Il periodo di prova nel contratto di agenzia: è valido? La Corte di Giustizia Europea si pronuncia.

 

 

Nella prassi è assai frequente che le parti sottopongano il contratto di agenzia ad un cosiddetto “patto di prova”; il fine perseguito da tale accordo è quello di tutelare un interesse comune ad entrambe le parti, ossia quello di accertare il rapporto di collaborazione, tramite una concreta sperimentazione.

Con la stipulazione di detto patto, viene conferita alle parti la facoltà, durante il periodo di prova, di recedere dal contratto senza osservare alcun termine di preavviso e senza la necessità di alcuna motivazione.

Il periodo di prova dovrebbe dunque essere inteso, come una sorta di fase preliminare del contratto nella quale, le parti, intendono sperimentare reciprocamente il rapporto di collaborazione, che assumerebbe un carattere di stabilità solo una volta trascorso positivamente detto periodo.[1]

Seppure tale istituto non sia espressamente disciplinato nel nostro ordinamento,[2] in linea di principio, il periodo di prova, deve ritenersi ammissibile nel contratto di agenzia, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia stato stipulato a tempo determinato, ovvero a tempo indeterminato.[3]

Posto che tale patto risponde all’esigenza delle parti di verificare la reciproca convenienza a dare stabilità al contratto, secondo parte della dottrina,[4] nel corso del periodo di prova, le parti possono recedere immediatamente, senza la necessità di dovere dare alcun periodo di preavviso. Tale posizione, è stata altresì confermata da un orientamento giurisprudenziale meno recente, che ha sostenuto, non solo la legittimità del periodo di prova, ma, altresì, il conferimento ad entrambe le parti la facoltà di recedere nel periodo di prova con effetto immediato, senza giusta causa.[5]

Quanto alla durata del patto, la stessa deve essere limitata “al tempo necessario e sufficiente per compiere la valutazione”.[6] Per declinare tale principio in termini pratici, bisogna considerare di volta in volta il singolo rapporto, tenendo conto, ovviamente, del settore in cui le parti operano, la tipologia di prodotti che vengono promossi e utilizzando come metro valutativo quello della buona fede; ad ogni modo, per dare un riferimento temporale indicativo, si può ritenere ragionevole un patto di prova che abbia una durata che varia tra i due e i sei mesi.[7]

Con riferimento al diritto dell’agente a ottenere un’indennità di fine rapporto in caso di scioglimento del rapporto, per fatto non imputabile all’agente, la giurisprudenza maggioritaria italiana, ha ritenuto negli ultimi decenni che:

qualora il preponente receda dal contratto di agenzia durante il periodo di prova non spetta all'agente l'indennità di scioglimento del contratto ex art. 1751 c.c.

Ad ogni modo, su tale questione, recentemente si è pronunciata la Corte di Giustizia Europea con sentenza del 19.4.2018, con la quale, i Giudici del Lussemburgo, si sono trovati a decidere una controversia, rimessa pregiudizialmente dalla Cour de Cassation francese, vertente su un interpretazione autentica della direttiva 86/653/CEE in tema di agenti di commercio; nello specifico è stato richiesto se la direttiva conferisca o meno alle parti la facoltà di escludere il diritto dell’agente all’indennità in caso di risoluzione del contratto, nel corso del periodo di prova contrattualmente pattuito.

La vertenza era sorta, originariamente, tra un agente e un preponente, entrambi operanti in Francia nel settore della vendita immobiliare, i quali avevano inserito all’interno di un contratto di agenzia, un periodo di prova di dodici mesi; durante detto periodo, l’agente si era altresì obbligato a concludere la vendita di venticinque abitazioni.

A seguito di circa cinque mesi di rapporto, posto che l’agente era riuscito a concludere unicamente un contratto di vendita, la preponente è receduta dal rapporto con effetto immediato, fiduciosa del fatto che, essendo il rapporto ancora nella fase “sperimentale”, non fosse dovuto all’agente alcun preavviso, né tantomeno alcuna indennità.

Di diversa opinione era, invece, l’agente, il quale ha contestato la risoluzione senza giusta causa, ritenendo che, seppure il rapporto fosse ancora nel periodo di prova, avesse comunque diritto a ricevere l’indennità di fine rapporto, nonché un risarcimento del danno, previsto dalla legislazione francese.

La questione, dopo essere stata difformemente decisa in primo grado ed in appello, è stata rimessa, dalla Cour de Cassation, alla Corte di Giustizia.

La Corte Europea, in via preliminare, nella propria motivazione, ha rilevato che seppure la direttiva non contiene alcun riferimento alla nozione di “periodo di prova”, tale omissione non possa essere interpretata come un divieto all’utilizzo di detto strumento da parte dei contraenti.

La sentenza, successivamente, si sofferma ad analizzare la funzione che la direttiva aveva conferito all’indennità di fine rapporto, rilevando che tale istituto, non perseguisse tanto un fine sanzionatorio, bensì, piuttosto, quello di indennizzare l’agente

per le prestazioni compiute, di cui il preponente continui a beneficare anche successivamente alla cessazione del rapporto contrattuali, ovvero per gli oneri e le spese sostenuti ai fini delle prestazioni medesime.

La Corte, prosegue, prendendo atto che lo stesso art. 18 della direttiva disciplina espressamente le ipotesi in cui l’indennità non sono dovute e che, in tale elenco, da interpretare in via restrittiva,[8] non è ricompreso il periodo di prova.

Sulla base degli elementi sopra sommariamente riportati, la Corte ha pertanto affermato che:

l’interpretazione secondo cui nessuna indennità è dovuta nel caso di risoluzione del contratto di agenzia commerciale durante il periodo di prova non è compatibile con la natura imperativa della disciplina istituita dall’art. 17 della direttiva 86/653. Infatti, un’interpretazione di tal genere, che si risolverebbe nel subordinare il riconoscimento dell’indennità alla pattuizione o meno di un periodo di prova nell’ambito del contratto d’agenzia commerciale, senza tener conto delle prestazioni rese dall’agente o degli oneri e spese dal medesimo sostenuti, contrariamente a quanto dettato dallo stesso articolo 17, costituisce […] un’interpretazione a detrimento dell’agente commerciale, al quale verrebbe negato qualsiasi indennizzo per il solo motivo che il contratto inter partes preveda un periodo di prova.”

Tale sentenza avrà sicuramente un impatto molto forte su quello che sarà l’utilizzo del patto di prova nel contratto di agenzia; invero, seppure la Corte non delegittima la possibilità delle parti di prevedere un patto di prova nel contratto di agenzia, di fatto, fa venire meno l’interesse ad un utilizzo di tale strumento, posto che le parti, non potranno più escludere il diritto dell’agente a percepire l’indennità di fine rapporto.

Decade, pertanto, quello che era il presupposto fondante e la finalità che ha sempre spinto i contraenti a stipulare un patto di prova, ossia quello di convenire un periodo iniziale del rapporto, in cui le parti possono reciprocamente testarsi, senza preoccuparsi delle conseguenze, in caso non intendano rendere il rapporto stabile.

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[1] Sul punto – VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss.

[2] Fatto salvo dall’art. 2096 c.c. che regolamento il periodo di prova nel lavoro subordinato e che, per la sua specialità, non può essere applicato analogicamente al contratto di agenzia – Sul punto cfr. VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss. Viene fatto invece un riferimento al patto di prova in alcuni accordi economici collettivi e nello specifico: nel contratto tra Federagenti e CNAI del 22.4.2013, (dichiarazione a verbale art. 10), si prevede un periodo di prova di durata massima di 6 mesi; AEC commercio 2009, art. 2 e AEC industria 2014 art. 4, in cui viene previsto che, in caso di uno o più rinnovi del contratto di agenzia, il preponente può stabilire un periodo di prova solo nel primo contratto.

[3] Sul punto cfr. Trib. Grosseto 30.11.2004; Trib. Firenze 2.10.2003; Trib. Milano 18.12.1986; In dottrina PERINA – BELLIGOLI  – Il rapporto di agenzia, 2014.

[4] TRIONI – Contratto di agenzia, in Commentario del Codice Civile, Bologna, 2006.

[5] Cass. Civ. 1991 n. 544.

[6] Trib. Torino 7 luglio 2004.

[7] VENEZIA – BALDI, Il contratto di agenzia, 2014, pag. 344 e ss.

[8] In tal senso, Corte di Giustizia, 28.10.2010, Volvo Car Germany, C-203/09.


Il preponente è responsabile per i danni cagionati dall'agente a terzi?

Nel rapporto di agenzia, può accadere che l’agente, nello svolgimento delle proprie mansioni, cagioni un danno a un  terzo; in tal caso si pone il problema se il preponente possa essere chiamato a rispondere per i danni causati al terzo e, quindi, essere ritenuto indirettamente responsabile ex art. 2049 c.c. per il danno cagionato al terzo. Tale norma dispone che:

i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.”

Da una lettura di tale articolo, si comprende che gli elementi costituitivi della responsabilità del "padrone e committente" sono:

  • la sussistenza di un fatto illecito che ha prodotto un danno ad un terzo;
  • il fatto che il danno è stato cagionato da un preposto (che non necessariamente si identifica in un rapporto di lavoratore subordinato);
  • che il danno sia stato causato (o comunque agevolato) nell’esercizio delle mansioni a cui il preposto era stato incaricato.[1]

Secondo la giurisprudenza la responsabilità ex art. 2049 c.c. ha "natura oggettiva"[2] e ciò implicata che i committenti non possono proporre alcuna prova liberatoria della loro responsabilità, con la conseguenza che gli stessi rispondono indirettamente del fatto altrui, indipendentemente dalla sussistenza o meno, di una colpa nella scelta o nella vigilanza del preposto.[3] In poche parole, i responsabili del danno sono due soggetti (il preposto e il preponente), distinti tra loro, seppure uno solo di essi è stato l’autore del fatto dannoso.

Il classico esempio di applicazione di tale norma è quello del lavoro subordinato: in tale caso il preponente è tenuto a rispondere per il fatto illecito compiuto dal proprio dipendente, in forza del l’incarico che è stato allo stesso conferito. Ad ogni modo, è importante sottolineare che, la giurisprudenza maggioritaria, da tempo afferma che ai fini dell'applicazione della responsabilità ex art. 2049 c.c., è sufficiente che il soggetto preposto agisca per conto del committente in virtù di un vincolo di subordinazione inteso in senso lato.[4]  Si legge infatti che:

affinché operi il regime di responsabilità sancito dall'art. 2049 c.c., è sufficiente che l'autore dell'illecito sia inserito, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell'organizzazione aziendale ed abbia agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell'imprenditore.

Posto che il rapporto di agenzia è un rapporto di natura appunto parasubordinato e, in quanto tale, potenzialmente inquadrabile come lavoro di subordinazione “in senso lato”, ci si domanda se la fattispecie la responsabilità ex art. 2049 c.c, sia applicale anche a detta tipologia contrattuale.

Secondo una autorevole dottrina[5] non possono trovare applicazione nel rapporto di agenzia le disposizioni di cui all’art. 2049 c.c., posto che tale istituto presuppone per la sua applicazione un vincolo di dipendenza e di subordinazione, seppur avente anche carattere meramente occasionale, o temporaneo; tale rapporto di dipendenza non si riscontra in una fattispecie contrattuale quale quella del contratto di agenzia, essendo l'agente configurabile piuttosto quale collaboratore autonomo del preponente.

Contrariamente, parte della giurisprudenza[6] ha affermato che il preponente è responsabile indirettamente del fatto illecito dell’agente, nel caso quest’ultimo operi in qualità di rappresentante. Sul punto:

l’attività dell’agente, che è un mandatario del preponente, costituisce fonte di responsabilità indiretta del mandante, ai sensi dell’art. 2049 c.c., solo quando l’agente si sia avvalso della sua qualità di rappresentante per consumare l’illecito.”

Tale orientamento espande i limiti della responsabilità del preponente, anche nel caso in cui l’agente (imp! operante sempre come rappresentante), agisca colposamente con modalità diverse da quelle impartitegli, ovvero addirittura oltre i limiti conferitigli.[7] Punto fondamentale è il fatto che il preposto, esercitando l'incombenza a cui è adibito, ancorché con modalità diverse dalle disposizioni del committente o anche oltre i limiti ad essa posti, abbia causato il danno ingiusto ad altri.[8]

Si legge un più recente orientamento della Cassazione, che non esclude l’applicabilità dell’art. 2049 c.c. anche in caso in cui l’agente abbia agito senza alcun potere di rappresentanza:[9]

Ai fini della responsabilità solidale ex art. 2049 c.c. del committente è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal preposto, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se egli ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti.”

La sentenza continua statuendo che:

Non è necessario che sussista uno stabile rapporto di lavoro subordinato tra i due soggetti, essendo sufficiente che l'autore del fatto illecito sia legato al committente anche solo temporaneamente od occasionalmente e che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso.

In particolare, quella del committente è una responsabilità̀ di natura oggettiva ispirata a regole di solidarietà̀ sociale, tesa ad attribuire - secondo la teoria della distribuzione dei costi e dei profitti - l'onere del rischio a colui che si giova dell'opera di terzi.  […] In quest'ottica la giurisprudenza civile, in tempi più recenti, è giunta a riconoscere la responsabilità̀ del committente per l'attività illecita posta in essere dall'agente anche privo del potere di rappresentanza, richiedendosi in tal senso soltanto che la commissione dell'illecito sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze demandate a quest'ultimo e che il committente abbia avuto la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza”

Se si segue tale ultimo orientamento giurisprudenziale, si può affermare che il contratto di agenzia non è, di per sé, estraneo all'ambito di applicazione dell'art. 2049 c.c., nemmeno nell'ipotesi in cui il suo contenuto sia quello del mandato senza rappresentanza.

Come si è già avuto modo di rilevare, la responsabilità ex art. 2049 c.c. rientra tra le responsabilità oggettive, con la conseguenza che non viene conferito al preponente la possibilità di fornire una prova liberatoria basata sull'assenza di colpa nella scelta o nella vigilanza del preposto da parte del preponente; ne consegue che il preponente può difendere la propria posizione, dimostrando unicamente che non sussistono i presupposti per l'applicazione della norma oggetto di esame, e pertanto provare:

  • che non sussiste il rapporto di preposizione con il soggetto che ha commesso l’illecito;
  • che non sussiste il nesso causale tra le incombenze affidate e la consumazione dell'illecito;
  • l'insussistenza del fatto illecito.

Contrariamente sarà onere del danneggiato dimostrare che:

  • si è verificato un illecito fonte di danno;
  • il rapporto di vigilanza tra preponente e agente;
  • l'evento che ha prodotto il danno sia in rapporto di causalità o, quantomeno, di occasionalità necessaria con l'esercizio delle mansioni per le quali era stato adibito.

Da ultimo, si evidenzia brevemente che in linea di massima l’agente può essere ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. per l’operato di un subagente, qualora dall'istruttoria del Giudice di merito si accerti l'effettivo inserimento del subagente nell'organizzazione dell'impresa dell’agente, con conseguente diritto di quest'ultimo di vigilanza e di controllo del subagente stesso.[10]

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[1] Cass. Civ. 2002 n. 26503; sul punto cfr. Gualtierotti, La responsabilità del preponente per fatto illecito dell’agente, in Agenti & rappresentanti di commercio – n. 4/2014.

[2] Cass. Civ. 2001 n.  8381; Cass. Civ. 2000 n.  3536.

[3] Sul punto cfr. Commentario Codice Civile, 2009,  art. 2049, pag. 84 ss.  COMPORTI, GIUFFRE EDITORE

[4] Sul punto cfr. Commentario breve al codice civile, CIAN TRABUCCHI, art. 2049, CEDAM, 2016.

[5] BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 306 ss., Giuffrè Editore.

[6] Cass. Civ. 1995 n. 12945

[7] Cass. Civ. 2014, n. 23448 “Il principio dell'apparenza del diritto, mediante il quale viene tutelato l'affidamento incolpevole del terzo che abbia contrattato con colui che appariva legittimato ad impegnare altri, trova operatività alla duplice condizione che sussista la buona fede di chi ne invoca l'applicazione e un comportamento almeno colposo di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza. (Cassa con rinvio, App. Bologna, 21/01/2011).” In senso Contrario BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 306 ss., Giuffrè Editore. “Giova peraltro rilevare che, poiché ai sensi dell’art. 13939 c.c. il terzo che contratta con l’agente può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri di rappresentanza, non potendo tali poteri presumersi, non può invocarsi da esso terzo una responsabilità del preponente qualora l’agente ecceda i limiti dei poteri conferitigli, ovvero agisca in funzione di poteri di rappresentanza che non ha.

[8] Sul punto cfr. Codice Civile commentato, Plurisdata, art. 2049 c.c., 2014 Wolters Kluwer Italia Srl.

[9] Cass. Pen. 2016, n. 7124.

[10] Cass. Civ. 2014 n. 23448; Cass. Civ. 2012 n. 7634.


Ex agenti: diritto di lavorare per la concorrenza, ma entro i limiti della "lealtà".

Mentre l’obbligo di non concorrenza durante il contratto rappresenta un normale onere imposto all’agente, il patto di non concorrenza postcontrattuale è ammesso solo in presenza di specifico accordo tra le parti e, comunque, entro i ristretti limiti previsti dall’art. 1751-bis c.c.

In assenza di tale patto, una volta sciolto il rapporto contrattuale, nulla vieta all’agente di avviare un’attività in concorrenza col precedente preponente, posto che la pura e semplice qualifica di ex agente non è sufficiente a rendere illecita un’attività che non abbia in sé stessa alcun autonomo connotato di slealtà.

La disciplina della concorrenza sleale viene normata all’art. 2598 c.c. che così dispone:

"Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

  1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
  2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;
  3. si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda."

La norma in esame delinea, ai nn. 1 e 2, le fattispecie tipiche di concorrenza sleale, facendo rientrare al punto 1 tutti gli atti “idonei a produrre confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”, mentre al punto 2 gli atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.

La fattispecie della “confusione” è integrata dalla condotta dell’imprenditore che indirizza al pubblico dei potenziali acquirenti un messaggio idoneo a generare il falso convincimento che i suoi prodotti e/o le sue attività siano riconducibili ad un imprenditore concorrente; si ha invece “imitazione servile” in caso di sviluppo di un prodotto tramite la violazione di un brevetto della società concorrente e/o con l’ausilio di informazioni tecniche di carattere confidenziale di proprietà della mandante.

Il punto 3 dell’art. 2598 c.c. prevede, invece, la clausola generale della correttezza professionale quale regola a cui gli imprenditori devono attenersi per evitare di danneggiare i concorrenti e compiere atti di concorrenza sleale.

Seppure in assenza di un valido patto di non concorrenza postcontrattuale è perfettamente lecito che l’ex agente svolga a seguito dello scioglimento del rapporto un’attività in concorrenza con l’ex preponente, parte della giurisprudenza[1] ritiene, sul presupposto della maggiore “pericolosità” della concorrenza dell’ex agente, che esiste in capo allo stesso una speciale accentuazione del dovere di lealtà e probità professionale, nonché uno speciale dovere di discrezione e di non aggressione verso l’impresa di provenienza.

Quindi evidente la difficoltà di bilanciare quelli che sono, di fatto, due interessi tra loro contrapposti: da un lato il diritto di svolgere attività in concorrenza al preponente in assenza di un patto di non concorrenza post-contrattuale, dall’altro lato, il dovere dell’agente di agire secondo lealtà professionale ed entro i limiti imposti dall’art. 2598 c.c.

In linea di principio, il dovere di correttezza professionale si declina, nel caso dell’ex-agente, principalmente nella gestione dei rapporti che lo stesso instaura con la clientela dell’ex preponente.

Sul punto la giurisprudenza[2] si è più volte pronunciata, affermando che:

“i vantaggi, in termini di avviamento e clientela, che derivano al committente dall'attività promozionale svolta dall'agente, restano acquisiti al committente medesimo, anche dopo l'estinzione del rapporto di agenzia, come bene appartenente alla sua azienda, tutelabile contro eventuali atti di concorrenza sleale, pure se provenienti dall'agente stesso dopo l'estinzione del rapporto; con la conseguenza che  lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex agente […] di una azienda, facendo uso delle conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto o, comunque, con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, costituisce concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c."

La Corte si è altresì pronunciata sul punto, chiarendo che:

costituisce concorrenza sleale per lo sviamento di clientela la sistematica utilizzazione da parte di ex collaboratori di informazioni riservate acquisite nel precedente rapporto, quali la lista della clientela, ed aver proposto ad essi condizioni contrattuali più favorevoli.

Sempre nella medesima sentenza la Suprema Corte afferma che:

“costituisce atto di concorrenza sleale, contrario alle regole di correttezza professionale (art. 2598, n. 3, c.c.), lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex dipendente di un'azienda che, facendo uso di conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto di lavoro subordinato (e relative alla clientela ed alle condizioni economiche dei rapporti contrattuali in corso), intraprenda analoga attività imprenditoriale acquisendo sistematicamente i clienti del concorrente (attraverso la predisposizione di lettere di disdetta dei contratti preesistenti, l'invio delle stesse a sua cura nei termini contrattualmente previsti, la conseguente stipulazione di nuovi contratti).[3]

In giurisprudenza si trovano altri precedenti, collegati soprattutto ad attività di concorrenza sleale compiute da parte di ex dipendenti per i quali è disponibile maggiore casistica sia in letteratura che in giurisprudenza. Si riportano comunque alcuni di tali precedenti stante l’applicabilità di principi generali ivi annunciati anche alla categoria di agente di commercio.[4]

  • Commette concorrenza sleale chi “propone a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili; b) ostenti in funzione reclamistica, presso clienti dell’ex datore di lavoro, la propria qualità di ex dipendente di questi; c) istituisca, nell’opera di propaganda della propria impresa svolta presso clienti dell’ex datore di lavoro, un’esplicita comparazione tra i prodotti e i prezzi di quest’ultimo e i propri.” (cfr. anche: Obblighi dell’agente. È sufficiente una semplice attività di propaganda?)
  • Compie atto di concorrenza sleale l’ex dipendente che, avvalendosi non solo delle liste dei clienti, ma anche della conoscenza delle condizioni dei singoli contratti del datore di lavoro, una volta cessato il rapporto di lavoro storni una parte della clientela proponendo tariffe inferiori e predisponendo ed inviando negli opportuni tempi lettere di disdetta dei contratti dell’ex datore di lavoro.[5]
  • “Costituisce atto di concorrenza sleale l’uso di una banca dati contenente nominativi di potenziali clienti, forniti ed elaborati informaticamente dall’ex amministratore unico della società prima utilizzatrice, da parte di un’impresa concorrente cui la banca dati sia stata fornita dallo stesso soggetto nell’ambito di un successivo rapporto di collaborazione.[6]
  • “Costituisce concorrenza sleale l’utilizzazione, da parte dell’ex dipendente, di nozioni concernenti le specifiche, peculiari esigenze dei singoli clienti dell’ex datore di lavoro, al fine di offrire a ciascuno di costoro prodotti esattamente messi a punto per soddisfare le loro esigenze, quando una simile messa appunto abbia richiesto all’ex datore di lavoro contatti ripetuti con i singoli clienti per individuarne i desideri e le attese e per giungere progressivamente alla soluzione ottimale. […] L’illiceità di questo comportamento è accentuata dal fatto che l’ex dipendente ostenti ai clienti l’identità dei prodotti offerti, prospettando una continuità di pregi produttivi intesi come rispondenza ai desiderata di ogni singolo cliente, rispetto alla produzione dell’ex datore di lavoro.[7]

Fermo restando quanto sopra esposto, bisogna altresì sottolineare il fatto che il divieto di concorrenza sleale non si può estendere a tal punto da impedire all’agente qualsiasi utilizzazione delle esperienze acquisite nelle precedenti esperienze di lavoro. Sull’inammissibilità di una siffatta conclusione una sentenza storica (e tutt’oggi attuale) della Cassazione ha sancito che:

Non si può inibire al lavoratore licenziato di sfruttare la propria capacità tecnica, anche se acquista nella esplicazione di mansioni alle quali esso era addetto e per cui era tenuto a mantenere il segreto, ed anche se tale capacità, la quale costituisce un patrimonio personale del lavoratore, ed è impiegata per procurare a quest'ultimo i mezzi di sussistenza, venga svolta in attività e in prodotti similari a quelli del datore di lavoro. Pertanto, non costituisce atto di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c., l'utilizzazione, da parte di un dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, di cognizioni tecniche anche se acquisite nella esplicazione delle mansioni cui era addetto.”

Tale principio vale sia che l’ex agente si sia messo a lavorare alle dipendenze di una altra impresa, sia che si sia messo a lavorare per conto proprio.[8]

Tuttavia, secondo la giurisprudenza prevalente, nel bagaglio di conoscenze e competenze dell’ex agente liberamente utilizzabili non possono essere comprese specifiche notizie su esigenze di singoli clienti contattati durante il periodo di lavoro pregresso, posto che le cognizioni acquisite non rientrano nel concetto di informazione ed esperienza aziendali;[9] vengono quindi contrapposte le conoscenze tecniche utilizzabili, alle non utilizzabili notizie apprese nel pregresso rapporto di lavoro.[10]

Per potere concludere, si può ragionevolmente ritenere che all’ex agente non è impedito sviluppare prodotti in concorrenza con l’ex preponente e proporli anche ai clienti di quest’ultimo; ad ogni modo il rapporto con detti clienti è molto delicato e deve essere gestito con massima cautela e lealtà professionale, non potendo l’agente effettuare mirate campagne di vendita nei confronti di tali soggetti e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

Concludendo si può affermare che:

  • l’agente può svolgere qualsiasi attività in concorrenza con il preponente a seguito del rapporto di lavoro;
  • i limiti della concorrenza sono dettati dagli atti di concorrenza sleale che si identificano, nel caso dell’agente, principalmente in:
    • imitazione servile e confusione dei prodotti dallo stesso sviluppati per la attività in concorrenza che pone in essere;
    • denigrazione dei prodotti venduti dall’ex preponente;
    • sviamento della clientela, tramite il lancio di mirate campagne di vendita nei confronti dei clienti della ex casa mandante e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

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[1] Cfr. UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, art. 2598, CEDAM.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[3] Trib. Torino 11.1.2008; Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[4] Trib. Di Milano 1974; Corte d’Appello Firenze 27.9.1987.

[5] Trib. Torino 28.12.1973.

[6] Trib. Torino 28.12.1973.

[7] Trib. Genova 19.6.1993.

[8] Corte d’Appello Milano 5.6.1987.

[9] Trib. Milano 25.9.1989.

[10] Trib. Firenze 26.11.2008.


Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi.

Quando si parla di agenzia si può pacificamente affermare che tale figura vada inserita nella categoria dei lavoratori autonomi.

Infatti, seppure nella definizione di agente di commercio formulata all’art. 1746 c.c. non vi è alcun riferimento all’indipendenza dell’attività lavorativa dell’agente, la normativa europea 86/653/CEE (su cui si basa il modello italiano) aveva fatto specifico riferimento all’agente quale lavoratore indipendente, tenuto comunque ad “attenersi alle ragionevoli istruzioni impartite dal preponente.

Già da una prima lettura della normativa si comprende che l'agente, seppure sia indipendente e svolge la propria attività in autonomia, deve comunque adeguarsi alle disposizioni del preponente, preposto a decidere quelle che sono le politiche commerciali della azienda. Tale rapporto di interdipendenza, assai delicato, viene regolato in maniera più chiara dagli AEC Commercio 2009 ed Industria 2014, che all'art. 1 comma 3 così dispongono:

[L’] Agente [è] tenuto ad orientare le politiche distributive del preponente in conformità alle indicazioni fornite dal preponente. Il preponente decide nelle grandi linee ciò che l’agente deve fare, pur senza poter interferire sulle modalità con cui l’agente intende giungere al risultato richiesto.”[1]

Dall’analisi congiunta delle norme sopra citate, si comprende che:

  • da un lato il preponente non può imporre all’agente obblighi incompatibili con la propria autonomia;
  • dall’altro lato l’agente, seppure opera in regime di piena autonomia, è comunque obbligato a seguire nelle grandi linee le direttive del preponente.

Qualora invece il rapporto presenti delle caratteristiche assimilabili a quelle del lavoro subordinato, lo stesso potrà essere qualificato come rapporto di lavoro dipendente, a prescindere dal nomen iuris con cui le parti hanno qualificato il rapporto stesso.[2] Secondo un costante orientamento della Cassazione, l'elemento distintivo tra le due figure è caratterizzato dalla:

subordinazione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro.[3]

Ne consegue, pertanto, che la collaborazione prestata dall’agente debba svolgersi in regime di autonomia, mentre, quella prestata dal lavoratore dipendente, si attua in regime di subordinazione gerarchica, con organizzazione da parte del datore di lavoro delle energie prestate dal dipendente[4] (cfr. anche L'agente persona fisica, il lavoro parasubordinato e il rito lavoro). Infatti, se da un lato l’agente deve esclusivamente coordinarsi con il preponente sulle attività da svolgere, il lavoratore dipendente, ex art. 2094 c.c., compie attività lavorativa coordinata organizzativamente nel tempo e nello spazio dal datore di lavoro, il quale può di volta in volta intervenire nell’esecuzione della prestazione specificandone le modalità esecutive, alle quali il lavoratore deve necessariamente adeguarsi (c.d. obbligo di obbedienza).[5]

Ad ogni modo non è sempre agevole delineare a quale categoria appartenga un lavoratore, stante che entrambe le figure, sia del dipendente che dell'agente di commercio, sono caratterizzate dalla stabilità della collaborazione[6] (proprio tale elemento, ossia la "stabilità", distingue l’agente dal procacciatore d’affari, sul punto cfr. articolo Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?).

Tale complessità si acuisce ulteriormente in alcuni settori in cui, per le modalità di svolgimento dell’attività, l’agente è di fatto tenuto a seguire in maniera rigida le direttive e gli orari imposti non tanto dal preponente, quanto piuttosto dal mercato in cui esso opera: si pensi, a titolo esemplificativo, alla figura dell’agente che promuove le vendite presso un concessionario di autovetture, il quale, di fatto, è vincolato a promuovere le vendite in un determinato spazio espositivo e durante gli orari di apertura del negozio.[7]

Non essendoci un unico e “risolutivo” elemento che permette di comprendere se un determinato rapporto debba essere qualificato come d’agenzia ovvero di lavoro dipendente, dovranno essere considerati nel singolo caso di specie i differenti elementi tipici della subordinazione (quali ad es. mancanza di autonomia decisionale, assenza di rischio, inserimento nell’organizzazione dell’impresa, obbligo di rispettare orari prefissati e itinerari fissati dal preponente), tenendo presente che nessuno di essi permette da solo di far considerare il rapporto come subordinato, dovendosi piuttosto effettuare una valutazione complessiva dell’insieme degli stessi.[8] Sul punto la Suprema Corte si è pronunciata affermando che:

il rapporto di agenzia, la cui natura autonoma non può essere messa in discussione, non è incompatibile con la soggezione dell'attività lavorativa dell'agente a direttive e istruzioni nonché a controlli amministrativi e tecnici, più o meno intensi e penetranti in relazione alla natura dell'attività e allo interesse del preponente, né con l'obbligo dello agente di visitare e istruire altri collaboratori, né con l'obbligo del preponente di rimborsare talune spese sostenute dall'agente, né, infine, con l'obbligo di quest'ultimo di riferire quotidianamente al preponente.[9]

Per dare un taglio pratico al presente articolo, si può comunque ragionevolmente ritenere che, a titolo esemplificativo, il preponente non potrà:[10]

  • imporre la lista giornaliera dei clienti da visitare (ma potrà chiedere di visitare determinati clienti o categorie di clienti a cui tiene);
  • programmare gli itinerari che l’agente deve seguire (ma potrà pretendere dall’agente che organizzi le visite in modo tale da coprire la propria zona di competenza in maniera adeguata);
  • decidere l’organizzazione interna dell’agenzia (ma pretendere determinati standard qualitativi del personale, adeguatezza dei locali e del numero dei collaboratori in base all’attività promozionale dell’agente stesso);
  • imporre rendiconti dettagliati sull’attività svolte dall’agente (ma chiedere report sull’andamento del mercato).[11]

Un’ultima questione, di grande rilevanza pratica, è quella relativa alla compatibilità della retribuzione in forma fissa, con l'autonomia tipica del rapporto contrattuale in esame.

Seppure la direttiva europea non esclude la conciliabilità di tale modalità retributiva con la figura dell’agente, la giurisprudenza italiana (criticata da parte della dottrina[12]) si è dichiarata contraria a tale tesi[13], ritenendo che in tal caso l'agente, il quale percepirebbe esclusivamente una retribuzione fissa, indipendentemente da quelli che sono i risultati dallo stesso portati, non assumerebbe alcun rischio di impresa, caratteristica che contraddistingue tale figura.

Ad ogni modo, la giurisprudenza ritiene comunque compatibile con l’agenzia le forme di remunerazione mista, con le quali viene abbinata una componente fissa ad una componente variabile. Tale soluzione con cui all’agente viene assicurato un “minimo garantito” viene considerato lecito e compatibile con il rapporto di lavoro d’agenzia.[14]

_______________________

[1] BORTOLOTTI, Il contratto di agenzia commerciale, Vol. I, pag. 86, 2007, CEDAM.

[2] Cass. Civ. 2004, n. 9060.

[3] Cass. Civ. 1990 n. 2680.

[4] BALDI – VENEZIA, In contratto di agenzia, pag. 33, Giuffrè Editore.

[5] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore

[6] Trib. Milano 8 marzo 20210, in Agenti e rappresentanti di commercio 2012, n. 3 p. 31. Il Tribunale di Milano precisa sul punto che “l’obbligazione dell’agente consiste nel visitare, in modo stabile e continuativo, tutti i possibili clienti e a formulare una predeterminata proposta contrattuale (predeterminata dal preponente, quanto ai suoi aspetti essenziali), al preponente medesimo.

[7] Sul punto cfr. anche Cass. Civ. 2009 n. 9696. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso la sussistenza di un rapporto di subordinazione atteso che, da un lato, svolgendo l'interessato attività di propagandista o promotore per la vendita di apparecchiature didattiche per la scuola e le università, i suoi orari dovevano necessariamente coincidere con quelli di apertura di tali istituzioni e non costituivano un indice decisivo, mentre, dall'altro, il medesimo si era più volte qualificato, nel corso del rapporto, come agente e non dipendente, il suo contratto era stato concluso per sostituire un altro precedente agente e non aveva alcun obbligo di giustificare le proprie assenze.

[8] BORTOLOTTI, Contratti di distribuzione, pag. 129, 2016, Wolters Kluwer.

[9] Cass. Civ., 1990 n. 2680, Cass. Civ. 2001, n.  11264. Con tale sentenza la Cassazione ha quindi ritenuto che “tra le parti era intercorso, un rapporto di agenzia, a prescindere dal tempo in cui esso s'era protratto, in quanto l’agente, pur dovendo dar conto con un rapporto giornaliero del lavoro svolto e pur dovendo seguire un itinerario preordinato dalla ditta preponente, non veniva a perdere l'autonomia propria dell'agente con possibilità di scelta della clientela nell'ambito della zona assegnatagli e con possibilità di adottare i metodi di lavoro ritenuti più idonei.

[10] BORTOLOTTI, Il contratto di agenzia commercia, Vol. I, pag. 88, 2007, CEDAM.

[11] Sul punto importante rimarcare il fatto che gli AEC Commercio ed Industria che prevendono all’art. 1 comma 3 che l’agente è “tenuto ad informare costantemente la casa madre sulla situazione del mercato in cui opera, non è tenuto peraltro a relazioni con periodicità prefissata sulla esecuzione della sua attività”. Importante sottolineare quindi che il preponente non potrà pretendere dall’agente relazioni periodiche sullo svolgimento dell’attività dell’agente (ad es. report sulle visite effettuate), ma potrà contrariamente chiedergli di essere informato, anche in maniera periodica, sulle condizioni del mercato e dei dati rilevanti (nomi dei clienti vistati e risultati delle viste).

[12] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore; Saracini-Toffoletto, p. 327 ss.

[13] Cass. Civ. 1986 n. 3507; Cass. Civ. 1991 n. 10588; Cass. Civ. 2012 n. 12776. Tale ultima sentenza si è spinta ad ammettere che “nel rapporto di agenzia le parti possono prevedere forma di compenso delle prestazioni dell’agente diverse dalla provvigione determinata in misura percentuale sull’importo degli affari conclusi (come ad esempio una somma fissa per ogni contratto concluso”, ma senza spingersi a riconoscere che la remunerazione in forma provigionale possa essere del tutto sostituita da una retribuzione fissa.

[14] Cfr. sul punto Cass. Civ. 1975 n. 1346; Cass. Civ. 1980 n 34; Trib. Di Milano 9 settembre 2011.


Come si calcola l'indennità di fine rapporto degli agenti assicurativi? I parametri previsti dall'ANA 2003.

Il calcolo dell'indennità di fine rapporto prevista dall'Accordo Nazionale Agenti 2003, è piuttosto articolata e complessa e viene regolata agli artt. 12 e seguenti.

In primo luogo è importante sottolineare che l'art. 18 ANA dispone che in caso di scioglimento del contratto di agenzia per recesso dell'impresa o dell'agente per giusta causa:

  • non è dovuto alcun preavviso;
  • se recedente è l'impresa, all'agente spettano le indennità di risoluzione di cui agli artt. da 27 a 33 (di seguito esaminate); se recedente è l'agente, allo stesso spettano le indennità di risoluzione previste per il caso di recesso dell'impresa.

Ciò premesso, in base all’art. 12, I comma ANA, il contratto di agenzia può sciogliersi per:

  1. Cancellazione dell’agente dall’Albo nazionale degli agenti di cui alla legge 7 febbraio 1979, n. 48;
  2. Morte;
  3. Invalidità totale;
  4. Limiti di età;
  5. Recesso per giusta causa.

Il II comma del medesimo articolo, dispone altresì che il contratto di agenzia può sciogliersi per recesso da parte dell’impresa ovvero da parte dell’agente. Il recesso da parte dell’impresa, viene a sua volta distinto in tre tipologie:

  1. Recesso con indicazione dei motivi ed eventuale ricorso al Collegio arbitrale, nel qual caso si applica la disciplina di cui all’art. 12-bis;
  2. recesso dell’impresa senza indicazione dei motivi, nel qual caso si applica la disciplina di cui all’art. 12-ter;
  3. recesso dell’impresa con applicazione dell’art. 12-quater per gli agenti che ne abbiano diritto.

Qualora il recesso venga effettuato da parte dell’agente si applicherà la disciplina dell’art. 12-bis

Il III comma, prevede che le indennità di risoluzione del contratto spettanti all'agente sono  sono indicate agli articoli da 14 a 19.

Ad ogni modo, il IV comma dell’art. 12 prevede che, nei casi di scioglimento del contratto per morte o invalidità totale dell’agente, spetti all’agente un’ulteriore somma all’agente cessato o ai suoi eredi, che va ad aggiungersi alle indennità di cui agli articoli da 14 a 19, come dal seguente prospetto:

Scaglioni di provvigioni

(Euro)

Anzianità

 

Fino a 5 anni compiuti Oltre 5 anni compiuti
fino a 20.500,00

da 20.501,00 a 26.400,00

da 26.401,00 a 38.000,00

da 38.001,00 in poi

20%

15%

15%

15%

30%

25%

20%

15%

Detta ulteriore somma non potrà essere inferiore a euro 8.800,00 né superiore a euro 29.300,00.

L’art. 12 A prevede  poi una dettagliata disciplina con un preciso schema di riferimento per il calcolo della somma aggiuntiva eventualmente spettante all’agente in applicazione dell'ANA 2003, ossia:

Schema di riferimento e disciplina ex art. 12A
sui primi € 103.291,00 di provvigioni 65%
sui successivi € 103.291,00 di provvigioni 40%
sui successivi € 154.937,00 di provvigioni 15%
sui successivi € 154.937,00 di provvigioni 10%
su quanto supera € 516.457,00 5%
Detta ulteriore somma non potrà essere inferiore a euro 8.800,00 né superiore a euro 29.300,00.

L'art. 12-bis prevede che entro 20 giorni dal ricevimento della comunicazione del recesso, l’altra parte ha facoltà di ricorrere ad una procedura di arbitrato irrituale; le modalità di accesso a tale procedura, vengono espressamente disciplinate nell’art. 12-bis stesso.L’art. 12-bis disciplina il recesso da parte dell’impresa con indicazione dei motivi.

L’art. 13-ter disciplina, invece, l’ipotesi di recesso dell’impresa senza indicazione dei motivi. In tale caso il preavviso dovuto all’agente, ai sensi dell’art. 13, decorrerà solo dopo il trentesimo giorno successivo alla comunicazione del recesso da parte dell’impresa. Entro tale termine, l’agente potrà scegliere tra il pagamento degli indennizzi e la liberazione del portafoglio gestito dall’agenzia, inviando all’impresa apposita comunicazione. Nel caso le parti concordino di optare per la liberalizzazione del portafoglio, essa dovrà avvenire tramite la sottoscrizione del testo allegato di cui all’allegato A dell’accordo ANA 2003.

Importante sottolineare che, secondo la giurisprudenza, la liberalizzazione del portafoglio è ritenuta una legittima alternativa al pagamento delle indennità di fine rapporto.[1]

In caso di mancata opzione da parte dell’agente e comunque in caso di mancata sottoscrizione da parte dello stesso dell’atto di liberalizzazione, di cui al punto precedente, l’impresa è tenuta a corrispondere all’agente gli indennizzi di cui agli art. II e III dell'arto12-ter ed il contratto si risolve con diritto dell’agente:

  • al trattamento di cui all’art. 13 dell’ANA (che disciplina il termine di preavviso);
  • le indennità di risoluzione di cui agli art. 25 e 33;
  • nonché ad una somma aggiuntiva pari al 50% di quella calcolata per l’agenzia sulla base dello schema di riferimento e disciplina di cui all’art. 12A.

L’art. 13 comma III, fissa quali termini di preavviso:

1 mese per il primo anno di gestione;
2 mesi per il secondo anno di gestione
3 mesi per il terzo anno di gestione
4 mesi per il quarto anno di gestione
5 mesi per il quinto anno di gestione
6 mesi per il sesto anno di gestione

Il IV comma dell'art. 13 prevede che l'impresa può sostituire in tutto o in parte il preavviso dovuto con un'indennità determinata come segue:

  1. se l'agente ha iniziato il primo anno di gestione ma non lo ha completato: in sostituzione del mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni;
  2. se l'agente ha completato il primo anno di gestione ma non ha iniziato il secondo anno di gestione: in sostituzione del mese di preavviso, 1/10 delle provvigioni;
  3. se l'agente ha iniziato il secondo anno di gestione ma non lo ha completato:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/15 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/20 delle provvigioni.
  4. se l'agente ha completato il secondo anno di gestione ma non ha iniziato il terzo anno di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/10 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni.
  5. se l'agente ha iniziato il terzo anno di gestione ma non ha superato i quattro anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/18 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/24 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni.
  6. se l'agente ha iniziato il quinto anno di gestione ma non ha completato i quindici anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/15 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/20 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/25 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/30 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 5° mese di preavviso, 1/35 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 6° mese di preavviso, 1/40 delle provvigioni.
  7. se l'agente ha completato o superato i quindici anni di gestione:
    • in sostituzione del 1° mese di preavviso, 1/12 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 2° mese di preavviso, 1/18 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 3° mese di preavviso, 1/24 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 4° mese di preavviso, 1/30 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 5° mese di preavviso, 1/36 delle provvigioni;
    • in sostituzione del 6° mese di preavviso, 1/42 delle provvigioni.

Per il computo dell'indennità sostitutiva, si tiene conto delle provvigioni liquidate all'agente nell'intero esercizio precedente quello dello scioglimento del contratto o, in mancanza, negli ultimi 12 mesi di gestione.

In merito all’indennità di fine rapporto per i rami Furti, Incendio, Infortuni, Malattie, Responsabilità civile, Responsabilità civile veicoli e natanti, Automobili rischi diversi, Vetri e cristalli, Rischi diversi sono previste tre indennità, calcolate secondo le norme contenute nei successivi artt. 25, 26 e 27.

L’art. 25 (indennità sull’incremento del monte premi) si applica agli agenti che abbiano svolto un’attività per almeno due anni ed è costituita da una percentuale, così fissata dal V comma e relativa:

Scaglioni Percentuali
fino a euro 35.100,00 6,30 6,30
da euro 35.101,00 a euro 70.200,00 4,80 4,80
da euro 70.201,00 a euro 105.200,00 3,38 3,38
da euro 105.201,00 a euro 140.300,00 2,63 2,63
oltre euro 140.300,00 1,65 1,65

Per gli agenti che abbiano svolto abbiano compiuto almeno un anno di gestione, l’indennità è dovuta nella misura del 75%.

L’art. 26 riconosce una secondo indennità, relativa agli incassi. Anch’essa è costituita da una percentuale sugli per agenti con almeno due anni di gestione e relativa riduzione, al 75%, dopo il prima anno di gestione). Il II comma prevede le seguenti percentuali:

Scaglioni Percentuali
fino a euro 87.700,00 1,25
da euro 87.701,00 a euro 251.400,00 0,90
da euro 251.400,00 0,45

L’art. 27 disciplina la terza indennità (estesa anche ai rami Credito e Cauzione), che è costituita da una percentuale fissata dal IV comma, sulla media annua delle provvigioni liquidate all’agente negli ultimi tre anni di esercizio e descritta nella seguente tabella:

Anzianità Percentuali
Fino a 2 anni 2,5
Oltre 3 anni 3,5
Oltre 4 anni 5
Oltre 5 anni 7
Oltre 6 anni 8,5
Oltre 7 anni 11,5
Oltre 8 anni 13,5
Oltre 9 anni 16
Oltre 10 anni 20,5
Oltre 11 anni 26
Oltre 12 anni 29,5
Oltre 13 anni 35
Oltre 14 anni 40,5
Oltre 15 anni 50,5
Oltre 16 anni 56
Oltre 17 anni 57
Oltre 18 anni 58,5
Oltre 19 anni 59,5
Oltre 20 anni 60,5
Per ogni anno successivo di gestione compiuto la percentuale viene aumentata di 0,50
Se il periodo di gestione è inferiore a 12 mesi, l’indennità viene calcolata applicando la percentuale 2,5 all’ammontare delle provvigioni effettivamente liquidate nel corso della gestione, fermo quanto previsto dal precedente III comma
Se nei periodi di cui ai commi precedenti siano state effettuate riduzioni di portafoglio per le quali sia stata corrisposta l'indennità prevista dal III comma dell'art. 8 bis, l'ammontare delle provvigioni, da considerarsi per stabilire la media, sarà ridotto dell'entità delle provvigioni per le quali sia stata corrisposta la predetta indennità.

Le seguenti specifiche disposizioni disciplinano l’indennità per il ramo Vita (art. 28), Capitalizzazione (art. 29), Bestiame (art. 30), Grandine (art. 31), Trasporti (art. 32) e i rami non previsti dagli art. 24 e 32 (art. 33). Per i quali ci si richiama integralmente all’ANA 2003 qui allegato.

Da ultimo l’art. 35 regola l’indennità di risoluzione del rapporto nel caso di coagenzia, prevedendo che, nonostante il carattere congiunto dell'incarico coagenziale, lo scioglimento del contratto di agenzia nei confronti di uno o di alcuni dei coagenti non è di per sé causa di scioglimento nei confronti dell'altro o degli altri coagenti, i quali conservano a tutti gli effetti l'anzianità di gestione maturata.

_____________________

[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. 2006 n. 1286 che ha disposto che, salvo differente accordo tra le parti, “alla cessazione del rapporto di agenzia assicurativa, l'agente uscente non ha diritto di disporre del portafoglio clienti dell'agenzia, di cui è titolare l'impresa preponente, avendo egli solo diritto al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva in relazione allo scioglimento del contratto, in parte commisurato all'incremento da lui apportato al portafoglio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, di condanna dell'impresa preponente a corrispondere all'agente la indennità sostitutiva del preavviso e le altre spettanze di fine rapporto, e di rigetto della richiesta dell'agente di acquisizione del portafoglio, ritenendo nel contempo che legittimamente la stessa impresa recedente non aveva corrisposto all'agente la indennità sostitutiva del preavviso, benché dovuta, a fronte dell'inadempimento da parte dell'agente della riconsegna di tutto il materiale inerente al suo incarico, relativo al portafoglio clienti di cui era titolare l'impresa, obbligo puoi adempiuto dall'agente a seguito di ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. nei suoi confronti).

 

 


Come si calcola l’indennità di scioglimento del contratto secondo gli AEC Commercio 2009?

L’art. 13 degli AEC commercio 2009, suddivide l'indennità di fine rapporto in tre componenti (sul punto cfr. anche calcolo indennità ex art. 1751 c.c.calcolo indennità ex AEC 2014calcolo indennità ex ANA 2003):

  • indennità di risoluzione del rapporto, accantonata dal preponente presso il fondo ENASARCO (FIRR) (capo I);
  • indennità suppletiva di clientela riconosciuta all’agente o rappresentante anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo II);
  • indennità meritocratica, collegata all’incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo III).

(cfr. anche La contrattazione collettiva. Origini, valore ed applicabilità. E se un contraente è straniero, si applicano oppure no?)

I. FIRR

Il FIRR viene accantonato presso l’ENASARCO da parte del preponente e, allo scioglimento del rapporto, è dovuto all’agente indipendentemente da un eventuale incremento della clientela e/o degli affari.

L’obbligo di accantonamento del FIRR sussiste solamente nel caso di applicazione degli AEC al rapporto. Gli AEC sono applicabili al contratto, solamente qualora entrambe le parti (preponente e agente) siano iscritte alle associazioni sindacali stipulanti, oppure, in caso contrario, le parti abbiano richiamato espressamente gli AEC nel contratto, ovvero abbiano provveduto ad una loro applicazione implicita nel corso del rapporto (ad esempio, quando il preponente abbia provveduto ad un’applicazione spontanea, costante ed uniforme di alcune provvisioni previste dagli AEC).[1]  Ciò comporta che in caso di mancata applicazione degli AEC, il preponente non è tenuto ad accantonare il FIRR, bensì solamente versare all’Enasarco i contributi previdenziali.[2] (sul punto cfr. l’obbligo previdenziale dell’agente italiano e del preponente straniero).

Importante rilevare che giurisprudenza[3] e dottrina,[4] ritengono univocamente che la richiesta di pagamento del FIRR, vada avanzata nei confronti dell’Enasarco e non del preponente, fatto salvo per le somme non eventualmente accantonate da quest’ultimo.

Tale indennità si calcola annualmente con le seguenti modalità:

AGENTE MONOMANTATARIO

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a € 12.400 annui
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 12.400 annui e € 18.600 annui
  • 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 18.600 annui

AGENTE PLURIMANDATARIO

  • 4% sulla quota di provvigioni fino a € 6.200 annui
  • 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 6.200 annui e € 9.300 annui
  • 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 9.300 annui
II. INDENNITÀ SUPPLETTIVA

Essa verrà riconosciuta secondo le seguenti aliquote:

3% sulle provvigioni maturate nei primi tre anni di durata del rapporto di agenzia
3,50% sulle provvigioni maturate dal quarto al sesto anno compiuto
4,00% sulle provvigioni maturare negli anni successivi

Tale indennità sarà dovuta in tutti il rapporto sia in atto da almeno un atto e nel caso le dimissioni dell'agente siano dovute a:

  • invalidità permanente e totale;
  • per infermità e/o malattia per le quali non può essergli ragionevolmente richiesta la prosecuzione del rapporto;
  • conseguimento di pensione di vecchiaia Enasarco e/o Inps;
  • per circostanze attribuibili al preponente (art. 1751 c.c.);
  • in caso di decesso. In tal caso le indennità verranno corrisposte agli eredi legittimi o testamentari.

Ad ogni modo oltre alle fattispecie sopra indicate, posto che secondo la giurisprudenza maggioritaria, gli AEC rappresentano per l'agente un trattamento minimo garantito,[5] tale indennità viene riconosciuta all’agente allo scioglimento del rapporto, indipendentemente dalla prova da parte dell’agente di avere sviluppato gli affari e/o la clientela del preponente, così come invece è previsto dall'indennità civilistica di cui all’art. 1751 c.c. (sul punto cfr. l’indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia).

III. INDENNITÀ MERITOCRATICA

L’AEC Commercio 2009 prevede un calcolo piuttosto strutturato per quantificare l'indennità meritocratica, che sarà riconosciuta all’agente solamente nel caso in cui risulti superiore alla somma delle due indennità sopra analizzate (FIRR + suppletiva).

Il calcolo dell’indennità meritocratica è la seguente:

  • Determinazione dell’incremento di clientela, costituita dalla differenza delle provvigioni percepite dall’agente all’inizio ed alla fine del rapporto, tenendo presente che il periodo di prognosi varierà in base alla durata del rapporto, seguendo la seguente tabella:
DURATA DEL RAPPORTO PERCENTUALE DI INCREMENTO DEL FATTURATO PERCENTUALE DI INDENNITA’ RISPETTO AL VALORE MASSIMO DETERMINATO IN APPLICAZIONE DELL’ART. 1751 CODICE CIVILE (DA CUI SOTTRARRE INDENNITA’ F.I.R.R. E INDENNITA’ SUPPLETIVA DI CLIENTELA
Fino a 12 mesi (1° anno) Da 0 a 5%
Da 5 a 30% 25%
Da 30 a 60& 30%
Da 60 a 150% 40%
Oltre il 150% 100%
Da 12 a 24 mesi (2°anno) Fino a 30% 30%
Da 30 a 60% 35%
Da 60 a 150% 40%
Oltre il 150% 100%
Da 24 a 36 mesi (3°anno) Fino a 30% 35%
Da 30 a 60% 40%
Da 60 a 150% 45%
Oltre il 150% 100%
Da 36 a 48 mesi (4° anno) Fino a 30% 40%
Da 30 a 60% 45%
Da 60 a 150% 50%
Oltre il 150% 100%
Da 48 a 60 mesi (5° anno) Fino a 30% 45%
Da 30 a 60% 50%
Da 60 a 150% 55%
Oltre il 150% 100%
Da 60 mesi in avanti Fino a 30% 50%
Da 30 a 60% 55%
Da 60 a 150% 60%
Oltre il 150% 100%
  • Per individuare il valore reale dell'incremento del fatturato procurato dall'agente, sarà preso in considerazione il volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuato dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente.
  • Per la determinazione percentuale dell'incremento si porranno a confronto i valori del volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuate dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente, all'inizio del rapporto (valore iniziale), con i valori del volume del fatturato, inteso come volume delle vendite effettuate dalla casa mandante nella zona o per la clientela affidata all'agente, al termine del rapporto (valore finale), secondo le seguenti modalità:
Durata del rapporto Valore iniziale Valore finale
Per il primo anno di durata del rapporto Media del fatturato dei primi 3 mesi Media del fatturato degli ultimi 3 mesi
Per il secondo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 2 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 2 trimestri
Per il terzo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 3 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 3 trimestri
Dall’inizio del quarto anno al compimento del sesto anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 8 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 8 trimestri
Dall’inizio del settimo anno al compimento del nono anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 12 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 12 trimestri
Dall’inizio del decimo al compimento del dodicesimo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 16 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 16 trimestri
Oltre il dodicesimo anno di durata del rapporto Media annua del volume del fatturato dei primi 20 trimestri Media annua del volume del fatturato degli ultimi 20 trimestri
  • Da ultimo si rende omogenea la cifra iniziale con quella finale, applicando alla stessa il coefficiente di rivalutazione Istat per i crediti di lavoro.

_________________________

[1] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 87 e ss.

[2] Trib. Roma 14.1.2010.

[3] Trib. Bari 2.5.2012.

[4] Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 365 e ss.

[5] Cfr. sul punto Cass. Civ. 2014 n. 7567. Si rileva comunque che la Corte di Giustizia europea, con una pronuncia del 23 marzo 2006, ha contestato la legittimità dell’indennità suppletiva di clientela così come prevista dal l’AEC, che consente all’agente di percepire comunque una indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui l’agente non abbia effettivamente sviluppato la clientela del preponente e quest’ultimo ne tragga vantaggi anche a seguito della cessazione del rapporto; in linea con tale orientamento si riscontra un indirizzo minoritario della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto gli AEC inapplicabili al nostro ordinamento e non ha pertanto riconosciuto all’agente la disciplina ivi riportata come un minimo garantito (Tribunale Treviso 29 maggio 2008. Tribunale Treviso 8 giugno 2008; Tribunale di Roma 11 luglio 2008).


La contrattazione collettiva. Origini, valore ed applicabilità. E se un contraente è straniero, si applicano oppure no?

Una peculiarità che caratterizza la disciplina italiana del contratto di agenzia è costituita dalla centralità e importanza che assume la contrattazione collettiva, che rende l’agente di commercio, soprattutto se agisce quale persona fisica, una figura che di fatto si avvicina per diversi aspetti al lavoratore subordinato (cfr. Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi).

In Italia la contrattazione collettiva degli agenti di commercio ha una lunga tradizione, che risale addirittura al diritto corporativo degli anni ’30, quindi prima ancora della entrata in vigore del codice civile del 1942, che, con riferimento alla disciplina del contratto di agenzia, si è ispirata ai contenuti della contrattazione collettiva stessa. Per l’esattezza la prima regolamentazione dell’agente di commercio è avvenuta con la stipula degli Accordi Economici Collettivi (AEC) corporativi del 26 maggio 1935.

Successivamente, nel secondo dopoguerra, con l’abolizione delle corporazioni si arrivò all’elaborazione di un nuovo contratto collettivo sulla base di quanto previsto dalla Costituzione. Invero, l’art. 39, quarto comma della Costituzione, prevede che:

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

La Costituzione intendeva dare ai sindacati personalità giuridica e facoltà di stipulare contratti collettivi con efficacia per tutta la categoria, potere che, ad oggi, è però rimasto inapplicato. Ad ogni modo, stante la mancata attuazione dell’art, 39 commi 2 e seguenti della Costituzione, nel 1959 fu approvata una legge transitoria,[1] che di fatto ha conferito allo Stato la temporanea facoltà di recepire attraverso decreto legislativo alcuni contratti collettivi stipulati prima dell’entrata in vigore della legge e conferendo agli stessi efficacia erga omnes. Il fine perseguito dal legislatore, era quello appunto di garantire sul territorio nazionale condizioni minime di lavoro inderogabili dalla volontà delle parti.

Ad oggi, a parte i contratti collettivi con efficacia erga omnes dei quali si è qui sopra brevemente accennato, i contratti collettivi vengono stipulati dai sindacati e dalle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro, che continuano ad assumere la veste giuridica di associazioni non riconosciute di diritto privato. Per tale motivo, il contratto collettivo, nonostante la sua indubitabile centralità come “fonte” di regolazione dei rapporti individuali di lavoro, ha assunto natura giuridica di atto di autonomia privata di “diritto comune”, non diversamente cioè da un qualunque altro contratto civilistico e come tale sottoposto alle norme sul diritto dei contratti in generale di cui agli artt. 1321 e seguenti c.c. [2] Bisogna comunque rilevare che, sia in dottrina,[3] che in giurisprudenza,[4] si è comunque cercato di tutelare maggiormente l’efficacia dispositiva dei contratti collettivi stessi, introducendo il principio della derogabilità solo in melius.

In materia di agenzia, al momento sono vigenti in Italia i seguenti AEC erga omnes:

  • AEC 20 giugno 1956 sugli agenti delle imprese industriali;
  • AEC 13 ottobre 1958 sugli agenti delle aziende commerciali.

ed i seguenti principali accordi collettivi di diritto comune:

  • AEC 16 febbraio 2009 per gli agenti di commercio del settore commercio;
  • AEC 10 dicembre 2014 per gli agenti di commercio del settore artigiano;
  • AEC 10 dicembre 2014 per gli agenti di commercio del settore industria.

Quanto all’applicabilità della contrattazione collettiva, la regola generale prevede che il contratto collettivo si applica solo ai lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti (artt. 1387 e ss. c.c.). Ad ogni modo, negli anni la giurisprudenza e il legislatore sono intervenuti per cercare di estendere l’efficacia soggettiva in mancanza di iscrizione del lavoratore.[5] Pertanto gli AEC di diritto comune saranno applicabili tutte le volte in cui:

  • entrambe le parti (quindi sia l’agente che il preponente), aderiscono alle associazioni sindacali stipulanti;
  • vi sia un richiamo espresso all’AEC nel contratto di agenzia;
  • vi sia un richiamo tacito, ossia se si può evincere l’applicazione continua e costante delle norme AEC da parte dei contraenti.[6]

Con riferimento a quest’ultimo punto, in Italia la Cassazione ha più volte avuto modo di affermare che gli AEC hanno efficacia vincolante:

“non solo per gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, ma anche per coloro che esplicitamente o implicitamente vi prestino adesione”[7]

Nel caso di contratto di agenzia internazionale, regolato dalla legge italiana, si pone il doppio problema sia dell’applicabilità degli AEC di diritto comune, che dei contratti collettivi con efficacia erga omnes.

Nel primo caso si ritiene debbano applicarsi i principi generali del diritto italiano qui sopra indicati. Ciò comporta che, nel caso in cui non sia iscritto ad alcuna associazione italiana degli agenti di commercio, gli AEC di diritto comune non saranno applicabili, neppure se il preponente (o l’agente) italiano sia iscritto al sindacato, salvo non ci sia un richiamo espresso o tacito alla contrattazione collettiva oppure .[8]

Con riferimento agli AEC erga omnes, al momento vi sono due orientamenti giurisprudenziali. Quello maggioritario, che ritiene che, gli AEC erga omnes non debbano applicarsi ai rapporti di agenzia soggetti alla legge italiana, ma da eseguirsi all’estero, posto che la contrattazione collettiva si applica ed e non ha per questo forza transnazionale.[9] L’orientamento minoritario, contrariamente, ritiene che possano applicarsi all’estero solamente quegli istituti contrattuali, che nell’intenzione delle parti sociali debbano avere efficacia internazionale.[10]

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[1] In attesa dell’attuazione del dettato costituzionale, nel 1959, è stata emanata la Legge n. 751/59, nota come legge Vigorelli: essa delegava il governo ad emanare decreti legislativi aventi lo scopo di individuare i minimi inderogabili di trattamento economico e normativo validi per tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi a quanto già statuito dagli accordi collettivi, cosiddetti contratti collettivi erga omnes.

[2] G. Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci, Bari, 2001, 58 ss; Le fondi del diritto del lavoro tra stato e ragione, Trojsi, Giappichelli, 2013, 82 ss.; Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, Atti delle Giornate di studio di Diritto del Lavoro. Ferrara, 11-12-13-maggio 2000, Giuffrè, Milano 2002, 49 ss.

[3] Rotondi, Codice commentato del rapporto di lavoro, Milano, 2008, 33; Persiani, Saggio sull'autonomia privata collettiva, Padova, 1972, 7

[4] Cass. Civ. 4850/2006; Cass. Civ.  41/2003; Cass. Civ.  8097/2002; Cass. Civ.  4570/1996; Cass. Civ.  13351/1991; Cass. Civ.  2198/1991.

[5] Cass. Civ. 1996 n. 319; Cass. Civ. 1993 n. 1359 ““i contratti collettivi di lavoro, non dichiarati efficaci erga omnes […] si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatta espressa adesione ai patti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costatene prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti”.

[6] Cass. Civ. 1993 n. 1359, In questo caso la Cassazione ha ritenuto applicabile l’AEC al rapporto al contratto di agenzia, seppure il preponente non fosse iscritto all’associazione sindacale e nel contratto non vi fosse alcun richiamo espresso: è stato invece riconosciuta l’esistenza di una prassi consolidata aziendale succedutasi del tempo, del rispetto del preponente della normativa collettiva.

[7] Cfr. Nota n. 9; Cass. Civ. 1999 n. 368

[8] Cfr. Nota n. 9; Bortolotti, Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2007.

[9] Cass. Civ. 1993 n. 4505; Bortolotti, Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2007.

[10] Cass. Civ. 1988 n. 5021.


Agente mono o plurimandatario? Quali sono gli obblighi contributivi del preponente?

Quando si parla di "monomandarietà" è importante sottolineare la differenza che intercorre tra l'agente monomandatario e l'agente che opera "in esclusiva";  quest'ultimo, infatti, è il soggetto che, da un lato si impegna a non svolgere alcuna attività in concorrenza e, quindi, ad assumere il mandato di agente per altri preponenti concorrenti, ma che, dall'altro lato, si riserva il diritto di lavorare come agente per altri preponente che non operano in settori differenti (agente plurimandatario).

Nel diritto italiano l’esclusiva dell’agente costituisce un elemento naturale del contratto: l’art. 1743 c.c., infatti, vieta all'agente di assumere l'incarico di trattare, nella stessa zona e per lo stesso ramo, gli affari di più imprese concorrenti tra loro. Nel contratto di agenzia l'esclusiva costituisce, pertanto, un diritto ed un obbligo normativamente regolato, previsto sia a favore che a carico di ciascuna delle parti[1] e che normalmente viene inserito nei contratti di agenzia.

Figura diversa rispetto a quella dell'agente in esclusiva è quella dell'agente monomandatario, ovvero l'agente che lavora per un solo preponente e che, pertanto, si impegna a non assumere alcun altro incarico di agenzia,[2] anche in riferimento a settori non in concorrenza e diversi rispetto a quello in cui opera il preponente.

La distinzione tra agente mono e plurimandatario ha una forte rilevanza in caso di applicazione degli AEC, che prevedono per l'agente monomandatario un regime più vantaggioso sotto vari aspetti, quali ad esempio, termini di preavviso più ampi, nonché modalità di calcolo dell’indennità di scioglimento e dell’indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale più favorevoli.

Indipendentemente dall'applicabilità degli AEC, tale distinzione ha sicuramente una grande rilevanza da un punto di vista previdenziale, in quanto sono previsti per l’agente monomandatario dei massimali contributivi maggiori rispetto all’agente plurimandatario.[3] Il motivo di questa differenza è collegata essenzialmente in ragione del più difficile esercizio dell’attività, conseguente al divieto di svolgerla per qualsiasi altro preponente.[4]

Con riferimento alla sussistenza o meno del rapporto di monomandarietà, la giurisprudenza non è univoca nel ritenere se la stessa debba risultare da un espresso accordo scritto tra le parti, oppure, contrariamente, possa derivare da una mera situazione di fatto. Tale contrasto giurisprudenziale, verte essenzialmente  intorno alla corretta interpretazione del dettato normativo e, più precisamente, all’interpretazione del d.m. 20.2.1974, all’art. 4, lett. c), che così dispone:

Il preponente entro tre mesi dalla data di inizio del rapporto deve fornire, utilizzando gli appositi moduli predisposti dallo ENASARCO o con altri mezzi, le seguenti indicazioni per ciascun agente o rappresentante di commercio: c) l'eventuale impegno dell'agente o rappresentante di commercio ad esercitare l'attività per un solo preponente

Secondo un primo orientamento il diritto dell’agente a percepire la (maggiore) contribuzione previdenziale come monomandatario, non può risultare da una semplice situazione di fatto; sul punto la Cassazione afferma che:

il massimale di contribuzione è riservato soltanto a quegli agenti o rappresentanti di commercio i quali si siano impegnati ad esercitare la loro attività nei confronti di un unico mandante; ciò può essere dimostrato dal fatto che, entro tre mesi dall’inizio del rapporto, il preponente abbia comunicato tale impegno esclusivo all’ENASARCO, nonché con ogni altro mezzo di prova della esistenza di un impegno od obbligo contrattuale con sun solo preponente, non essendo invece sufficiente il mero accertamento delle modalità di fatto con le quali il rapporto ha avuto in concreto svolgimento[5]

La Cassazione ha, quindi, ritenuto che “impegnato” significhi “obbligato”, con la conseguente irrilevanza dello svolgimento di un rapporto di agenzia con un unico preponente, ma senza l’assunzione di un vero e proprio obbligo di esclusiva, risultante da un accordo scritto tra le parti.

Contrario, in base ad un secondo orientamento della Cassazione, il diritto dell’agente monomandatario alla contribuzione su un più alto massimale:

sorge in funzione dell’esercizio effettivo dell’attività per un solo preponente, a prescindere dal riscontro dell’assunzione formale di uno specifico obbligo nei confronti di questi.”[6]

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[1] Baldi, Il contratto di agenzia, Milano, 2001, 70.

[2] Saracini, Toffoletto, Il contratto di agenzia, Milano, 2002, 213.

[3] http://www.enasarco.it/notizie/minimali_e_massimali_2017.

[4] Perina – Belligoli, Il rapporto di agenzia, Torino, 2015, 55.

[5] Cass. Civ. 1994, n. 1302; Cfr. anche Cass. Civ. 2000 n. 14444.

[6] Cass. Civ. 2007, n. 17080; Cass. Civ. 2002, n. 699; Cass. Civ. 2000, n. 4877.


Il fallimento del preponente. Per quali somme si può insinuare l’agente al passivo?

L’art. 2751-bis c. c., conferisce a favore dell’agente un privilegio generale sui mobili che si pone ex art. 2777 c.c. immediatamente dopo le spese di giustizia ed i crediti dei lavoratori subordinati. Tale articolo così recita:

Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: […] le provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l’ultimo anno di prestazione e le indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.

Tale norma costituisce uno dei diversi indici della tendenza legislativa ad assimilare l’agente al lavoratore subordinato; in forza di tale disposizione l’agente può vantare privilegio generale sui beni del debitore sia a tutela delle provvigioni maturate nell’ultimo anno di prestazioni, sia per le indennità dovute in conseguenza della cessazione del rapporto stesso.

Giova sottolineare che nel 2013 le Sezioni Unite[1] hanno definitivamente sancito che il principio per cui il privilegio generale previsto dalla norma in commento non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l’attività di agente.

Quanto al termine annuale previsto dall’art. 2751-bis c.c. esso è riferibile alle provvigioni e non invece alle altre voci indennitarie; inoltre, secondo dottrina[2] e giurisprudenza[3], tale ultimo anno non parte dalla data di dichiarazione dell’insolvenza, ma dalla cessazione del rapporto stesso, posto che nell’esplicita lettera della norma, si fa espresso riferimento all’ “ultimo anno di prestazione” e non di ultimo anno rispetto al fallimento. Bisogno precisare che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, in caso in cui il rapporto di agenzia fosse ancora in essere alla data del fallimento, tale periodo annuale dovrà considerarsi coincidere con la data della  dichiarazione del fallimento stesso.[4]

Molto importante sottolineare che l’art. 1748 c.c. dispone che:

“L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta.”

Alla luce di tale dettato normativo, pertanto, il privilegio comprende gli affari promossi dall’agente prima della cessazione del rapporto e conclusi sia prima, che dopo lo scioglimento[5] anche nel caso in cui gli stessi non siano stati ancora eseguiti dal preponente.[6]

Contrariamente, prescinde da qualsiasi riferimento o limitazione temporale il riconoscimento che l’art. 2751 bis n. 3 fa del privilegio relativo alle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.[7] Non si può dire lo stesso per l’indennità suppletiva di clientela, la quale costituisce un istituto di natura contrattuale e non normativa (disciplinato appunto dagli AEC) e pertanto non rientrante nel elenco tassativo previsto dalla norma oggetto di analisi.

Sulla base di quanto esposto, nel caso in cui il rapporto contrattuale sia terminato per fatto non imputabile all’agente e, a seguito dello scioglimento del rapporto, intervenga il fallimento del preponente, l’agente avrà diritto a insinuarsi al passivo, con privilegio generale, chiedendo le provvigioni relative all’ultimo anno di attività e le indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. nonnché, in caso di recesso ad nutum, l’indennità di mancato preavviso.

Un problema molto discusso riguarda invece gli effetti del fallimento su un rapporto di agenzia ancora in corso al momento della dichiarazione dell'insolvenza stessa. Infatti nel silenzio della legge, ci si chiede se, in caso di fallimento del preponente, il contratto di agenzia debba essere regolato dalla normativa generale di cui all’art. 72 della L.F. e pertanto debba essere sospeso nella sua esecuzione fino al momento in cui il curatore, autorizzato dal comitato dei creditori, dichiari di subentrarvi o di sciogliere il rapporto, ovvero debba applicarsi la norma dedicata al mandato (art. 78 L.F.), con la conseguenza che se fallisce il preponente si ha scioglimento automatico del contratto stesso.

Tale questione ha grandissima rilevanza pratica, infatti, qualora debba ritenersi applicabile l’art. 72 L.F., il rapporto contrattuale non viene sciolto a seguito della mera dichiarazione di fallimento, bensì rimane sospeso in una sorta di fase di quiescenza, fintantoché il curatore non opti per la prosecuzione ovvero cessazione del relativo rapporto negoziale, con conseguente diritto, in tal ultimo caso, dell’agente alle indennità di fine rapporto. In caso contrario, ossia di applicazione dell’art. 78 L.F., lo scioglimento opera di diritto, con conseguente esclusione del diritto dell’agente alla corresponsione delle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.

La giurisprudenza maggioritaria sul punto ritiene che:

con riferimento al contratto di agenzia, in virtù del peculiare carattere fiduciario del rapporto di preposizione, in caso di fallimento, non è applicabile la nuova regola generale contenuta nell’art. 72 L.F., ed anzi il contratto si scioglie ope legis, con esclusione del diritto dell’agente alla corresponsione dell’indennità per cessato rapporto e di mancato preavviso appunto in conseguenza dell’operatività dello scioglimento del contratto per causa indipendente dalla volontà delle parti.[8]

Contrariamente, in caso si ritenga applicabile la disciplina generale di cui all’art. 72 L.F. ed il curatore opti per la prosecuzione del rapporto, i crediti dell’agente maturati a seguito dello svolgimento della propria attività in pendenza del fallimento, si insinuano in prededuzione per l’attività compiuta dopo la dichiarazione di insolvenza ex art. 111 c. 1 n. 1 L. F.[9]

Da ultimo si tiene a precisare che, con riguardo ai contributi versati presso l’istituto ENASARCO essi non avendo né natura indennitaria, né provvigionale, non sono coperti dal privilegio ex art. 2751 bis c.c. e neppure possono rientrare nella previsione dell’art. 2753 c.c., esclusivo del lavoro subordinato.[10]

 

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[1] Cass. Civ. Sez. Un. 2013 n. 27986.

[2] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag.  299, 2015, Milano.

[3] Trib. Perugia 30.12.1991; Trib. Roma 19.9.2007.

[4] Trib. Prato 18 gennaio 2012, in Fallimento 2012, pag. 583, con breve nota di COMMISSO, Scioglimento ex lege del contratto di agenzia in caso di fallimento del preponente.

[5] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag.  300, 2015, Milano.

[6] Cass. Civ. 2011, n. 9539.

[7] Trib. Roma 19 settembre 2007.

[8] Trib. Prato 18 gennaio 2012, in Fallimento 2012, pag. 583, con breve nota di COMMISSO, Scioglimento ex lege del contratto di agenzia in caso di fallimento del preponente

[9] Memento Pratico, Crisi di impresa e fallimento, pag. 435, nr. 3100, 2016, Ipsoa.

[10] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag.  299, 2015, Milano


Quali sono le garanzie del venditore/produttore per i difetti materiali della cosa venduta?

La disciplina della garanzia dei vizi materiali (e non giuridici) viene regolamentata agli artt. 1490 e ss. c.c. Nello specifico essa è così suddivisa: gli articoli 1490-1496 disciplinano la garanzia per vizi della cosa, mentre l’art. 1497 c.c. disciplina la garanzia per mancanza di qualità.

La giurisprudenza italiana ha sviluppato, a fianco a queste garanzie, una ulteriore conosciuta come “aliud pro alio”, che si ha tutte le volte in cui il vizio materiale della cosa venduta è talmente grave, da rendere completamente inidoneo il bene ad assolvere la funzione per cui era stata acquistata.

Per quanto possibile, stante la complessità e l’articolazione della questione, si va qui di seguito a cercare di distinguere le varie discipline di garanzie conosciute dall’ordinamento italiano.

      a) Garanzia per vizi (art. 1490-1496 c.c.)

Tale garanzia è dovuta dal venditore solamente se al momento della stipulazione del contratto, il compratore ignorava l’esistenza dei vizi ovvero se tale ignoranza non sia colpevole, posto che i vizi non erano facilmente riconoscibili (art. 1491 c.c.).[1]

Circa il contenuto, essa conferisce al compratore la possibilità di agire per chiedere a sua discrezione la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.), oltre in ogni caso al risarcimento (art. 1494 c.c.). Esclusa da tale garanzia è invece l’azione da esatto adempimento, ossia l’azione con la quale si chiede al venditore di eliminare i vizi, riparando il bene oggetto della compravendita.[2]

Importante evidenziare che la scelta dell’azione di riduzione del prezzo e quella di risoluzione del contratto è irrevocabile una volta che è stata fatta tramite domanda giudiziale (art. 1492, comma 2 c.c.), non potendo una parte neppure promuovere una azione chiedendo la riduzione del prezzo in via subordinata rispetto alla domanda di risoluzione del contratto, o viceversa.[3]

Infine, le parti hanno facoltà di escludere tale garanzia per vizi, con il solo limite al caso in cui i vizi sono taciuti in mala fede dal venditore. Particolare attenzione deve essere data alle clausole di esonero di garanzia (la cui trattazione da sola richiederebbe un ben più ampio approfondimento), che rientrano nella disciplina speciale prevista dall’art. 1341 c.c.,[4] che regola le cosiddette “clausole vessatorie” e che prevede l’obbligo di sottoscrivere espressamente la clausola con doppia firma, pena la nullità della clausola in caso di mancata doppia sottoscrizione.[5]

      b) Garanzie per mancanza di qualità ex art. 1497 c.c.

Mentre il vizio consiste in una imperfezione/difetto del bene, la mancanza di qualità si ha ogni volta che la cosa (seppure non presenti difetti di fabbricazione/formazione/conservazione) è ascrivibile ad una specie piuttosto che ad un’altra, pur nell’ambito di un medesimo genere.[6]

La disciplina di questa garanzia è particolare, in quanto da una parte l’art. 1497 c.c., comma 1, la assoggettata ai termini di denuncia e prescrizione previsti per la vendita, all’art. 1495 c.c. (e che saranno oggetto di successiva trattazione cfr. paragrafo nr. X), ma dall’altro lato se ne distacca, posto che l’art. 1497 c.c. comma 2, dispone che la risoluzione del contratto è ammessa “secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento”.

Seppure la giurisprudenza nel tempo è sempre stata oscillante nel ritenere se la presenza di vizi e la mancanza di qualità debbano essere o meno soggette alla stessa disciplina,[7] le più recenti sentenze, sembrano ritenere che l’azione ex art. 1497 c.c. si differenzia rispetto a quella per garanzia per vizi, in quanto nella prima:

  • il compratore può esercitare l’azione di esatto adempimento (ex art. 1453 c.c.);
  • il compratore non potrebbe richiedere la riduzione del prezzo, in quanto non prevista dalla disciplina generale dell’inadempimento.[8]
     c) L’“aliud pro alio”

Si ha aliud pro alio, quando la cosa venduta appartiene ad un genere del tutto diverso da quello della cosa consegnata, oppure presenta difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti.[9] Si pensi, ad esempio alla cessione di un'opera d'arte falsamente attribuita ad artista. Tale ipotesi legittima l'acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, ex art. 1453;[10] oppure alla vendita di case non abitabili o comunque prive dei requisiti di abitabilità (C. 8880/2000) o di macchine con numero di telaio contraffatto (C. 7561/2006).

In caso di aliud pro alio, il compratore non è soggetto ad alcun onere di denuncia, ma ha la possibilità sia di domandare l'adempimento, sia di esperire l'azione di risoluzione e secondo quanto stabilito dall'art. 1453 il venditore sarà responsabile solo se colpevole, secondo i principi generali che regolano l'inadempimento e, quindi, soggetta al termine di prescrizione ordinario di dieci anni.[11]

      d) Risarcimento del danno

Nel caso di difetti materiali della cosa, l’acquirente ha diritto, oltre a chiedere la risoluzione del danno o la riduzione del prezzo, anche il risarcimento del danno.  L’art. 1494 c.c. prevede inoltre una presunzione di colpa in capo al venditore, il quale è tenuto a provare di avere ignorato incolpevolmente la sussistenza dei vizi della cosa.

La conforme giurisprudenza ritiene che l'acquirente deve essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui egli si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi, ma non quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto o se lo avesse concluso ad un prezzo inferiore.[12] Inoltre il compratore può domandare anche il risarcimento delle spese impiegate per eliminare i vizi, a prescindere dalla effettiva eliminazione dei vizi stessi.[13]

      e) Applicazione della Convenzione di Vienna e del codice del consumo

Giova notare che la distinzione tra vizi, mancanza di qualità, difettoso funzionamento, aliud pro alio e responsabilità ordinaria sono state superate dalla Convenzione di Vienna, che prevede, agli artt. 35-41, strumenti di tutela del compratore omogenei per tutte le ipotesi di difformità della cosa consegnata rispetto a quella pattuita.

L’art. 35 fissa due criteri per valutare se la merce consegnata è priva di difetti di vizi, da un lato quello della conformità a quanto pattuito tra le parti e, nel caso in cui tale pattuizione manchi, una serie di criteri sussidiari.[14]

Quanto ai rimedi offerti dalla Convenzione essi sono: la richiesta di adempimento (art. 46)[15], di risoluzione del contratto (art. 47),[16] riduzione del prezzo (art. 50)[17] e risarcimento del danno (art. 45).[18]

Nella stessa direzione si è mossa la direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24 (che ha introdotto nel codice civile gli artt. 1519 bis-1519 novies) e relativa alla vendita di beni di consumo. La nuova disciplina prevede, a carico del venditore professionista, una garanzia unitaria per tutti le ipotesi di "difetto di conformità" del bene dal contratto, legittimante il consumatore a domandare, a sua scelta, la riparazione del bene o la risoluzione del contratto.

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[1] La riconoscibilità del vizio è esclusa nel caso in cui la vendita è stata conclusa a distanza, ovvero nel caso in cui il bene/la merce fosse imballata o confezionata

[2] Tale esonero è valido, ovviamente, per la vendita tra professionisti, posto che il nuovo codice del consumo, che è stato introdotto in Italia con il recepimento della direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24.

[3] Cass. Civ. 2015, nr. 17138; Cass. Civ. 2004, n. 1434.

[4] Articolo 1341. "Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (1370, 2211).

In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, (1229), facoltà di recedere dal contratto(1373) o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze (2964 e seguenti), limitazioni alla facolt di opporre eccezioni (1462), restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (1379, 2557, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie (Cod. Proc. Civ. 808) o deroghe (Cod. Proc. Civ. 6) alla competenza dell’autorità giudiziaria"

[5] Secondo autorevole dottrina (Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981) e giurisprudenza (Cass. Civ. 2007, nr. 1126) sostengono che il requisito della doppia sottoscrizione di cui all’art. 1341 c.c. non sia invocabile e, quindi, venga derogato in caso di applicazione della Convenzione di Vienna. Contra dottrina minoritaria (Pischedda P. ‘‘L’evoluzione dell’assicurazione del credito export’’ IPSOA, 2007).

[6] Con riferimento alle qualità che il bene compravenduto deve avere, esso è determinato nell’orientamenti italiano, dal criterio della “qualità media”, che opera (esclusivamente) nella vendita di cose generiche. Tale criterio richiede che le singole qualità sussistano in quella misura ordinaria che conferisce al bene un valore medio (art. 1178 c.c.).

[7] Cass. Civ. 1978 nr. 5361; Cass. Civ. 1978 nr. 206.

[8] Cass. Civ. 2000, nr. 639.

[9] In tema di distinzione tra vizio ed aluid pro alio la Cassazione recentemente è intervenuta affermando che si ha vizio redibitorio oppure mancanza di qualità essenziali della cosa consegnata qualora questa presenti imperfezioni che la rendano inidonea all'uso cui dovrebbe essere destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, ovvero appartenga ad un tipo diverso o ad una specie diversa da quella pattuita; si ha, invece, consegna di aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ai sensi dell'art. 1453, svincolata dai termini di decadenza e prescrizione, qualora il bene consegnato sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l'utilità richiesta. C. 5202/2007; C. 686/2006; C. 14586/2004; C. 18757/2004; C. 13925/2002; C. 5153/2002; C. 2659/2001; C. 10188/2000; C. 2712/1999; C. 4899/1998; C. 1038/1998; C. 844/1997; C. 244/1997; C. 5963/1996; C. 593/1995; C. 8537/1994; C. 1866/1992; C. 13268/1991; A. Roma 29.5.2008.

[10] Cass. Civ. 2008 nr. 17995.

[11] Cass. Civ. 2016, nr. 2313.

[12] Cass. Civ. 2000, nr. 7718; Cass. Civ. 1995, nr. 1153.

[13] Cass. Civ. 1990, nr. 8336.

[14] Art. 35 secondo comma “A meno che le parti non convengano altrimenti, le merci sono conformi al contratto solo se: a) sono atte agli usi ai quali servirebbero abitualmente merci dello stesso genere; b) sono atte ad ogni uso speciale, espressamente o tacitamente portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto, a meno che risulti dalle circostanze che l'acquirente non si è affidato alla competenza o alla valutazione del venditore o che non era ragionevole da parte sua farlo; c  possiedono le qualità di una merce che il venditore ha presentato all'acquirente come campione o modello; d) sono imballate o confezionate secondo i criteri usuali per le merci dello stesso tipo, oppure, in difetto di un criterio usuale, in maniera adatta a conservarle e proteggerli.”

[15] Azione esperibile, purché non abbia fatto ricorso ad un rimedio incompatibile. Può inoltre chiedere la sostituzione della merce, in presenza di un inadempimento essenziale ex art. 25. La riparazione può essere richiesta invece ove non appaia irragionevole, tenuto conto di tutte le circostanze. Cfr. sul punto Bortolotti, Il contratto di vendita internazionale, CEDAM, 2012, pag. 260.

[16] La risoluzione del contratto e conseguente restituzione delle prestazioni effettuate, può essere richiesta solamente in caso di inadempimento essenziale o in caso di mancata consegna della merce entro un termine ragionevole supplementare fissato dal compratore ex art. 47.

[17] Tale richiesta non può essere avanzate se il venditore rimedia il difetto o se il compratore rifiuta la prestazione del venditore.

[18] Il danno è costituito dalla perdita subita a causa dell’inadempimento e dal mancato guadagno. Ad ogni modo il danno risarcibile non può superare la perdita che il venditore aveva previsto o avrebbe dovuto prevedere al momento della conclusione del contratto (art. 74), dovendo comunque il compratore adottare le misure ragionevoli per limitare il danno, potendo in caso contrario la parte inadempiente ridurre l’entità del risarcimento pari all’ammontare della perdita che avrebbe potuto evitare (art. 77).