Agente mono o plurimandatario? Quali sono gli obblighi contributivi del preponente?
Quando si parla di "monomandarietà" è importante sottolineare la differenza che intercorre tra l'agente monomandatario e l'agente che opera "in esclusiva"; quest'ultimo, infatti, è il soggetto che, da un lato si impegna a non svolgere alcuna attività in concorrenza e, quindi, ad assumere il mandato di agente per altri preponenti concorrenti, ma che, dall'altro lato, si riserva il diritto di lavorare come agente per altri preponente che non operano in settori differenti (agente plurimandatario).
Nel diritto italiano l’esclusiva dell’agente costituisce un elemento naturale del contratto: l’art. 1743 c.c., infatti, vieta all'agente di assumere l'incarico di trattare, nella stessa zona e per lo stesso ramo, gli affari di più imprese concorrenti tra loro. Nel contratto di agenzia l'esclusiva costituisce, pertanto, un diritto ed un obbligo normativamente regolato, previsto sia a favore che a carico di ciascuna delle parti[1] e che normalmente viene inserito nei contratti di agenzia.
Figura diversa rispetto a quella dell'agente in esclusiva è quella dell'agente monomandatario, ovvero l'agente che lavora per un solo preponente e che, pertanto, si impegna a non assumere alcun altro incarico di agenzia,[2] anche in riferimento a settori non in concorrenza e diversi rispetto a quello in cui opera il preponente.
La distinzione tra agente mono e plurimandatario ha una forte rilevanza in caso di applicazione degli AEC, che prevedono per l'agente monomandatario un regime più vantaggioso sotto vari aspetti, quali ad esempio, termini di preavviso più ampi, nonché modalità di calcolo dell’indennità di scioglimento e dell’indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale più favorevoli.
Indipendentemente dall'applicabilità degli AEC, tale distinzione ha sicuramente una grande rilevanza da un punto di vista previdenziale, in quanto sono previsti per l’agente monomandatario dei massimali contributivi maggiori rispetto all’agente plurimandatario.[3] Il motivo di questa differenza è collegata essenzialmente in ragione del più difficile esercizio dell’attività, conseguente al divieto di svolgerla per qualsiasi altro preponente.[4]
Con riferimento alla sussistenza o meno del rapporto di monomandarietà, la giurisprudenza non è univoca nel ritenere se la stessa debba risultare da un espresso accordo scritto tra le parti, oppure, contrariamente, possa derivare da una mera situazione di fatto. Tale contrasto giurisprudenziale, verte essenzialmente intorno alla corretta interpretazione del dettato normativo e, più precisamente, all’interpretazione del d.m. 20.2.1974, all’art. 4, lett. c), che così dispone:
“Il preponente entro tre mesi dalla data di inizio del rapporto deve fornire, utilizzando gli appositi moduli predisposti dallo ENASARCO o con altri mezzi, le seguenti indicazioni per ciascun agente o rappresentante di commercio: c) l'eventuale impegno dell'agente o rappresentante di commercio ad esercitare l'attività per un solo preponente”
Secondo un primo orientamento il diritto dell’agente a percepire la (maggiore) contribuzione previdenziale come monomandatario, non può risultare da una semplice situazione di fatto; sul punto la Cassazione afferma che:
“il massimale di contribuzione è riservato soltanto a quegli agenti o rappresentanti di commercio i quali si siano impegnati ad esercitare la loro attività nei confronti di un unico mandante; ciò può essere dimostrato dal fatto che, entro tre mesi dall’inizio del rapporto, il preponente abbia comunicato tale impegno esclusivo all’ENASARCO, nonché con ogni altro mezzo di prova della esistenza di un impegno od obbligo contrattuale con sun solo preponente, non essendo invece sufficiente il mero accertamento delle modalità di fatto con le quali il rapporto ha avuto in concreto svolgimento”[5]
La Cassazione ha, quindi, ritenuto che “impegnato” significhi “obbligato”, con la conseguente irrilevanza dello svolgimento di un rapporto di agenzia con un unico preponente, ma senza l’assunzione di un vero e proprio obbligo di esclusiva, risultante da un accordo scritto tra le parti.
Contrario, in base ad un secondo orientamento della Cassazione, il diritto dell’agente monomandatario alla contribuzione su un più alto massimale:
“sorge in funzione dell’esercizio effettivo dell’attività per un solo preponente, a prescindere dal riscontro dell’assunzione formale di uno specifico obbligo nei confronti di questi.”[6]
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[1] Baldi, Il contratto di agenzia, Milano, 2001, 70.
[2] Saracini, Toffoletto, Il contratto di agenzia, Milano, 2002, 213.
[3] http://www.enasarco.it/notizie/minimali_e_massimali_2017.
[4] Perina – Belligoli, Il rapporto di agenzia, Torino, 2015, 55.
[5] Cass. Civ. 1994, n. 1302; Cfr. anche Cass. Civ. 2000 n. 14444.
[6] Cass. Civ. 2007, n. 17080; Cass. Civ. 2002, n. 699; Cass. Civ. 2000, n. 4877.
Il fallimento del preponente. Per quali somme si può insinuare l’agente al passivo?
L’art. 2751-bis c. c., conferisce a favore dell’agente un privilegio generale sui mobili che si pone ex art. 2777 c.c. immediatamente dopo le spese di giustizia ed i crediti dei lavoratori subordinati. Tale articolo così recita:
“Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: […] le provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l’ultimo anno di prestazione e le indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.”
Tale norma costituisce uno dei diversi indici della tendenza legislativa ad assimilare l’agente al lavoratore subordinato; in forza di tale disposizione l’agente può vantare privilegio generale sui beni del debitore sia a tutela delle provvigioni maturate nell’ultimo anno di prestazioni, sia per le indennità dovute in conseguenza della cessazione del rapporto stesso.
Giova sottolineare che nel 2013 le Sezioni Unite[1] hanno definitivamente sancito che il principio per cui il privilegio generale previsto dalla norma in commento non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l’attività di agente.
Quanto al termine annuale previsto dall’art. 2751-bis c.c. esso è riferibile alle provvigioni e non invece alle altre voci indennitarie; inoltre, secondo dottrina[2] e giurisprudenza[3], tale ultimo anno non parte dalla data di dichiarazione dell’insolvenza, ma dalla cessazione del rapporto stesso, posto che nell’esplicita lettera della norma, si fa espresso riferimento all’ “ultimo anno di prestazione” e non di ultimo anno rispetto al fallimento. Bisogno precisare che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, in caso in cui il rapporto di agenzia fosse ancora in essere alla data del fallimento, tale periodo annuale dovrà considerarsi coincidere con la data della dichiarazione del fallimento stesso.[4]
Molto importante sottolineare che l’art. 1748 c.c. dispone che:
“L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta.”
Alla luce di tale dettato normativo, pertanto, il privilegio comprende gli affari promossi dall’agente prima della cessazione del rapporto e conclusi sia prima, che dopo lo scioglimento[5] anche nel caso in cui gli stessi non siano stati ancora eseguiti dal preponente.[6]
Contrariamente, prescinde da qualsiasi riferimento o limitazione temporale il riconoscimento che l’art. 2751 bis n. 3 fa del privilegio relativo alle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.[7] Non si può dire lo stesso per l’indennità suppletiva di clientela, la quale costituisce un istituto di natura contrattuale e non normativa (disciplinato appunto dagli AEC) e pertanto non rientrante nel elenco tassativo previsto dalla norma oggetto di analisi.
Sulla base di quanto esposto, nel caso in cui il rapporto contrattuale sia terminato per fatto non imputabile all’agente e, a seguito dello scioglimento del rapporto, intervenga il fallimento del preponente, l’agente avrà diritto a insinuarsi al passivo, con privilegio generale, chiedendo le provvigioni relative all’ultimo anno di attività e le indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. nonnché, in caso di recesso ad nutum, l’indennità di mancato preavviso.
Un problema molto discusso riguarda invece gli effetti del fallimento su un rapporto di agenzia ancora in corso al momento della dichiarazione dell'insolvenza stessa. Infatti nel silenzio della legge, ci si chiede se, in caso di fallimento del preponente, il contratto di agenzia debba essere regolato dalla normativa generale di cui all’art. 72 della L.F. e pertanto debba essere sospeso nella sua esecuzione fino al momento in cui il curatore, autorizzato dal comitato dei creditori, dichiari di subentrarvi o di sciogliere il rapporto, ovvero debba applicarsi la norma dedicata al mandato (art. 78 L.F.), con la conseguenza che se fallisce il preponente si ha scioglimento automatico del contratto stesso.
Tale questione ha grandissima rilevanza pratica, infatti, qualora debba ritenersi applicabile l’art. 72 L.F., il rapporto contrattuale non viene sciolto a seguito della mera dichiarazione di fallimento, bensì rimane sospeso in una sorta di fase di quiescenza, fintantoché il curatore non opti per la prosecuzione ovvero cessazione del relativo rapporto negoziale, con conseguente diritto, in tal ultimo caso, dell’agente alle indennità di fine rapporto. In caso contrario, ossia di applicazione dell’art. 78 L.F., lo scioglimento opera di diritto, con conseguente esclusione del diritto dell’agente alla corresponsione delle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo.
La giurisprudenza maggioritaria sul punto ritiene che:
“con riferimento al contratto di agenzia, in virtù del peculiare carattere fiduciario del rapporto di preposizione, in caso di fallimento, non è applicabile la nuova regola generale contenuta nell’art. 72 L.F., ed anzi il contratto si scioglie ope legis, con esclusione del diritto dell’agente alla corresponsione dell’indennità per cessato rapporto e di mancato preavviso appunto in conseguenza dell’operatività dello scioglimento del contratto per causa indipendente dalla volontà delle parti.”[8]
Contrariamente, in caso si ritenga applicabile la disciplina generale di cui all’art. 72 L.F. ed il curatore opti per la prosecuzione del rapporto, i crediti dell’agente maturati a seguito dello svolgimento della propria attività in pendenza del fallimento, si insinuano in prededuzione per l’attività compiuta dopo la dichiarazione di insolvenza ex art. 111 c. 1 n. 1 L. F.[9]
Da ultimo si tiene a precisare che, con riguardo ai contributi versati presso l’istituto ENASARCO essi non avendo né natura indennitaria, né provvigionale, non sono coperti dal privilegio ex art. 2751 bis c.c. e neppure possono rientrare nella previsione dell’art. 2753 c.c., esclusivo del lavoro subordinato.[10]
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[1] Cass. Civ. Sez. Un. 2013 n. 27986.
[2] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag. 299, 2015, Milano.
[3] Trib. Perugia 30.12.1991; Trib. Roma 19.9.2007.
[4] Trib. Prato 18 gennaio 2012, in Fallimento 2012, pag. 583, con breve nota di COMMISSO, Scioglimento ex lege del contratto di agenzia in caso di fallimento del preponente.
[5] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag. 300, 2015, Milano.
[6] Cass. Civ. 2011, n. 9539.
[7] Trib. Roma 19 settembre 2007.
[8] Trib. Prato 18 gennaio 2012, in Fallimento 2012, pag. 583, con breve nota di COMMISSO, Scioglimento ex lege del contratto di agenzia in caso di fallimento del preponente
[9] Memento Pratico, Crisi di impresa e fallimento, pag. 435, nr. 3100, 2016, Ipsoa.
[10] Venezia – Baldi, Il contratto di agenzia, pag. 299, 2015, Milano
Quali sono le garanzie del venditore/produttore per i difetti materiali della cosa venduta?
La disciplina della garanzia dei vizi materiali (e non giuridici) viene regolamentata agli artt. 1490 e ss. c.c. Nello specifico essa è così suddivisa: gli articoli 1490-1496 disciplinano la garanzia per vizi della cosa, mentre l’art. 1497 c.c. disciplina la garanzia per mancanza di qualità.
La giurisprudenza italiana ha sviluppato, a fianco a queste garanzie, una ulteriore conosciuta come “aliud pro alio”, che si ha tutte le volte in cui il vizio materiale della cosa venduta è talmente grave, da rendere completamente inidoneo il bene ad assolvere la funzione per cui era stata acquistata.
Per quanto possibile, stante la complessità e l’articolazione della questione, si va qui di seguito a cercare di distinguere le varie discipline di garanzie conosciute dall’ordinamento italiano.
a) Garanzia per vizi (art. 1490-1496 c.c.)
Tale garanzia è dovuta dal venditore solamente se al momento della stipulazione del contratto, il compratore ignorava l’esistenza dei vizi ovvero se tale ignoranza non sia colpevole, posto che i vizi non erano facilmente riconoscibili (art. 1491 c.c.).[1]
Circa il contenuto, essa conferisce al compratore la possibilità di agire per chiedere a sua discrezione la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.), oltre in ogni caso al risarcimento (art. 1494 c.c.). Esclusa da tale garanzia è invece l’azione da esatto adempimento, ossia l’azione con la quale si chiede al venditore di eliminare i vizi, riparando il bene oggetto della compravendita.[2]
Importante evidenziare che la scelta dell’azione di riduzione del prezzo e quella di risoluzione del contratto è irrevocabile una volta che è stata fatta tramite domanda giudiziale (art. 1492, comma 2 c.c.), non potendo una parte neppure promuovere una azione chiedendo la riduzione del prezzo in via subordinata rispetto alla domanda di risoluzione del contratto, o viceversa.[3]
Infine, le parti hanno facoltà di escludere tale garanzia per vizi, con il solo limite al caso in cui i vizi sono taciuti in mala fede dal venditore. Particolare attenzione deve essere data alle clausole di esonero di garanzia (la cui trattazione da sola richiederebbe un ben più ampio approfondimento), che rientrano nella disciplina speciale prevista dall’art. 1341 c.c.,[4] che regola le cosiddette “clausole vessatorie” e che prevede l’obbligo di sottoscrivere espressamente la clausola con doppia firma, pena la nullità della clausola in caso di mancata doppia sottoscrizione.[5]
b) Garanzie per mancanza di qualità ex art. 1497 c.c.
Mentre il vizio consiste in una imperfezione/difetto del bene, la mancanza di qualità si ha ogni volta che la cosa (seppure non presenti difetti di fabbricazione/formazione/conservazione) è ascrivibile ad una specie piuttosto che ad un’altra, pur nell’ambito di un medesimo genere.[6]
La disciplina di questa garanzia è particolare, in quanto da una parte l’art. 1497 c.c., comma 1, la assoggettata ai termini di denuncia e prescrizione previsti per la vendita, all’art. 1495 c.c. (e che saranno oggetto di successiva trattazione cfr. paragrafo nr. X), ma dall’altro lato se ne distacca, posto che l’art. 1497 c.c. comma 2, dispone che la risoluzione del contratto è ammessa “secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento”.
Seppure la giurisprudenza nel tempo è sempre stata oscillante nel ritenere se la presenza di vizi e la mancanza di qualità debbano essere o meno soggette alla stessa disciplina,[7] le più recenti sentenze, sembrano ritenere che l’azione ex art. 1497 c.c. si differenzia rispetto a quella per garanzia per vizi, in quanto nella prima:
- il compratore può esercitare l’azione di esatto adempimento (ex art. 1453 c.c.);
- il compratore non potrebbe richiedere la riduzione del prezzo, in quanto non prevista dalla disciplina generale dell’inadempimento.[8]
c) L’“aliud pro alio”
Si ha aliud pro alio, quando la cosa venduta appartiene ad un genere del tutto diverso da quello della cosa consegnata, oppure presenta difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti.[9] Si pensi, ad esempio alla cessione di un'opera d'arte falsamente attribuita ad artista. Tale ipotesi legittima l'acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, ex art. 1453;[10] oppure alla vendita di case non abitabili o comunque prive dei requisiti di abitabilità (C. 8880/2000) o di macchine con numero di telaio contraffatto (C. 7561/2006).
In caso di aliud pro alio, il compratore non è soggetto ad alcun onere di denuncia, ma ha la possibilità sia di domandare l'adempimento, sia di esperire l'azione di risoluzione e secondo quanto stabilito dall'art. 1453 il venditore sarà responsabile solo se colpevole, secondo i principi generali che regolano l'inadempimento e, quindi, soggetta al termine di prescrizione ordinario di dieci anni.[11]
d) Risarcimento del danno
Nel caso di difetti materiali della cosa, l’acquirente ha diritto, oltre a chiedere la risoluzione del danno o la riduzione del prezzo, anche il risarcimento del danno. L’art. 1494 c.c. prevede inoltre una presunzione di colpa in capo al venditore, il quale è tenuto a provare di avere ignorato incolpevolmente la sussistenza dei vizi della cosa.
La conforme giurisprudenza ritiene che l'acquirente deve essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui egli si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi, ma non quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto o se lo avesse concluso ad un prezzo inferiore.[12] Inoltre il compratore può domandare anche il risarcimento delle spese impiegate per eliminare i vizi, a prescindere dalla effettiva eliminazione dei vizi stessi.[13]
e) Applicazione della Convenzione di Vienna e del codice del consumo
Giova notare che la distinzione tra vizi, mancanza di qualità, difettoso funzionamento, aliud pro alio e responsabilità ordinaria sono state superate dalla Convenzione di Vienna, che prevede, agli artt. 35-41, strumenti di tutela del compratore omogenei per tutte le ipotesi di difformità della cosa consegnata rispetto a quella pattuita.
L’art. 35 fissa due criteri per valutare se la merce consegnata è priva di difetti di vizi, da un lato quello della conformità a quanto pattuito tra le parti e, nel caso in cui tale pattuizione manchi, una serie di criteri sussidiari.[14]
Quanto ai rimedi offerti dalla Convenzione essi sono: la richiesta di adempimento (art. 46)[15], di risoluzione del contratto (art. 47),[16] riduzione del prezzo (art. 50)[17] e risarcimento del danno (art. 45).[18]
Nella stessa direzione si è mossa la direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24 (che ha introdotto nel codice civile gli artt. 1519 bis-1519 novies) e relativa alla vendita di beni di consumo. La nuova disciplina prevede, a carico del venditore professionista, una garanzia unitaria per tutti le ipotesi di "difetto di conformità" del bene dal contratto, legittimante il consumatore a domandare, a sua scelta, la riparazione del bene o la risoluzione del contratto.
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[1] La riconoscibilità del vizio è esclusa nel caso in cui la vendita è stata conclusa a distanza, ovvero nel caso in cui il bene/la merce fosse imballata o confezionata
[2] Tale esonero è valido, ovviamente, per la vendita tra professionisti, posto che il nuovo codice del consumo, che è stato introdotto in Italia con il recepimento della direttiva 25.5.1999, n. 1999/44/CE, attuata con il D.Lgs. 2.2.2002, n. 24.
[3] Cass. Civ. 2015, nr. 17138; Cass. Civ. 2004, n. 1434.
[4] Articolo 1341. "Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (1370, 2211).
In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, (1229), facoltà di recedere dal contratto(1373) o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze (2964 e seguenti), limitazioni alla facolt di opporre eccezioni (1462), restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (1379, 2557, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie (Cod. Proc. Civ. 808) o deroghe (Cod. Proc. Civ. 6) alla competenza dell’autorità giudiziaria"
[5] Secondo autorevole dottrina (Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981) e giurisprudenza (Cass. Civ. 2007, nr. 1126) sostengono che il requisito della doppia sottoscrizione di cui all’art. 1341 c.c. non sia invocabile e, quindi, venga derogato in caso di applicazione della Convenzione di Vienna. Contra dottrina minoritaria (Pischedda P. ‘‘L’evoluzione dell’assicurazione del credito export’’ IPSOA, 2007).
[6] Con riferimento alle qualità che il bene compravenduto deve avere, esso è determinato nell’orientamenti italiano, dal criterio della “qualità media”, che opera (esclusivamente) nella vendita di cose generiche. Tale criterio richiede che le singole qualità sussistano in quella misura ordinaria che conferisce al bene un valore medio (art. 1178 c.c.).
[7] Cass. Civ. 1978 nr. 5361; Cass. Civ. 1978 nr. 206.
[8] Cass. Civ. 2000, nr. 639.
[9] In tema di distinzione tra vizio ed aluid pro alio la Cassazione recentemente è intervenuta affermando che si ha vizio redibitorio oppure mancanza di qualità essenziali della cosa consegnata qualora questa presenti imperfezioni che la rendano inidonea all'uso cui dovrebbe essere destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, ovvero appartenga ad un tipo diverso o ad una specie diversa da quella pattuita; si ha, invece, consegna di aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ai sensi dell'art. 1453, svincolata dai termini di decadenza e prescrizione, qualora il bene consegnato sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l'utilità richiesta. C. 5202/2007; C. 686/2006; C. 14586/2004; C. 18757/2004; C. 13925/2002; C. 5153/2002; C. 2659/2001; C. 10188/2000; C. 2712/1999; C. 4899/1998; C. 1038/1998; C. 844/1997; C. 244/1997; C. 5963/1996; C. 593/1995; C. 8537/1994; C. 1866/1992; C. 13268/1991; A. Roma 29.5.2008.
[10] Cass. Civ. 2008 nr. 17995.
[11] Cass. Civ. 2016, nr. 2313.
[12] Cass. Civ. 2000, nr. 7718; Cass. Civ. 1995, nr. 1153.
[13] Cass. Civ. 1990, nr. 8336.
[14] Art. 35 secondo comma “A meno che le parti non convengano altrimenti, le merci sono conformi al contratto solo se: a) sono atte agli usi ai quali servirebbero abitualmente merci dello stesso genere; b) sono atte ad ogni uso speciale, espressamente o tacitamente portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto, a meno che risulti dalle circostanze che l'acquirente non si è affidato alla competenza o alla valutazione del venditore o che non era ragionevole da parte sua farlo; c possiedono le qualità di una merce che il venditore ha presentato all'acquirente come campione o modello; d) sono imballate o confezionate secondo i criteri usuali per le merci dello stesso tipo, oppure, in difetto di un criterio usuale, in maniera adatta a conservarle e proteggerli.”
[15] Azione esperibile, purché non abbia fatto ricorso ad un rimedio incompatibile. Può inoltre chiedere la sostituzione della merce, in presenza di un inadempimento essenziale ex art. 25. La riparazione può essere richiesta invece ove non appaia irragionevole, tenuto conto di tutte le circostanze. Cfr. sul punto Bortolotti, Il contratto di vendita internazionale, CEDAM, 2012, pag. 260.
[16] La risoluzione del contratto e conseguente restituzione delle prestazioni effettuate, può essere richiesta solamente in caso di inadempimento essenziale o in caso di mancata consegna della merce entro un termine ragionevole supplementare fissato dal compratore ex art. 47.
[17] Tale richiesta non può essere avanzate se il venditore rimedia il difetto o se il compratore rifiuta la prestazione del venditore.
[18] Il danno è costituito dalla perdita subita a causa dell’inadempimento e dal mancato guadagno. Ad ogni modo il danno risarcibile non può superare la perdita che il venditore aveva previsto o avrebbe dovuto prevedere al momento della conclusione del contratto (art. 74), dovendo comunque il compratore adottare le misure ragionevoli per limitare il danno, potendo in caso contrario la parte inadempiente ridurre l’entità del risarcimento pari all’ammontare della perdita che avrebbe potuto evitare (art. 77).
Concessione di vendita, distributore o cliente abituale?
Il contratto di concessione di vendita è un accordo di distribuzione integrata tra due o più imprenditori e spesso è difficile distinguere tra un rapporto concessionario-concedente, da un rapporto di vendita con un cliente abituale; la Corte di Giustizia europea ha indicato alcuni criteri distintivi e caratterizzanti che aiutano una sua qualificazione, come la predeterminazione dei prezzi, l'esclusività e un alto volume di rapporti di vendita.
Il contratto di concessione di vendita (anche chiamato contratto di distribuzione), rappresenta una delle forme più diffuse di distribuzione integrata e viene utilizzato sia a livello di commercializzazione tramite rivenditori (come possono essere gli importatori esclusivi responsabili di una Stato), che al dettaglio (si pensi al classico esempio dei concessionari di macchine).
Tale contratto, seppure nel nostro paese non è legislativamente disciplinato,[1] si concretizza, in linea di massima, nella commercializzazione di particolari prodotti, attraverso un’azione coordinata tra due o più imprenditori: il concedente (che si impegna a produrre) e il concessionario che si impegna ad acquistare periodicamente i prodotti.[2]
Ecco i principali caratteri distintivi di tale tipologia contrattuale:[3]
- è un contratto di distribuzione, avente come oggetto e scopo principale la commercializzazione dei prodotti del concedente;
- il concessionario gode di una posizione di privilegio (quale ad esempio, seppure non necessaria, l’esclusiva di zona), quale contropartita degli obblighi che si assume per garantire una corretta distribuzione dei prodotti;
- il concessionario opera in qualità di acquirente rivenditore e pertanto, diversamente dall’agente e/o dal procacciatore, non promuove solamente i prodotti della casa madre, ma li acquista accollandosi i relativi rischi di rivendita (cfr. differenze principali tra l’agente e il concedente).
- il concessionario viene integrato nella rete distributiva del concedente, essendo obbligato a rivendere i prodotti secondo le direttive e le indicazioni del concedente stesso.
Ciò premesso, molto frequentemente, soprattutto nei casi in cui le parti non hanno regolato in maniera specifica il rapporto di collaborazione, si pone il problema di stabilire se la controparte del concedente sia un concessionario, ovvero un semplice "cliente abituale". Si pensi al caso in cui il concedente inizia a vendere in un mercato ad un determinato soggetto, il quale gradualmente assume maggiori responsabilità ed impegni tipici del concessionario (ad es. obbligo di promozione): in tali casi si pone il problema di comprendere se il rapporto tra le parti sia qualificabile come una serie di contratti di vendita, piuttosto che come esecuzione di un contratto di concessione di vendita e quindi se l’acquirente, di fatto, da semplice cliente si è “trasformato” in concessionario, responsabile della distribuzione dei prodotti in un determinato territorio di sua competenza.
La giurisprudenza sul punto, ritiene che sussiste un contratto di concessione di vendita, ogni volta che un
“contratto innominato, […] si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto quadro […], dal quale deriva l’obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita ovvero l’obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell’accordo iniziale.”[4]
Una delle principali conseguenze della qualificazione di un rapporto come concessione di vendita e non semplice rapporto tra produttore e cliente abituale, è che il contratto di concessione viene normalmente inquadrato come contratto di durata, che non può essere risolto senza riconoscere un congruo preavviso al distributore. Di conseguenza, ove la situazione si configuri effettivamente come in quest’ultimo modo, vi sarà l’obbligo del venditore di rispettare un preavviso ove decida di cessare di rifornire la controparte e viceversa, l’obbligo dell’acquirente di acquistare i prodotti dal concedente, nel periodo di preavviso.[5]
Nel 2013, la Corte di Giustizia europea, nella sentenza Corman-Collins,[6] ha tentato di definire in maniera più precisa possibile quelli che sono i tratti caratteristici del concessionario, al fine di distinguere tale figura dal “cliente abituale”.
In particolare, secondo i Giudici della Corte, un rapporto commerciale durevole tra operatori economici è configurabile come compravendita di beni quando
“si limiti ad accordi successivi, ciascuno avente ad oggetto la consegna e il ritiro di merce.”
Contrariamente deve ritenersi il rapporto come concessione di vendita, quando la distribuzione è regolata (per iscritto oppure di fatto) da
“un accordo quadro avente ad oggetto un obbligo di fornitura e di approvvigionamento concluso per il futuro, che contiene clausole contrattuali specifiche relative alla distribuzione da parte del concessionario della merce venduta dal concedente.”
In conclusione, secondo la Corte, se il rapporto si limita alla fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che esso prosegua anche per un periodo di lunga durata, esso deve essere qualificato come un cliente abituale, che effettua nel tempo diverse compravendite. Nel caso invece in cui il rivenditore assume specifici obblighi tipici della distribuzione, il rapporto andrà qualificato come concessione di vendita.
Ad ogni modo, tali criteri interpretativi dettati dalla Corte di Giustizia, devono essere utilizzati dai giudici nazionali, i quali sono demandati ad individuare gli elementi da cui desumere se siano stati assunti o meno tali obblighi. In particolare, bisognerà andare a verificare come si è effettivamente sviluppato il rapporto tra le parti, anche indipendentemente dal fatto che le parti abbiano o meno stipulato un contratto.
Tali principi non sono sempre di facile applicazione e non sempre portano ad una interpretazione univoca. Si allegano qui di sotto, a titolo esemplificativo, alcuni elementi caratterizzanti e che possono, secondo la giurisprudenza italiana, fare tendere per la qualificazione del rapporto come concessione di vendita, ossia
- la predeterminazione dei prezzi di rivendita e relativa scontistica, l’esistenza di un’esclusiva, una rilevante, continuativa ed economicamente cospicua serie di contratti di compravendita di prodotti della concedente;[7]
- accordi sulla vendita dei prodotti “sottomargine”, il fatto che la concessionaria fosse depositaria dei prodotti, che il volume del fatturato delle vendite era rilevante.[8]
[1] Soltanto in Belgio la concessione di vendita è stata disciplinata già con la l. 27 luglio 1961.
[2] Cfr. sul punto Bocchini e Gambino, I contratti di somministrazione e di distribuzione, 2017, UTET, pag. 640 e ss.
[3] Cfr. sul punto Bortolotti, Manuale di diritto della distribuzione, CEDAM, 2007, pag. 2 e ss.; Bortolotti, Contratti di Distribuzione, Itinera, 2016, pag. 538 e ss.
[4] Cass. Civ., n. 1469 del 1999; Cass. Civ., n. 13569 del 2009.
[5] Cass. civ., n. 16787 del 2014; Appello Cagliari 2 febbraio 1988.
[6] Sentenza 19.12.2013, nella causa C-9/12.
[7] Cass. Civ., n. 17528 del 2010.
[8] Cass. Civ., n. 13394 del 2011.
Come si calcola l'indennità di scioglimento del contratto secondo gli AEC Industria 2014?
L’art. 10 degli AEC industria 2014 (cfr. anche , suddivide l'indennità di fine rapporto in tre componenti:
- indennità di risoluzione del rapporto, accantonata dal preponente presso il fondo ENASARCO (FIRR) (capo I);
- indennità suppletiva di clientela riconosciuta all’agente o rappresentante anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo II);
- indennità meritocratica, collegata all’incremento della clientela e/o del giro d’affari (capo III).
Il terzo comma dell’articolo 10, prevede altresì che l’indennità vada computata su tutte le somme, comunque denominate, percepite dall’agente nel corso del rapporto, nonché sulle somme per le quali al momento della cessazione del rapporto, sia sorto il diritto al pagamento in favore dell’agente o rappresentante, anche se le stesse non siano state in tutto o in parte corrisposte.
Ciò comporta che tali indennità (in tema cfr. anche calcolo indennità ex art. 1751 c.c., calcolo indennità ex AEC 2009, calcolo indennità ex ANA 2003) andranno calcolate tenendo conto anche:
- degli emolumenti non aventi carattere provvigionale, quali ad esempio rimborsi per spese e/o attività accessorie;
- delle somme maturate, ma ancora non percepite e/o versate all’agente alla data dello scioglimento del rapporto.
I. FIRR
Il FIRR viene accantonato presso l’ENASARCO da parte del preponente e, allo scioglimento del rapporto, è dovuto all’agente indipendentemente da un eventuale incremento della clientela e/o degli affari. Non viene invece riconosciuto in caso di interruzione del rapporto ad iniziativa del preponente, giustificata da i seguenti comportamenti dell’agente: ritenzione indebita di somme di spettanza del preponente, concorrenza sleale, violazione del vincolo di esclusiva per una sola ditta.
L’obbligo di accantonamento del FIRR sussiste solamente nel caso di applicazione degli AEC al rapporto. Gli AEC sono applicabili al contratto, solamente qualora entrambe le parti (preponente e agente) siano iscritte alle associazioni sindacali stipulanti, oppure, in caso contrario, le parti abbiano richiamato espressamente gli AEC nel contratto, ovvero abbiano provveduto ad una loro applicazione implicita nel corso del rapporto (ad esempio, quando il preponente abbia provveduto ad un’applicazione spontanea, costante ed uniforme di alcune provvisioni previste dagli AEC).[1] Ciò comporta che in caso di mancata applicazione degli AEC, il preponente non è tenuto ad accantonare il FIRR, bensì solamente versare all’Enasarco i contributi previdenziali.[2] (sul punto cfr. l’obbligo previdenziale dell’agente italiano e del preponente straniero).
Importante rilevare che giurisprudenza[3] e dottrina,[4] ritengono univocamente che la richiesta di pagamento del FIRR, vada avanzata nei confronti dell’Enasarco e non del preponente, fatto salvo per le somme non eventualmente accantonate da quest’ultimo.
Tale indennità si calcola annualmente con le seguenti modalità:
AGENTE MONOMANTATARIO
- 4% sulla quota di provvigioni fino a € 12.400 annui
- 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 12.400 annui e € 18.600 annui
- 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 18.600 annui
AGENTE PLURIMANDATARIO
- 4% sulla quota di provvigioni fino a € 6.200 annui
- 2% sulla quota di provvigioni compresa tra € 6.200 annui e € 9.300 annui
- 1% sulla quota di provvigioni eccedente € 9.300 annui
II. INDENNITÀ SUPPLETTIVA
Posto che secondo la giurisprudenza maggioritaria, gli AEC rappresentano per l'agente un trattamento minimo garantito,[5] tale indennità verrà versata all’agente allo scioglimento del rapporto e sarà dovuta allo stesso indipendentemente dalla prova da parte dell’agente di avere sviluppato gli affari e/o la clientela del preponente, così come invece è previsto dall'indennità civilistica di cui all’art. 1751 c.c. (sul punto cfr. l’indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia).
Essa verrà riconosciuta secondo le seguenti aliquote:
3% | sull'ammontare globale delle provvigioni e delle altre somme dovute |
0,50% aggiuntivo | sulle provvigioni maturate dal quarto anno (nel limite massimo annuo di € 45.000 di provvigioni) |
ulteriore 0,50% aggiuntivo | sulle provvigioni maturare dal sesto anno compiuto (nel limite massimo annuo di € 45.000 di provvigioni) |
Tale indennità sarà dovuta in tutti i casi in cui lo scioglimento del rapporto non sia dovuto ad un fatto imputabile all’agente (sia in caso di contratto a tempo determinato che a tempo indeterminato). Non si considerano fatti imputabili all’agente:
- dimissioni dovute ad accertati gravi inadempimenti del preponente,
- dimissioni conseguenti ad invalidità permanente e totale,
- dimissioni dovute ad infermità e/o malattia che non consentano la prosecuzione del rapporto,
- dimissioni successive al conseguimento della pensione di vecchiaia o vecchiaia anticipata ENASARCO,
- dimissioni successive al conseguimento della pensione di vecchiaia o vecchiaia anticipata INPS.
III. INDENNITÀ MERITOCRATICA
L’AEC Industria 2014 prevede un calcolo piuttosto strutturato per quantificare l'indennità meritocratica, che sarà riconosciuta all’agente solamente nel caso in cui risulti superiore alla somma delle due indennità sopra analizzate (FIRR + suppletiva).
Il calcolo dell’indennità meritocratica è la seguente:
- Determinazione dell’incremento di clientela, costituita dalla differenza delle provvigioni percepite dall’agente all’inizio ed alla fine del rapporto, tenendo presente che il periodo di prognosi varierà in base alla qualifica dell’agente come mono o plurimandatario e dalla durata del rapporto, seguendo la seguente tabella:
Tipologia e durata | Anni |
Agente plurimandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni | 2,00 |
Agente monomandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni | 2,25 |
Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e inferiore o uguale a 10 anni | 2,50 |
Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e inferiore o uguale a 10 anni | 2,75 |
Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni | 3,00 |
Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni | 3,25 |
- Si rende omogenea la cifra iniziale con quella finale, applicando alla stessa il coefficiente di rivalutazione Istat per i crediti di lavoro.
- Si determina il tasso di migrazione della clientela in base alla seguente tabella:
Tipologia e durata | percentuale |
Agente plurimandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni | 27% |
Agente monomandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni | 15% |
Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e inferiore o uguale a 10 anni | 22% |
Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e inferiore o uguale a 10 anni | 20% |
Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni | 37% |
Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni | 35% |
- Si sottrae per il primo anno del periodo di prognosi il citato tasso di migrazione dal valore dell’incremento di cui al punto 1. Per gli anni successivi del periodo di prognosi, il medesimo tasso di migrazione viene sottratto dal valore determinato per l’anno di prognosi precedente. Si sommano i risultati così ottenuti.
- Si diminuisce forfetariamente l’importo ottenuto di una percentuale variabile pari:
- Al 10% per i contratti di durata inferiore o uguale a 5 anni;
- Al 15% per i contratti di durata superiore a 5 anni ed inferiore a 10 anni
- Al 20% per i contratti di agenzia di durata superiore a 10 anni.
- Si confronta l’indennità meritocratica calcolata in base ai precedenti punti con il valore massimo dell’indennità prevista dal terzo comma dell’art. 1751 c.c.
- Si detrae dall’indennità meritocratica ottenuta l’indennità di risoluzione del rapporto e l’indennità di clientela.
[1] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 87 e ss.
[2] Trib. Roma 14.1.2010.
[3] Trib. Bari 2.5.2012.
[4] Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolter Kluwer, pag. 365 e ss.
[5] Cfr. sul punto Cass. Civ. 2014 n. 7567. Si rileva comunque che la Corte di Giustizia europea, con una pronuncia del 23 marzo 2006, ha contestato la legittimità dell’indennità suppletiva di clientela così come prevista dal l’AEC, che consente all’agente di percepire comunque una indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui l’agente non abbia effettivamente sviluppato la clientela del preponente e quest’ultimo ne tragga vantaggi anche a seguito della cessazione del rapporto; in linea con tale orientamento si riscontra un indirizzo minoritario della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto gli AEC inapplicabili al nostro ordinamento e non ha pertanto riconosciuto all’agente la disciplina ivi riportata come un minimo garantito (Tribunale Treviso 29 maggio 2008. Tribunale Treviso 8 giugno 2008; Tribunale di Roma 11 luglio 2008).
Contratto di vendita o contratto di appalto? ...e cosa succede se si applica la convenzione di Vienna?
Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra contratto di appalto e vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.
1. Differenza tra contratto di vendita e applato.
In caso di vendita di cosa futura, ossia tutte le volte in cui oggetto della transazione è un bene che deve essere ancora realizzato, si può porre una problematica di grande rilevanza pratica e di notevole complessità giuridica, comprendere se il contratto possa essere identificato come compravendita oppure, contrariamente, come un contratto di appalto.
Secondo il diritto italiano, ai fini della differenziazione tra il contratto di appalto e quello di vendita (di cosa futura), costituisce principio generale la prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia. Questo significa che, in linea di massima, si ha un contratto di appalto e non di vendita ogni volta che la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio.
Si pensi al classico esempio in cui, oggetto del negozio è un bene che rientra nella produzione ordinaria di una imprese, ma al quale il committente richiede che vengano apportare alcune modifiche. In tali casi, secondo la giurisprudenza, si avrà appalto, tutte le volte in cui tali modifiche, consistono non già in accorgimenti marginali e secondari diretti ad adattarle alle specifiche esigenze del destinatario della prestazione, ma sono tali da dar luogo ad un bene nuovo, diverso rispetto a quello oggetto della normale produzione. La giurisprudenza italiana, punta in particolare l'attenzione, non tanto sulla quantità di lavoro che viene richiesta per apportare tali modifiche, bensì piuttosto sulla tipologia di modifiche che sono state effettivamente apportate al prodotto. [1]
Inoltre, nel caso il contratto prevedesse la messa in opera e/o l'installazione del bene stesso, la giurisprudenza italiana, fa un ulteriore distinguo: si deve considerare contratto di vendita (con annesso obbligazione di posa in opera), nel caso in cui
“la fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l'assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi, salvo, ovviamente, che le clausole contrattuali obbligano l'assuntore degli indicati lavori a realizzare un quid novi rispetto alla normale serie produttiva […].
Qualora, invece, l'assuntore dei lavori di cui si dice non è nè il fabbricatore, nè il rivenditore del bene da installare o mettere in opera, l'attività di installazione di un bene svolta dal prestatore, risultando autonoma rispetto a quella di produzione e vendita, identifica o rinvia ad un contratto di appalto, dato che la materia viene in considerazione quale strumento per la realizzazione di un'opera o per la prestazione di un servizio.”[2]
2. E se si applica la Convenzione di Vienna?
Una diverso approccio si ha, invece, nel caso in cui al rapporto sia applicabile la Convenzione di Vienna, sulla vendita internazionale di beni mobili, del 1980.
Tale convenzione, si applica al rapporto tutte le volte in cui oggetto del contratto sia la vendita fra parti aventi la loro sede di affari in Stati diversi; nello specifico, l’art. 1 della Convenzione, dispone che la stessa si applica:
- “quando questi Stati sono Stati contraenti; o
- "quando le norme di diritto internazionale privato rimandano all'applicazione della legge di uno Stato contraente."
Leggi anche - Altri articoli sulla Convenzione di Vienna.
Certamente, anche nel caso dell’applicazione della Convenzione di Vienna, si pone comunque la problematica relativa all’identificazione del rapporto contrattuale e, nello specifico, di comprendere se il rapporto possa essere identificato come compravendita (con conseguente applicazione della Convenzione stessa), oppure se si tratti di un contratto di appalto.
Sul punto, la stessa Convenzione detta dei principi interpretativi, che permettono alle parti di identificare che cosa debba considerarsi per "vendita". L’art. 3, comma 1 del Convenzione, fa rientrare come contratto di compravendita, anche
"[...] sono considerate vendite i contratti di fornitura di merci da fabbricare o produrre, a meno he la parte che ordina queste ultime non debba fornire una parte essenziale del materiale necessario a tale fabbricazione o produzione."
Inoltre il secondo comma del succitato articolo, dispone che:
“La presente Convenzione non si applica ai contratti in cui la parte preponderante dell'obbligo della parte che fornisce le merci consiste in una fornitura di mano d'opera o altri servizi.”
Tale articolo estende alla sfera di applicazione della Convenzione, anche i contratti, per i quali il venditore, oltre alla consegna della cosa ed al trasferimento della proprietà, si impegna altresì ad offrire lavoro o altri servizi, a patto che tali servizi non costituiscano la “parte preponderante” (in inglese “preponderant part”), delle obbligazioni del venditore stesso.
Al fine di comprendere se l’apporto di lavoro/servizi sia “preponderante”, deve essere effettuato un confronto sul valore economico dei servizi offerti e il valore della componente materiale stessa del bene,[3] come se costituissero due contratti distinti e separati.[4] Pertanto, quando l'obbligo per la fornitura di manodopera o servizi è superiore al 50 per cento degli obblighi del venditore, la Convenzione non è applicabile.[5] Alcuni tribunali richiedono che il valore dell'obbligo di servizio "chiaramente" superi quello della merce.[6]
Ciò che contraddistingue essenzialmente i due approcci, è che le Corti italiane, tendono a dare meno peso al rapporto che c’è tra il valore economico del materiale ed i servizi ad esso collegati: la differenza tra appalto e contratto di compravendita, consiste principalmente nell’obbligazione che l’imprenditore si è assunto, ossia identificare se lo stesso si è impegnato a fornire un prodotto che rientra nella propria normale attività produttiva, ovvero se è necessario apportare al prodotto (di linea) modifiche consistenti, tali da dar luogo ad un prodotto diverso, nella sua essenza, da quello realizzato normalmente dal fornitore.
[1] Cass. Civ. 2001 nr. 6925; Cas. Civ. 1994 nr. 7697.
[2] Cass. Civ. 2014, nr. 872.
[3] Obergericht Aargau, Switzerland, 3 marzo 2009; Bundesgerichtshof, 9 giugno 2008; Court of Arbitration of the International Chamber of Commerce, 2000.
[4] Kantonsgericht Zug, Svizzera, 14 dicembre 2009
[5] Kantonsgericht Zug, Switzerland, 14 December 2009, available on the Internet at www.cisg-online.ch; Tribunal of International Com- mercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, Award No. 5/1997, English translation availa- ble on the Internet at www.cisg.law.pace.edu;
Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, English translation available on the Internet at www.cisg.law.pace.edu (applying the Convention to a purchase of a packaging machine consisting of ten individual devices as well as several transportation and interconnection systems, which also imposed upon the seller the obligation to install the packaging machine and prepare its operation at the buyer’s works).
[6] Kreisgericht Bern-Laupen, Switzerland, 29 January 1999, available on the Internet at www.cisg-online.ch.
L'obbligo previdenziale dell'agente italiano e del preponente straniero.
La Fondazione ENASARCO è l’Ente Nazionale di Assistenza per gli Agenti e Rappresentanti di Commercio e fu costituita nel 1938. Dal 1973[1] l’ENASARCO è divenuto un soggetto di diritto privato che persegue finalità di pubblico interesse mediante la gestione di forme di pensioni integrative obbligatorie a favore degli Agenti e Rappresentanti di Commercio ed il cui controllo pubblico è affidato al Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali e al Ministero dell’Economia e Finanze.
Le attività dell’ENASARCO, la natura giuridica e i compiti che la Fondazione persegue sono regolati dal Regolamento della Attività Istituzionali, che è stato recentemente modifica in data 1 gennaio 2012.
Gli artt. 1 e 2 del Regolamento impongono l’obbligo d’iscrizione e conseguentemente di contribuzione alla Fondazione ENASARCO in capo a tutti gli agenti (sia in forma individuale, che in forma di società) che operano sul territorio nazionale per conto di preponenti italiane o di preponenti straniere che abbiano sede o una qualsiasi .
Nulla viene disposto dal Regolamento 2012 sull’obbligo di iscrizione degli agenti che operano in Italia in favore di preponenti dell’Unione Europea che non hanno sede o dipendenza in Italia. Tale “vuoto” normativo è stato colmato da una circolare della ENASARCO[2] e da un interpello del Ministero del lavoro[3] che hanno allargato l’obbligo di iscrizione anche alle seguenti categorie:[4]
- per gli agenti operanti in Italia e all’estero, purché l’agente risieda in Italia e vi svolga parte sostanziale della sua attività;
- per gli agenti operanti in Italia e all’estero che non risiedano in Italia, purché l’agente abbia in Italia il proprio centro d’interessi (valutato in riferimento al numero dei servizi prestati, alla durata dell’attività, alla volontà dell’interessato);
- per gli agenti operanti abitualmente in Italia e che si rechino a svolgere attività esclusivamente all’estero purché la durata di tale attività non superi i ventiquattro mesi.
Quanto all’importo annuo che il preponente deve accantonare presso il FIRR, esso viene così quantificato dall’AEC industria 2014:[5]
“Agente agente o rappresentante monomandatario a
- 4% sulla quota di provvigioni fino a Euro 12.400,00 annui;
- 2% sulla quota di provvigioni compresa tra Euro 12.400,01 annui ed Euro 18.600,00 annui;
- 1 % sulla quota di provvigioni eccedente Euro 18.600,00 annui.
Agente o rappresentante plurimandatario:
- 4% sulla quota di provvigioni fino a Euro 6.200,00 annui;
- 2% sulla quota di provvigioni compresa tra Euro 6.200,01 annui ed Euro 9.300,00 annui;
- 1 % sulla quota di provvigioni eccedente Euro 9.300,00 annui.”
Le aliquote previdenziale obbligatorie, che il preponente è tenuto a versare annualmente all’ENASARCO, sono regolato all’art. 4 del Regolamento e sono pari a:
2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 | 2018 | 2019 | 2020 |
13,50% | 13,75% | 14,20% | 14,65% | 15,10% | 15,55% | 16,00% | 16,50% | 17,00% |
I contributi vengono calcolati su tutte le somme dovute all’agente a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di agenzia anche se non ancora liquidate, compresi acconti e premi (art. 4 del Regolamento), ma nel limite inderogabile del massimale di € 37.500,00 annui qualora l’agente sia impegnato ad esercitare la sua attività per un solo preponente e di € 25.000,00 per ciascun preponente dell’agente plurimandatario (art. 5 del Regolamento).
In caso di omissione contributiva da parte del preponente, l’art. 36 del Regolamento, impone come sanzione il pagamento di un tasso del 5,5% annuo sull’importo dei contributi non corrisposto entro la scadenza, con la fissazione di un tetto massimo del 40%.
Importante sottolineare che l’obbligo contributivo, seppure esso sia posto a carico del preponente e dell’agente in misura paritetica, si evidenzia il fatto che l’unico responsabile del pagamento dei contribuiti è il preponente, anche per la parte a carico dell’agente e che tali versamenti devono essere effettuati “con una periodicità massima di tre mesi, in rapporto alle somme a qualsiasi titolo dovute all’agente.”
Quanto al termine di prescrizione del diritto dell’ENASARCO a richiedere il versamento di contribuiti, esso è pari a cinque anni.[7] È invece decennale il termine prescrizionale dell’azione dell’agente diretta ad ottenere il risarcimento del danno da omesso o insufficiente versamento dei contributi ENASARCO, decorrente dal momento in cui l’agente, raggiunta l’età pensionabile, perde il relativo diritto o lo vede ridotto in ragione dell’omissione.[8]
Come si è già accennato nella parte introduttiva di questo articolo, alla quale si rimanda,[9] la previdenza gestita dall’ENASARCO rappresenta un caso unico non solo in Europa, ma anche in Italia, dal momento che essa è integrativa rispetto al trattamento pensionistico che gli agenti sono obbligati a versare personalmente presso l’INPS.[10] I rappresentati e gli agenti di commercio sono pertanto obbligati a versare i contributi verso due enti: da una parte personalmente presso l'Inps e, dall’altra parte, presso l'ENASARCO, il cui contributo, come si è visto, viene pagato dal preponente, in qualità di sostituto di imposta.[11]
Circa la quantificazione dei contributi INPS, è prevista una aliquota variabile pari a circa al 20/23%. Si rileva comunque che sulla parte di reddito eccedente i 100.324,00 per gli iscritti dopo il 01.01.1996 (ed € 76.718,00 per quelli iscritti prima di tale data), non vi è obbligo di versamento dell’INPS.
[1] Ai sensi della legge 2 febbraio 1973, n. 12
[2] Circolare AIS n. 2/2012 protocollo numero AIS/46.
[3] Interpello del Ministero del lavoro n. 32/2013.
[4] Cfr. anche Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, 2014, GIUFFRÈ.
[5] Si indica a titolo esemplificativo il FIRR previsto dall’AEC industria 2014; si rileva comunque che il FIRR previsto dagli altri AEC ad oggi vigenti sono in linea di massima in linea con tale contratto collettivo.
[6] Art. 7, legge 2 febbraio 1973, n. 12.
[7] Cass. 1983 n. 5532.
[8] Cass. Civ. 1983 n. 5532.
[9] Cfr. § 1 del presente articolo.
[10] Cfr. nota n. 1
[11] Il riconoscimento di questo status particolare del Fondo risale alla legge 613/1966 ed è rimasto ad oggi immutato.
Convenzione di Vienna e risoluzione del contratto di compravendita. Termini di decadenza e prescrizione dell'azione.
Come si è già avuto modo di rilevare, la Convenzione di Vienna non si occupa della prescrizione dell’azione, che secondo la più autorevole dottrina[1] e giurisprudenza,[2] viene disciplinata dalle norme interne. La prescrizione, pertanto, ai sensi dell’art. 7, comma 2 della medesima Convenzione, trova ingresso sulla base delle norme del diritto applicabile e, nel caso del diritto italiano, all’art. 1495 c.c. e ss..
- Termini di decadenza ex art. 39 e 49 della Convenzione
Contrariamente, la Convenzione regolamenta espressamente i termini di decadenza del diritto dell'acquirente alla garanzia. L’art. 39 così recita:
- L'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al venditore, precisando la natura di tale difetto, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui l'ha constatato o avrebbe dovuto constatarlo.
- In tutti i casi l'acquirente decade dal diritto di far valere un difetto di conformità se non lo denuncia al più tardi entro un termine di due anni, a partire dalla data alla quale le merci gli sono state effettivamente consegnate, a meno che tale scadenza non sia incompatibile con la durata di una garanzia contrattuale.
L’art. 39 prevede dunque che viene meno il diritto del compratore, di fare valere il difetto di conformità dei beni, ivi compreso, il diritto di risolvere il contratto, se non lo denuncia al venditore entro un tempo ragionevole, dal momento in cui lo ha scoperto o avrebbe dovuto scoprirlo e, in ogni caso al più tardi entro due anni dalla data in cui i beni gli sono stati effettivamente consegnati.
Contrariamente alla disciplina civilista, nel caso in cui l'acquirente intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale, la Convenzione prevede un ulteriore termine di decadenza, oltre a quello sopra descritto di denuncia del vizio, che impone allo stesso di comunicare al venditore la propria intenzione di dichiarare il contratto risolto. L’art 49 della Convenzione così dispone:
- L'acquirente può dichiarare il contratto risolto [avoided]:
- se l'inadempimento da parte del venditore di uno qualsiasi degli obblighi che gli derivano dal contratto o dalla presente Convenzione costituisce un'inosservanza essenziale del contratto; […]
- Tuttavia, quando il venditore ha consegnato le merci, l'acquirente scade dal diritto di dichiarare risolto il contratto se non lo ha fatto:
- in caso di consegna tardiva, entro un termine ragionevole, a partire dal momento in cui è venuto a conoscenza che la consegna era stata effettuata;
- in caso di inosservanza diversa dalla consegna tardiva, entro una scadenza ragionevole.
Tale articolo contempla il più radicale dei rimedi per l’inadempimento del venditore: la risoluzione del contratto. Il secondo comma dell’art. 49, prevede che, qualora il compratore abbia effettuato la consegna, l’acquirente perde il diritto di dichiarare risolto il contratto, se non lo esercita entro un “termine ragionevole” tramite una propria dichiarazione unilaterale.
L’acquirente in base alla Convenzione di Vienna deve quindi:
- entro un termine ragionevole (ed al più tardi entro due anni dalla consegna) denunciare il vizio (art. 39);
- entro una scadenza ragionevole dalla consegna, dichiarare il contratto risolto (art. 49).
Sull’interpretazione di “scadenza ragionevole”, di cui all’art. 49, per la dichiarazione di risoluzione del contratto, le Corti si sono pronunciate tenendo di volta in volta conto della tipologia di merce venduta e del settore merceologico.
È stato ritenuto non ragionevole il periodo di cinque mesi a partire dal momento in cui l’acquirente ha comunicato al venditore i vizi della merce;[3] un dichiarazione di risoluzione fatta dopo otto settimane, da quando il compratore è venuto a conoscenza della sussistenza dei vizi è stato altresì ritenuto tardivo;[4] “irragionevole” è stato altresì ritenuto il termine di otto mesi dopo che il compratore avrebbe dovuto conoscere i vizi.[5] D’altro canto il periodo di un mese o cinque settimana è stato ritenuto ragionevole e pertanto tempestivo per effettuare la dichiarazione di cui all’art. 49 secondo comma, lettera b.[6]
Inoltre, secondo autorevole dottrina, il termine ragionevole di cui all’art. 49 secondo comma, non può mai superare il termine di cui all’art. 39, secondo comma, ossia due anni dalla data in cui i beni sono stati effettivamente consegnati.
“Il compratore perde il diritto di far valere il difetto di conformità e, conseguentemente, di risolvere il contratto. In tale ipotesi, il limite temporale previsto dall’art. 39 prevale su quello previsto dall’art. 49 comma 2°, lett. B); la data della denuncia ex art. 39 e quello della dichiarazione di risoluzione ex art. 49 possono non coincidere, ma il termine per entrambe decorre dal medesimo momento, e ha la medesima scadenza [appunto data dell’effettiva consegna].[7]”
Questo comporta, che entro il limite massimo di due anni dalla consegna, il compratore deve sia denunciare i vizi (ex art. 39), che dichiarare il contratto nullo (ex art. 49), qualora in giudizio intenda chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale.
Circa le modalità con le quali tale dichiarazione deve essere effettuata, l’art. 26 della Convenzione dispone:
“Una dichiarazione di risoluzione del contratto ha effetto solo se è effettuata mediante notifica all'altra parte.”
Ciò comporta che tale dichiarazione deve contenere in maniera espressa ed inequivocabile che il contratto sia stato risolto e, pertanto, sia terminato.[8]
[1] Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 25; Schlechtriem, Internationales UN-Kaufrecht, Tübingen 2007, 124, n. 162; Honsel, Das einheitliche UN-Kaufrecht, consultabile sul sito http://20iahre.cisg-library.org.”
[2] Bundesgerichtshof, Germania, 23 ottobre 2013, Internationales Handelsrecht 2014, 25 = CISG-online n ° 2474; Bundesgericht, Svizzera, 18 maggio 2009, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Appellationsgericht Basilea Città, Svizzera, 26 settembre 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Corte Suprema, Slovacchia, 30 aprile 2008, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu; Oberlandesgericht Köln, Germania, 13 Febbraio, 2006, anche in Internationales Handeslrecht 2006, 145 ss.; Cour d'appel de Versailles, Francia, il 13 ottobre 2005, traduzione in inglese disponibile su Internet all'indirizzo www.cisg.law.pace.edu, Tribunale di Padova, sez. Este, 20 febbraio 2004, disponibile all’indirizzo http://www.uncitral.org/docs/clout/ITA/ITA_100106_FT_clean.pdf.
[3] Bundesgerichtshof, Germania, 15 febbraio 1995; cfr. inoltre Oberlandesgericht München, Germania, 2 marzo 1994] (4 mesi).
[4] Oberlandesgericht Koblenz, Germania, 31 gennaio 1997.
[5] Cour d’appel Paris, Francia, 14 giugno 2001; cfr. inoltre Tribunal of International Commercial Arbitration at the Russian Federation Chamber of Commerce and Industry, Russia, 22 October 1998. (che ha considerato una denuncia effettuata dopo cinque o sei mesi non tempestiva); Hof ’s-Hertogenbosch, Danimarca, 11 ottobre 2005.
[6] [Tribunal cantonal du canton de Valais, Switzerland, 21 February 2005] (one month); CLOUT case No. 165 [Oberlandesgericht Oldenburg, Germany, 1 February 1995] (five weeks); Bundesgericht, Switzerland, 18 May 2009, Internationales Handelsrecht 2010, 27 (one to two months).
[7] Bianca e Bonell, Commentario sulla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci, Nuovi leggi civili commentate, CEDAM, Padova, 1989.
[8] Kantonsgericht des Kantons Zug, Svizzera, 30 Agosto 2007; UNCITRAL Digest of Case Law on the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, UNCITRALS, 2016 UNITED NATIONS, 2016 Edition, pag. 233.
Il diritto dell'agente alle provvigioni: quando è obbligato il preponente al pagamento?
La provvigione è di norma il mezzo principale per la remunerazione dell’agente, costituita da una percentuale correlata al valore dell’affare promosso dall’agente stesso. Il codice civile, disciplina il diritto alla provvigione all’art. 1748 c.c. Nello specifico, il primo comma di tale articolo dispone che:
“Per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento.”
Inoltre il quarto comma dell’art. 1748 c.c. così recita:
“L’agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse solo nella ipotesi e nella misura in cui sia certo che il contratto tra il terzo e il preponente non avrà esecuzione per cause non imputabili al preponente.”
L’agente, pertanto, ha diritto alla provvigione solamente se vi è la conclusione di un contratto tra preponente ed il terzo; ad ogni modo la provvigione non è dovuta e, nel caso fosse stata già pagata all'agente, deve essere restituita al preponente, qualora il terzo non esegua il contratto, per cause non imputabili al preponente stesso.
Gli articoli sopra riportati, indicano quelli che sono i presupposti perché nasca in capo all'agente il diritto a percepire la provvigione. Tale momento deve però essere assolutamente distinto dal momento della maturazione della provvigione stessa, ossia quando l'agente potrà pretenderne il pagamento (cfr. sul punto anche Lo "star del credere" nel contratto di agenzia).
Tale distinzione si evince da una lettura dell'’art. 1748, quarto comma, c.c.:
“Salvo che sia diversamente pattuito, la provvigione spetta all’agente dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione in base al contratto concluso con il terzo. La provvigione spetta all’agente, al più tardi, inderogabilmente, dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico."
Dalla lettura di tale norma, si evince che vi sono due distinti momenti da cui dipende l’effettiva maturazione della provvigione:
- quando la prestazione viene eseguita da parte del preponente (il cosiddetto criterio "generale");
- al più tardi, ed inderogabilmente, quando la prestazione è stata eseguita da parte del terzo (il buon andamento dell'affare).
Con riferimento al primo punto, la provvigione matura da quando il preponente esegue la propria prestazione, o avrebbe dovuta eseguirla in virtù del contratto stipulato con il terzo (ossia il cliente). Tale disciplina costituisce il cosiddetto regime “generale”, che si applica ogni volta in cui le parti non abbiamo concordato una diversa pattuizione contrattuale.
Sul punto, bisogna certamente sottolineare che la norma non fa espressamente riferimento al solo momento in cui il preponente esegue la propria prestazione, bensì a quello in cui egli avrebbe dovuto eseguirla, secondo gli accordi che questi aveva preso con il cliente.
Si pensi al classico esempio in cui il preponente si impegna a consegnare la merce entro una determinata data: qualora il preponente non invii la merce entro tale data, la provvigione sarà comunque dovuta all’agente, in quanto la mancata esecuzione della prestazione è imputabile ad un inadempimento del preponente.
Un aspetto interessante è che l’articolo obbliga il preponente a pagare la provvigione all’agente, solamente nel caso in cui lo stesso sia effettivamente tenuto ad eseguire la prestazione in virtù del contratto. Questo comporta che qualora l'inadempimento del preponente sia dovuto a cause ad esso non imputabili, viene meno il diritto dell’agente al pagamento della provvigione stessa.
Riprendendo il caso qui sopra analizzato, ossia la consegna della merce: se il preponente non ha inviato la merce per cause di forza maggiore, ovvero perché il cliente non ha provveduto al pagamento della merce venduta o al saldo dell’acconto, secondo le modalità concordate tra le parti, il preponente non sarà più tenuto al versamento della provvigione.
Pertanto, il diritto alla provvigione matura, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti, quando la mancata prestazione da parte del preponente costituisca un inadempimento nei confronti del terzo.
Il criterio generale qui sopra descritto è comunque derogabile dalle parti, che possono accordarsi diversamente, posticipando ovvero anticipando il momento in cui matura il diritto alla provvigione, ancorandolo ad un momento differente rispetto all’adempimento del preponente.
Tale facoltà riconosciuta ai contraenti, trova un limite massimo inderogabile, che viene sancito alla seconda frase dell’art. 1748, comma 4, c.c.:
“la provvigione spetta all’agente, al più tardi, inderogabilmente, dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico."
Ciò significa, in buona sostanza, che è possibile posticipare la maturazione delle provvigioni, sino a quanto viene effettuato il pagamento da parte del terzo, ossia al più tardi al buon esito dell’affare. Tale ultima ipotesi, deve comunque essere sempre subordinata al fatto che il preponente abbia eseguito la propria prestazione. In buona sostanza, il riferimento al momento in cui il terzo avrebbe dovuto eseguire la prestazione deve essere interpretato nel senso che l’agente potrà ritenere esigibile la provvigione anche in caso di mancato pagamento da parte del cliente, però esclusivamente nel caso in cui ciò derivi dall’inadempimento del preponente (cfr. sul punto Venezia-Baldi, Il contratto di agenzia, pag. 273, Giuffrè Editore, 2014).
Con i seguenti esempi si cerca di rendere più chiaro, la fattispecie qui sopra descritta:
- il preponente consegna correttamente la merce al cliente, il quale, nonostante l’adempimento del preponente, non paga il prezzo della merce entro i termini convenuti: in questo caso non si può considerare che il preponente sia obbligato al pagamento della provvigione, posto che l’inadempimento del terzo, non è giustificato da un inadempimento dello stesso preponente
- il preponente consegna della merce sbagliata al cliente, il quale, non provvede al pagamento del prezzo entro il termine convenuto. In questo caso, si può ragionevolmente ritenere che il pagamento delle provvigioni sia dovuto, in quanto l’inadempimento del terzo è causato dall’inadempimento dello stesso preponente ( sul punto cfr. Bortolitti, Contratti di distribuzione, pag. 285, 2016, Wolters Kluver).
Il diritto dell’agente di visionare i libri contabili del preponente.
L’art. 1749 c.c. attribuisce all’agente il diritto di accedere alle scritture contabili del preponente, garantendo trasparenza nella determinazione delle provvigioni. Si tratta di una norma centrale nel bilanciamento del rapporto contrattuale, specie nei casi in cui l’agente non ha poteri di rappresentanza. Il presente contributo analizza i contenuti dell’articolo, le modalità di esercizio del diritto di accesso e i profili processuali connessi, anche alla luce della giurisprudenza più recente.
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L'art. 1749 c.c. conferisce all'agente il diritto di visionare la documentazione contabile del preponente. Tale norma si prefigge il compito di rendere il più possibile equilibrato il rapporto tra l’agente e il preponente, soprattutto nel caso in cui lo stesso agente non ha poteri di rappresentanza e non è quindi in grado di verificare direttamente quali affari sono stati conclusi dal preponente.
Nello specifico, il secondo comma dell'art. 1749 c.c.,[1] dispone che:
"il preponente consegna all’agente un estratto conto delle provvigioni dovute al più tardi l’ultimo giorno del mese successivo al trimestre nel corso del quale esse sono maturate.”
Il terzo comma dell'art. 1749 c.c. recita che:
“L’agente ha diritto di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate e in particolare un estratto dei libri contabili."
Tale articolo si fonda essenzialmente sul principio di carattere generale, in base al quale il preponente deve agire con lealtà e buona fede nei confronto dell’agente, imponendo da un lato al preponente stesso l’obbligo di mettere a disposizione dell’agente, almeno con cadenza trimestrale, un estratto conto delle provvigioni dovute, quanto più analitico possibile e, dall’altro lato, l’agente deve avere la possibilità di verificare che le provvigioni liquidate siano state calcolate correttamente.
L'importanza di tale norma viene sottolineata dal quarto comma dello stesso articolo, che sancisce l’inderogabilità, anche parziale, degli obblighi ivi indicati:
"è nullo ogni patto contrario alle disposizioni del presente articolo."
Il principale strumento processuale utilizzato dall’agente per fare valere tale diritto è rappresentato dall’art. 210 c.p.c. Tale norma stabilisce che il Giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di “esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo”.
L’applicazione pratica di tale norma non è sempre di facile soluzione (anzi…) e la giurisprudenza italiana si è spesso trovata a risolvere numerose problematiche ad esso correlate.
In primo luogo, è importante sottolineare che, per il nostro Ordinamento, lo strumento istruttorio di cui 210 c.p.c. ha natura residuale e può essere utilizzato solo se la prova del fatto non è acquisibile da parte istante e se l’iniziativa non ha finalità meramente esplorative;[2] l’accoglimento di tale istanza è rimessa al potere discrezionale del Giudice, il quale la potrà ammettere solamente se consta che
“la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde, non potendo avere l'iniziativa finalità meramente esplorative o sostitutive dell'onere probatorio posto a carico della parte.”[3]
Ne consegue che l’agente, sul quale grava l’onere di provare l’avvenuta conclusione degli affari, non può utilizzare tale strumento per supplire al mancato assolvimento di un suo gravame probatorio e dovrà provare che la mancata allegazione di elementi probatori non sia a lui imputabile, nonché indicare in maniera specifica i documenti di cui chiede un estratto (che devono essere direttamente o indirettamente individuabili), posto che una richiesta troppo generica, sarebbe di fatto esplorativa e, quindi, inammissibile.
Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione,
“l'agente è titolare di un vero e proprio diritto all'accesso ai libri contabili in possesso del preponente, che siano utili e necessari per la liquidazione delle provvigioni e per una gestione trasparente del rapporto secondo i principi di buona fede e correttezza. Di conseguenza, il preponente, ove richiesto (anche giudizialmente), ha un vero e proprio obbligo di fornire la documentazione e le informazioni richieste dall'agente al fine di consentire l'esatta ricostruzione del rapporto di agenzia.”[4]
La sentenza continua:
“incombe comunque sull’agente che agisce al fine di ottenere l'esibizione documentale dedurre e dimostrare l'esistenza dell'interesse ad agire, con circostanziato riferimento alle vicende rilevanti del rapporto (tra cui, in primis, l'invio o meno degli estratti conto provvigionali ed il loro contenuto) e l'indicazione dei diritti, determinati o determinabili, al cui accertamento è finalizzata l'istanza.”
Seguendo tale principio, un’istanza con cui si chiede che venga genericamente ingiunto alla preponente di esibire gli estratti contabili di tutti i clienti che l’agente ha fornito (ad es. senza indicarne i nominativi), ovvero dei clienti che il preponente ha fornito direttamente nel territorio contrattuale (e sui cui ordini andati a buon fine, l’agente avrebbe percepito le provvigioni indirette), sarebbe verosimilmente ritenuta inammissibile, in quanto troppo generica e, quindi, esplorativa.
Qualora il Giudice riconosca che sussistono i requisiti sopra indicati, potrà emettere l’ordinanza di esibizione di tali estratti, con cui, in pratica (almeno per quanto è mia esperienza personale…) la preponente viene intimata ad esibire i mastrini provvigionali / le schede contabili, relative ai clienti per i quali l’agente ha promosso istanza ex art. 210 c.p.c.
In buona sostanza, i documenti sui quali sussiste il diritto di accesso dell’agente saranno:[5]
- le fatture di vendita rilasciate alla clientela;
- la copia dei libri iva, le bolle di consegna della merce;
- le ricevute di versamento ENASARCO e comunque tutti quei documenti necessari per la verifica del singolo affare;
- nonché gli estratti conto provvigionali, il tutto ovviamente riferito alla zona e al periodo nei quali l’agente ha svolto il proprio incarico.
Il Giudice, ottenuta la documentazione, può quindi disporre CTU tecnico contabile, volta a verificare gli ordini ricevuti dalla preponente e conteggiare il pagamento delle provvigioni.
Da un punto di vista pratico, bisogna altresì fare presente che spesso ciò può comportare dei problemi pratici assai rilevanti, derivanti dal fatto che dalla documentazione esibita, ed elaborata da parte del perito, spesso emerge un copiosissimo numero di informazioni prima sconosciute (almeno ad una) delle parti e che tali informazioni possono dare adito ad “una causa, nella causa.”
Da ultimo, si fa presente che l’art. 210 c.p.c. non è l’unico strumento in mano all’agente, il quale, secondo la giurisprudenza maggioritaria, ha comunque il diritto a richiedere l’estratto conto provvigionale ex art. 1749 c.c, anche autonomamente in via monitoria.[6]
Come si può comprendere, tale tematica è di assoluta rilevanza, posto che dall'art. 1749 c.c. derivano in capo all'agente diritti fondamentali che gli permettono, in definitiva, di provare il proprio diritto al pagamento delle provvigioni.
[1] Articolo che ha recepito con d.lgs 1999 n. 64, l’art. 12, co. 2 della direttiva 86/653/CEE, che ha appunto conferito all’agente il diritto “di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni, in particolare un estratto dei libri contabili, a disposizione del preponente, necessarie per verificare l'importo delle provvigioni che gli sono dovute.”
[2] Cfr. Cass. Civ. 2011 n. 14968
[3] Cass. Civ. 2011, n. 26151.
[4] Cass. Civ. Sez. lavoro, n. 19319 del 2016.
[5] Cfr. Buffa, Bortolotti & Mathis, Contratti di Distribuzione, Wolters Kluver, 2016.
[6] Cass. Civ. 2010, n. 20707.