità fino alla cessazione del rapporto, in quanto tale patto non permetteva al lavoratore di determinare ex ante, già all’atto della sottoscrizione dell’accordo, un ammontare minimo.[7]

Al fine di trovare una soluzione alle problematiche qui sopra illustrate e per cercare di stipulare un patto di non concorrenza che effettivamente sia valido e con più ridotte possibilità di essere impugnato, si potrebbe ipotizzare di inserire quale indennità riconosciuta al lavoratore, una somma percentuale il cui valore incrementa con l’allungarsi del rapporto e che sia collegata alle somme lorde corrisposte al lavoratore nell’ultimo anno di rapporto ovvero, in caso più̀ favorevole, nei dodici mesi successivi alla sottoscrizione del patto.

  1. Lavoratore autonomo

Il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un lavoratore autonomo,[8] è regolamentato dall’art. 2596 c.c.

I limiti previsti da tale norma sono i seguenti:

  1. deve essere provato per iscritto
  2. esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività;
  3. non può eccedere la durata di cinque anni.

Come si evince, i punti a), b) e c), sono analoghi a quelli già sopra trattati, ai quali ci si rimanda integralmente.

La differenza essenziale e che l’art. 2596 c.c., contrariamente all’art. 2125 c.c., non contempla alcuna sanzione per la mancata previsione di un corrispettivo in favore di chi si sottopone convenzionalmente a limitazioni concorrenziali. Pertanto, a nulla rileva il fatto che il patto di non concorrenza non preveda alcun corrispettivo, risultando sotto questo aspetto, comunque valido, efficace ed inopponibile.

Ad ogni modo, molto spesso si riscontra in azienda la problematica collegata ad un non corretto inquadramento dei lavoratori autonomi, i quali, per le modalità in cui svolgono la loro attività all'interno di una azienda, potrebbero non essere stati adeguatamente inquadrati come dipendenti. Per tali figure, potrebbe delinearsi la problematica per cui, una volta cessato il rapporto, esse intendano promuovano ricorso d’avanti al Tribunale del lavoro, al fine di accertare la subordinazione del rapporto e, con essa, l'invalidità del patto di non concorrenza, in quanto privo di uno degli elementi essenziali previsti ex art. 2125 c.c. (appunto la retribuzione).

Ad ogni modo, si sottolinea come la previsione, a favore di detti soggetti, di prevedere un patto di non concorrenza retribuito, potrebbe essere da questi utilizzato quale ulteriore elemento per provare la natura subordinata del rapporto.

  1. Amministratore di società

Al pari dei lavoratori autonomi, il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un amministratore è anch’esso soggetto ai limiti di cui all’art. 2596 c.c. e, pertanto, non è previsto l’obbligo che lo stesso debba essere retribuito.

Con riferimento al divieto di concorrenza dell’amministratore in corso di rapporto, esso è unicamente regolato ex art. 2390 c.c., per gli amministratori di società per azioni, che così dispone:

"[1] Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea.

[2] Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni"

Contrariamente, per le s.r.l. non è previsto un esplicito divieto degli amministratori ad agire in concorrenza nel corso del loro mandato [9], con la conseguenza che è lo Statuto della società che può liberamente prevedere se l’amministratore possa o non possa svolgere tali attività.

  1. Soci di s.r.l.

I soci di s.r.l. non sono tenuti ad astenersi da attività concorrenziali con la società di cui sono titolari di quote. Invero, nel sistema italiano la concorrenza è inibita solo ex art. 2301 c.c. ai soci delle società in nome collettivo e agli accomandatari delle s.a.s.

Se si intende prevedere un obbligo di non concorrenza anche per i soci, si potrebbe:

  1. fare sottoscrivere ai soci un patto di non concorrenza;
  2. sottoscrivere un patto parasociale, con il quale, tutti i soci si impegnano a non svolgere attività in concorrenza con la società e i cui contenuti sono comunque quelli previsti dall’art. 2596 c.c.

Si tiene a precisare che il patto parasociale ha anch’esso validità massima di 5 anni e che, pertanto, dovrà essere rinnovato alla sua scadenza.

  1. Contratto di agenzia

Il contratto di agenzia regola espressamente la disciplina del patto di non concorrenza, all’art. 1751-bis del codice civile.

Tale tematica è stata già trattata in questo blog e si rimanda pertanto, alla consultazione del seguente articolo (L’obbligo di non concorrenza nel contratto di agenzia: durante e a seguito della cessazione del rapporto).

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[1] La giurisprudenza tradizionale ha escluso l'applicabilità al patto di non concorrenza delle disposizioni relative alle clausole vessatorie, sulla base del rilievo che l'art. 2125 delinea condizioni più garantistiche rispetto a quelle stabilite dall'art. 1341, e stante la tassatività delle ipotesi contemplate nel 2° co. di quest'ultima disposizione (Cfr. Trib. Torino 8.2.1979).

[2] Trib. Monza 3.9.2004.

[3] Cass. 21.6.1995 n. 6976; Trib. Milano 22.10.2003.

[4] Sul punto Cassazione 1998 n. 4891.

[5] Cass. Civ. 1998 n. 4891; Trib. Milano 27.1.2007.

[6] Ad es. è stato ritenuto congruo un corrispettivo quantificato nel 15% dell’importo totale delle retribuzioni corrisposte al lavoratore negli ultimi 2 anni del rapporto a fronte di un obbligo di non concorrenza di 2 anni di durata) Trib. Milano, 22.10.2003.

[7] Trib. Venezia 31.5.2014.

[8] IMPORTANTE. In tale categoria non rientra l’agente di commercio, per il quale è prevista una disciplina a parte, regolamentata all’art. 1751-bis, che non è oggetto di esamina per il presente parere.

[9] Infatti, prima della riforma operata con il d. lgs. n. 6 del 2003, l'art. 2475 del c.c. faceva esplicito riferimento all'art. 2390 del c.c. Ora il richiamo è stato eliminato.