Condizioni generali di contratto nelle vendite online nazionali ed internazionali. E se si applica la convenzione di Vienna?
La regolamentazione delle condizioni generali di contratto nel commercio elettronico comporta non poche e irrilevanti complessità.
Se da un lato pare abbastanza facilmente risolvibile da un punto di vista pratico assicurare la conoscibilità delle condizioni generali di vendita tramite alcuni accorgimenti, certamente più complesso e meno agevole è assicurare che vengano espressamente approvate per iscritto le clausole vessatorie in conformità con i dettami del secondo comma dell'art. 1341 c.c.
La nozione di condizioni generali di contratto (“CGC”) è inserita all’interno del nostro Ordinamento all’art. 1341 c.c. Per CGC di contratto si deve intendere un insieme di clausole contrattuali, che hanno per loro natura carattere di generalità, in quanto sono destinate a valere per tutti i contratti di una determinata serie, e di unilateralità, posto che vengono predisposte unicamente da parte di un contraente, il c.d. predisponente.
La formula condizioni generali di contratto esprime quindi il fenomeno pratico della preventiva e unilaterale formulazione di un contenuto negoziale uniforme, destinato ad essere utilizzato per disciplinare una serie indeterminata di rapporti facenti capo al predisponente.[1]
1) Quando sono valide?
L’art. 1341 c.c. detta, in relazione al contenuto delle condizioni generali, due diversi requisiti di efficacia. Prevede al primo comma, il generale requisito di efficacia della conoscenza o conoscibilità e al secondo comma, il particolare requisito di efficacia della specifica approvazione per iscritto per le clausole c.d. vessatorio o dette anche onerose.
1.1. La conoscibilità e la conoscenza.
La conoscibilità consiste nella possibilità per l’aderente di acquisire la conoscenza mediante l’impiego della ordinaria diligenza. Pertanto, per tutti i contratti che vengono conclusi mediante condizioni contrattuali uniformi predisposte dall'imprenditore che li eroga, vale il principio di favore dettato dal primo comma dell'art. 1341 cod. civ., giusto il quale il contenuto effettuale di tali clausole è opponibile nei confronti dell’altro contraente anche se questi, pur senza averle conosciute, avrebbe comunque dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza.[2]
Ciò presuppone comunque un’attività del predisponente idonea a consentire la conoscenza, tenuto conto della diligenza che è normale attendersi dall’aderente medio con riferimento al tipo di operazione economica compiuta.[3]
1.2. Prova scritta e clausole vessatorie.
Il secondo comma disciplina la situazione specifica nella quale le condizioni stesse sono vessatorie e stabilisce che esse, per essere vincolanti nei confronti dell'altro contraente, debbono essere approvate particolarmente per iscritto, nella consapevolezza di assumere un obbligo oggettivamente gravoso.[4] L’elenco delle clausole vessatorie (avente carattere tassativo e non soggetto ad un’interpretazione estensiva)[5] ha ad oggetto in particolare:
- limitazioni di responsabilità (art. 1229);
- facoltà di recedere dal contratto (art. 1373) o di sospenderne l'esecuzione (art. 1461), ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze (art. 2965);
- limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni (art. 1462);
- restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (artt. 1379, 1566, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto (art. 1597, 1899), clausole compromissorie (art. 808 c.p.c.) o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria (art. 1370; 6, 28, 29, 30, 413 c.p.c.
Posto che una delle caratteristiche proprie delle CGC è la loro natura unilaterale, la necessità dell'approvazione scritta delle clausole vessatorie è esclusa ogniqualvolta la conclusione del contratto sia stata preceduta da una trattativa che abbia avuto ad oggetto specificamente le clausole che necessiterebbero altrimenti di un'autonoma sottoscrizione, mentre la sottoscrizione resta indispensabile per le clausole a contenuto vessatorio alle quali la parte abbia aderito senza alcuna discussione.[6]
Quanto alle modalità di approvazione, si ritiene generalmente che non vi sia bisogno di una sottoscrizione specifica per ciascuna clausola vessatoria e che l'obbligo della specifica approvazione per iscritto è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole purché sia accompagnato da un'indicazione, benché sommaria, del loro contenuto.[7]
2) 1341 c.c. e il commercio elettronico.
Applicare i principi qui sopra sommariamente richiamati al mercato elettronico, comporta non poche e irrilevanti complessità: in particolare, la doppia sottoscrizione di clausole vessatorie apposte in contratti telematici rappresenta un problema assai complesso e dibattuto sia in dottrina, che in giurisprudenza.
Se in una vendita online, da un lato pare abbastanza facilmente risolvibile da un punto di vista pratico assicurare la conoscibilità ex art. 1341 comma 1 c.c. delle condizioni generali di contratto tramite alcuni accorgimenti (ad es l’inserimento di link nel sito o all’interno dell’ordine, che richiamano le CGC), certamente più complesso e meno agevole è assicurare che vengano espressamente approvate per iscritto le clausole vessatorie in conformità con i dettami del secondo comma del succitato articolo.
La soluzione che normalmente viene adottata sui siti di e-commerce è di predisporre due form distinti, di cui uno è destinato all’approvazione delle condizioni generali di contratto nel suo complesso (tramite la spunta di una casella e l’accettazione con un “click”, cosiddetta procedura del “click-wrapping”) ed uno delle clausole vessatorie, che vengono quindi separatamente accettate (seppur mediante un “click”).
La giurisprudenza ha avuto più occasioni di pronunciarsi se l'accettazione tramite clic, rispetti i requisiti di forma imposti dall’art. 1341, secondo comma, c.c., registrando per il momento posizioni tra loro assai contrapposte.
Si registra una sentenza del Giudice di Pace di Trapani, con cui viene affermato che:
“la selezione di una casella tramite il click non può essere equiparata al requisito della doppia sottoscrizione richiesto dall'art. 1341 c.c., dal momento che essa non può essere assimilata alla firma del contraente che non abbia predisposto il testo dell'accordo.”[8]
Tale orientamento, ha ripreso una un po’ meno recente decisione del Tribunale di Catanzaro del 2012,[9] in cui l’attore aveva lamentato la natura vessatoria della clausola contenuta nei termini d’uso del sito web del preponente (eBay), che consentiva alla società di sospendere o cancellare in ogni momento, anche senza motivazione, l’account con cui il venditore poteva utilizzare la piattaforma.
Il Tribunale aveva accolto la domanda, constatando la natura abusiva della clausola e rilevando che eBay non avesse predisposto un meccanismo di doppia accettazione valido ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., tramite specifica approvazione dell’aderente delle CGC per mezzo di firma digitale, posto che solo quest’ultima avrebbe garantito l’effettiva accettazione della disposizione e l’identificabilità del sottoscrivente.
A parere di chi scrive, posto che il testo dell’art. 1341, secondo comma c.c., non richiede la specifica sottoscrizione delle clausole vessatorie, quanto piuttosto la loro approvazione, la firma digitale non dovrebbe essere ritenuto elemento necessario per garantire il soddisfacimento di tale requisito, quanto piuttosto per superare un differente (ed ulteriore) ostacolo, ossia relativo alla prova della riconducibilità della sottoscrizione di un contratto elettronico ad un soggetto ben identificato.[11]
A tale proposto, posto che tale “identificazione” può essere effettuata anche in modalità più snelle e più in linea con quelle che sono le esigenze commerciali di entrambe le parti, si potrebbe ritenere che la validità dell’accettazione delle condizioni generali di contratto tramite clic e la loro riconducibilità ad un determinato soggetto, possa essere maggiormente “rafforzata” se questa viene raccolta, ad esempio, a seguito di un login con inserimento di user name e password da parte dell’aderente.[12]
Si evidenzia comunque che più recentemente, nel 2018, il Tribunale di Napoli in una vicenda analoga (relativa ancora ai termini di utilizzo di eBay), ha invece accolto un orientamento assai difforme, ritenendo non necessario introdurre il requisito della firma digitale per accettare le clausole vessatorie, posto che questa soluzione avrebbe portato a:
“trasformare in via pretoria tutti i contratti telematici in contratti a forma vincolata, imponendo per la loro stipula l’impiego di uno strumento sofisticato, ancora non massivamente diffuso tra il pubblico, e così paralizzando, di fatto, lo sviluppo sul piano nazionale di un intero settore di traffici sempre più importante a livello planetario”.
Ancora in tal senso, si legge in un ormai risalente decisione del Giudice di Pace di Partanna,[10] che aveva ritenuto sufficiente ad integrare il requisito della forma scritta di cui all’art. 1341, secondo comma, c.c. tramite
“un doppio assenso, premendo sull’apposto tasto: uno di adesione e l’altro di approvazione delle clausole cosiddette vessatorie.”
3) 1341 c.c. e commercio internazionale
3.1. Deroga della giurisdizione.
Dopo avere, seppure assai brevemente, analizzato quelle che sono le principali problematiche relative ai limiti di utilizzabilità delle CGC nell’ambito del commercio elettronico, si va qui di seguito ad esaminare la possibilità di derogare la giurisdizione in favore dell’Autorità Giudiziaria di uno Stato membro, semplicemente inserendo una clausola di proroga all’interno delle condizioni generali di contratto, da sottoporre all’accettazione dell’aderente tramite un semplice clic.
L’art. 23 del regolamento Bruxelles I bis, prevede che l’accordo attributivo di competenza deve essere concluso:
- “Per iscritto o oralmente con conferma scritta,
- o in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro, o
- nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere […].
- La forma scritta comprende qualsiasi comunicazione elettronica che permetta una registrazione durevole della clausola attributiva di competenza”
La Corte di Giustizia Europea[13] è stata interrogata a rispondere se la procedura di accettazione mediante clic, con cui un compratore ha accesso alle condizioni generali di vendita che figurano su un sito Internet cliccando appunto su un collegamento ipertestuale che apre una finestra, soddisfi i requisiti dell’art. 23, paragrafo 2, del regolamento di Bruxelles I.
Il caso, riguardava un concessionario di automobili stabilito in Germania, che dopo avere acquistato sulla pagina web della convenuta (una società con sede Belgio), chiamava in giudizio parte venditrice presso il tribunale tedesco di Krefeld. La venditrice si costituiva sostenendo che i giudici tedeschi non erano competenti, tenuto conto che all’art. 7 delle CGC di vendita era prevista una clausola attributiva di competenza a favore del giudice di Lovanio (Belgio).
La Corte di Giustizia, confermava la competenza del giudice di Lovanio, ritenendo che la procedura di accettazione mediante clic delle condizioni generali di un contratto di vendita conclusosi elettronicamente, che contengono una clausola di deroga di competenza, costituisce una accettazione per iscritto delle stesse, trattandosi di comunicazione elettronica che, seppure non si apra automaticamente al momento della registrazione sul sito internet, permette di essere salvata o stampata prima della conclusione del contratto e costituisce pertanto una comunicazione elettroniche ai sensi dell’art. 23, paragrafo 2, del regolamento.
Tale problematica è stata recentemente sottoposta anche alle Sezioni Unite della Cassazione,[14] che hanno ritenuto che una clausola di proroga della giurisdizione (ex art. 23 del Regolamento), è valida anche qualora sia contenuta nelle condizioni generali di un contratto, espressamente richiamate nell'ordine di acquisto sottoscritto dal committente ed accessibili da indirizzo web ivi richiamato e che prima della conclusione del contratto, sia possibile stampare e salvare il testo di dette condizioni.
La deroga di giurisdizione, non richiede quindi la specifica approvazione scritta dell'aderente, ex art. 1341, secondo comma, c.c., posto che essa non rientra tra le clausole vessatorie ivi tassativamente elencate. È opportuno fare presente che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,[16] l’art. 1341 c.c. detta un criterio di competenza e che questo non incide sui diversi criteri attributivi di giurisdizione applicabili alle controversie internazionali. Le stesse Sezioni Unite[15] si sono recentemente pronunciate, sul punto affermando che:
“Il requisito della forma scritta, prescritto dall’art. 23 del Regolamento […], è rispettato ove la clausola stessa figuri tra le condizioni generali di contratto, se il documento contrattuale sottoscritto da entrambe le parti contenga un richiamo espresso alle condizioni generali suddette recanti quella clausola, senza la necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c.”
3.2. Condizioni generali di contratto e convenzione di Vienna.
Nel caso in cui le condizioni generali di contratto disciplinino dei rapporti di compravendita internazionale, con conseguente (eventuale) applicabilità della Convenzione di Vienna,[17] si pone la problematica se il requisito della doppia sottoscrizione di cui all’art. 1341 c.c. sia o meno invocabile.
Invero, la Convenzione di Vienna, al pari di ogni altra convenzione di diritto contrattuale uniforme, non regolamenta tutte le questioni che possono sorgere intorno ai contratti da essa disciplinati; tale elemento ha non poco rilievo se si considera che le questioni non disciplinate, dovranno essere risolte sulla base del diritto applicabile al rapporto contrattuale.[18]
Contrariamente, tutte le questioni che vengono espressamente regolamentate dalla Convezione, prevarranno sulle norme di diritto interno, che saranno dalla stessa derogate; per comprendere se l’art. 1341 c.c. sia in tal caso invocabile è essenziale comprendere se le CGC siano o meno regolate da tali norme di diritto uniforme.
Secondo più autorevole dottrina,[19] seppure le condizioni generali di contratto non vegano espressamente regolamentate dalla Convenzione di Vienna, posto che nella sua Parte II viene disciplinata in maniera esaustiva la "formazione del contratto" , per comprendere a quali requisiti di forma le CGC devono sottostare sarà necessario rifarsi alle norme della Convenzione stessa.
Sul presupposto che l’art. 11 della Convenzione di Vienna stabilisce il principio della libertà di forma, parte della dottrina[20] e della giurisprudenza[21] ha quindi ritenuto che in caso di applicazione della Convenzione, il requisito ex art. 1341 c.c. dell’assoggettamento di eventuali clausole vessatorie predisposte da uno dei contraenti alla specifica approvazione scritta, debba considerarsi derogato.
Seguendo tale principio ed applicandolo alle vendite online, si può quindi ritenere che, in caso di applicazione della Convenzione di Vienna, le clausole vessatorie inserite in condizioni generali di contratto non richiederebbero una specifica approvazione, potendo quindi essere accettate anche tramite “clic”; sarà pur sempre onere del disponente (ex art. 9) accertarsi che l’aderente sia stato messo in condizione di venire a conoscenza delle stesse, tramite un atteggiamento “proattivo” in virtù di un generale obbligo di buona fede e collaborazione commerciale.[22]
[1] Bianca, Diritto Civile, Giuffrè, Terza edizione, pag. 340.
[2] Tribunale Milano 18.6.2009.
[3] Bianca, Le condizioni generali di contratto, 1979, pag. 2.
[4] Cass. civ. 2003, n. 1833.
[5] Cass. Civ. 2013, n. 14038.
[6] Cass. civ. 2020, n. 8268.
[7] Trib. Rimini, 4.4.2020; Cass. Civ. 2018, n. 17939.
[8] Giudice di pace Trapani, 14.10.2019, con nota di Quarta La conclusione del contratto di albergo per via telematica: pagamento anticipato e revoca della prenotazione, Danno e responsabilità, 2020, 2; Giudice di pace Milano 28.01.2019, Tribunale di Catanzaro 30.4.2012, in Res. Civ. e prev., 2013, 2015 ss.
[9] Trib. Catanzaro 30.4.2012, in Contratti, 2013, 1, 41, con nota di V. Pandolfini, Contratto on line e clausole vessatorie: quale firma (elettronica)?
[10] Giudice di pace Partanna 1.2.2002.
[11] Lo stesso Tribunale di Catanzaro, argomenta che il contratto non è valido in quanto solo la firma digitale avrebbe garantito l’effettiva accettazione della disposizione e l’identificabilità del sottoscrivente.
[12] Sulla tematica cfr. anche Cerdonio Chiaramonte, Specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorio contrattazione online, NGCC, n. 3, 2018.
[13] Corte di Giustizia Unione Europea, 21.5.2015, n. 322/14.
[14] Cass. Civ. Sez. Un. 2017, n. 21622.
[15] Cass. Civ. Sez. Un. 2020, n. 1871.
[16] Sul punto cfr. Cass. Civ. Sez. Un. 1982, n. 6190, Cass. Civ. 2003, n. 17209, Cass. Civ. 2010, n. 14703.
[17] L’art. 1 della Convenzione che la stessa “si applica ai contratti di vendita delle merci fra parti aventi la loro sede di affari in Stati diversi: a ) quando questi Stati sono Stati contraenti; o b ) quando le norme di diritto internazionale privato rimandano all'applicazione della legge di uno Stato contraente.”
[18] Secondo la giurisprudenza italiana non sono disciplinate dalla Convenzione questioni legate ad es. alla rappresentanza e alla prescrizione (Trib. Padova 25.2.2004; Trib. Vigevano 12.7.2000).
[19] Ferrari, Vendita internazionale dei beni mobili,
[20] Bortolotti F. ‘‘Manuale di diritto commerciale internazionale’’ vol. II L.E.G.O. Spa, 2010; Ferrari F. ‘‘Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili’’ in Obb. e Contr., 2007, 4, 308; Bonell M.J. «Le condizioni generali in uso nel commercio internazionale e la loro valutazione sul piano transnazionale» in «Le condizioni generali di contratto» a cura di Bianca M., Milano, 1981).
[21] Trib. Rovereto 24.8.2006; Cass. Civ. 16.5.2007, n. 11226.
[22] In materia, Ferrari, Condizioni generali di contratto nei contratti di vendita internazionale di beni mobili, Obbligazioni e contratti, 2007, 308.
Contratto di agenzia e vendite online: esclusiva, non concorrenza e provvigioni indirette.
Se un produttore sceglie di vendere online tramite un proprio e-commerce, dovrà certamente fare i conti con le reazioni dei propri agenti, parimenti se il produttore vende a grossisti o distributori che decidono di mettere in rete i prodotti acquistati. Per non parlare se tale strategia viene posta in essere da qualche agente, il quale decide di iniziare a promuovere le vendite tramite l’ausilio del web.
Con questo articolo si andranno ad analizzare quelli che sono gli impatti giuridici che le vendite online hanno sulla rete vendita “tradizionale”, esaminate da tre punti di vista, quello appunto del produttore, del terzo e dell’agente.
1. Vendite online da parte del produttore e impatti sugli agenti di commercio.
Prima di analizzare quelle che sono le ripercussioni giuridiche in caso di decisione di mettere online i prodotti contrattuali, bisognerebbe rispondere alla seguente domanda: il produttore può vendere nelle zone in cui operano i propri agenti?
Per rispondere a tale domanda bisogna fare qualche passo indietro e comprendere in che maniera il preponente possa effettivamente operare all’interno della zona conferita all’agente in esclusiva.
– Leggi anche: L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia.
L’esclusiva viene disciplinata all’art. 1743 c.c. che vieta al preponente, salvo patto contrario, di avvalersi dell’opera di altri agenti all’interno del territorio. Secondo costante giurisprudenza, tale clausola, che costituisce elemento naturale del contratto, ((Cass. Civ. 2012 n. 16432; Cass. Civ. 2002 n. 5920; Cass. Civ. 1994 n. 2634; Cass. Civ. 1992 n. 5083.)) non vincola il preponente unicamente a non nominare più agenti all’interno del medesimo territorio, ma altresì è volta a proteggere l’agente da qualsiasi ingerenza del preponente all’interno della zona, tra cui anche la conclusione di affari oggetto dell'attività di impresa all’interno del territorio stesso.((Cass. Civ. 2004 n. 14667.))
Dall’altro canto, l’ordinamento prevede altresì che l’agente ha diritto alle provvigioni anche su affari conclusi dal preponente direttamente con clienti “appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati” (art. 1748, comma 2, c.c.); tale disposizione sembrerebbe conferire al preponente un “libero mandato” a vendere direttamente all’interno del territorio, alla sola condizione che riconosca all’agente le c.d. provvigioni indirette.
La giurisprudenza italiana è giunta ad un compromesso che tiene conto degli interessi contrapposti dalle parti, così come disciplinati dalle norme qui sopra richiamate, ritenendo che la libertà del preponente debba essere limitata all’esercizio in via occasionale di vendite all’interno del territorio, dovendosi escludere che il preponente possa ivi svolgere una sistematica ed organizzata attività di vendita. ((Si legge ad esempio in una recente sentenza della Cassazione che: “in materia di rapporto di agenzia, il proponente non può operare, con continuità, nella zona di competenza dell’agente ma, ai sensi dell’art. 1748, secondo comma, cod. civ., ha solamente la facoltà di concludere, direttamente, singoli affari, anche se di rilevante entità, dal cui compimento sorge il diritto dell’agente medesimo a percepire le cosiddette provvigioni indirette. Ne consegue che, ove l’intervento del proponente sia meramente isolato, il diritto al pagamento della provvigione ha, a sua volta, natura episodica e non periodica, e, come tale, è soggetto alla prescrizione ordinaria di cui all’art. 2946 cod. civ. e non alla prescrizione “breve” ex art. 2948, n. 4, cod. civ. (Cass. Civ. 2008, n. 15069); Cfr. anche Cass. Civ. 2009 n. 8948, Cass. Civ. 1993 n. 5591; sull’argomento cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Walters Kluver.))
Seguendo tale orientamento, qualora nel contratto non sia espressamente riconosciuto al preponente il diritto di effettuare (anche in maniera strutturata) vendite diretta all’interno del territorio esclusivo, il preponente che decidesse di impostare una strategia di vendita tramite canali online si sottopone al rischio di essere soggetto a contestazioni da parte dei propri agenti, per violazione dell’esclusiva, soprattutto se il commercio via web genera un quantitativo sostanzioso di vendite.((Cfr. Cass. Civ. 2009 n. 8948 in cui è stato “escluso di poter ravvisare la sussistenza di una giusta causa di recesso senza preavviso dell'agente dal rapporto di agenzia sulla sola base dell'omesso versamento da parte del preponente delle esigue provvigioni su appena nove contratti conclusi direttamente e di un ammontare complessivo marginale.”))
Molto interessante lo spunto promosso da una parte della dottrina, ((Baldi – Venezia, Giuffrè Editore, pag. 73 e ss.)) (che verosimilmente ritiene l’orientamento della giurisprudenza qui sopra richiamato troppo aleatorio e non in linea con il letterario dettato normativo dell’art. 1748, comma 2 c.c.) in base al quale dovrebbe essere vietato al preponente unicamente lo svolgimento di una vera e propria attività promozionale, ritenendo invece lecita la risposta alle domande di clienti che si rivolgono spontaneamente al preponente, estendendo così anche a questa ipotesi la distinzione tra vendite attive e passive del diritto antitrust.
2. Vendite online all’interno del territorio dell’agente esclusivo attraverso terzi distributori.
Un problema in parte differente è comprendere quando le vendite effettuate da soggetti terzi all’interno del territorio dell’agente possano costituire violazione dell’esclusiva.
Come si è già avuto modo di analizzare, salvo patto contrario, l’agente esclusivo ha diritto ex art. 1748, comma 2, c.c. alle provvigioni anche su tutte le vendite che il preponente effettua all’interno del proprio territorio; è perciò pacifico che qualora il preponente effettui delle vendite ad un grossista con sede nel territorio contrattuale, l’agente potrà rivendicare il diritto al pagamento delle provvigioni indirette. Per comprendere se il cliente (persona giuridica) possa considerarsi appartenente alla zona, è opportuno richiamare una abbastanza risalente sentenza della Corte di Giustizia,((Sentenza Kotogeorgas / Kartonpak del 12.12.1996, causa C-104/95.)) più recentemente confermata dalla Corte di Cassazione,((Cass. Civ. 2012 n. 5670.)) che ha chiarito essere appartenente alla zona ogni persona giuridica avente sede nel territorio in cui l’agente gode del regime di esclusiva.
Meno chiaro ed evidente è comprendere se tale soggetto terzo, una volta acquistati i prodotti dal preponente effettui delle vendite online direttamente a dei clienti appartenenti alla zona riservata all’agente, questi possa reclamare il diritto alle provvigioni nei confronti del preponente stesso.
Anche a risposta a tale questione è intervenuta una più recente pronuncia della Corte di Giustizia che ha sancito:
“L’art. 7, n. 2, primo trattino, della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, deve essere interpretato nel senso che l’agente commerciale incaricato di una zona geografica determinata non ha diritto alla provvigione per le operazioni concluse da clienti appartenenti a tale zona con un terzo senza l’intervento, diretto o indiretto, del preponente.” Ne consegue che sussisterà violazione dell’esclusiva e competerà all’agente il diritto alla provvigione indiretta, solamente se nelle vendite effettuate nel territorio da soggetti terzi, vi sia stato un intervento diretto o indiretto del preponente, ((Cass. civ. 2017 n. 2288.)) con il fine di sottrarre di fatto all’agente affari che quest’ultimo avrebbe potuto concludere.((Cfr. il principio statuito dalla Corte di Cassazione sez. Lav. nella sentenza 2011 n. 11197.))
3. Vendite online da parte degli agenti di commercio.
Contrariamente ai contratti di distribuzione, nei contratti di agenzia il preponente può impedire che l’agente effettui attività di promozione delle vendite online (a meno che l’agente, per le modalità in cui svolge la propria attività, non debba essere ritenuto soggetto alla normativa antitrust).
– Leggi anche: Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?
Sorge quindi spontanea le domanda, l’agente è libero di decidere di iniziare a promuovere le vendite online?
Invero, nel caso in cui un agente decidesse di muoversi in tal senso, si sconterà con quella che è la prerogativa tipica del web, ossia che sia per sua natura visibile ovunque e che una eventuale limitazione volta ad impedire i blocchi geografici ingiustificati sarebbe addirittura contraria alla normativa europea.
– Leggi anche: Geoblocking: che cos’è e quando si applica?
D’altro canto, come si è avuto modo già di spiegare all’inizio di questo articolo, il rapporto di agenzia prevede come elemento naturale del contratto l’obbligo di esclusiva a cui le parti sono tenute ad attenersi e che eventuali violazioni comportano degli illeciti contrattuali. In particolare, se l’agente effettua vendite fuori zona violerà il patto di esclusiva verso il preponente, non potendo in tal caso vantare alcuna provvigione essendo riservata esclusivamente all’agente della zona ove ha effettuato la vendita.
Nel caso, invece, il contratto preveda tale vendita fuori zona, l’agente esclusivista ove la vendita è stata effettuata, potrà esercitare un’azione verso il preponente, per violazione dei patti tra loro internamente intercorsi.
Calando tali principi nel mercato online, la questione che si pone è comprendere se la mera esistenza di un sito internet ove vengono offerte le vendite dei prodotti contrattuali (che per sua natura è visibile anche fuori dalla zona attribuita all’agente) debba essere considerata come un’attività di promozione delle vendite che viola l’esclusiva degli altri agenti.
Ad oggi non risultano esserci dei precedenti giurisprudenziali che abbiano dato risposta a tale domanda e per trovare una soluzione (quantomeno plausibile) è necessario ripercorrere i principi generali in tema di agenzia, richiamando i principi dettati dalla normativa antitrust, tenuto conto delle peculiarità del mercato online.
In base agli Orientamenti della Commissione, la mera esistenza di un sito Internet deve essere considerata, in linea di principio, come una forma di vendita passiva. Si legge infatti:
“se un cliente visita il sito Internet di un distributore e lo contatta, e se tale contatto si conclude con una vendita, inclusa la consegna effettiva, ciò viene considerato come una vendita passiva. Lo stesso avviene se un cliente decide di essere informato (automaticamente) dal distributore e questo determina una vendita.”((LGC n. 52.))
Contrariamente, deve considerarsi vendita attiva:
“La pubblicità on-line specificamente indirizzata a determinati clienti […]. I banner che mostrino un collegamento territoriale su siti Internet di terzi […] e, in linea generale, gli sforzi compiuti per essere reperiti specificamente in un determinato territorio o da un determinato gruppo di clienti”.((LGC n. 52.))
Risulterebbe quindi coerente con la normativa antitrust e il diritto della concorrenza europea, ritenere che la violazione dell’esclusiva da parte dell’agente si ha unicamente in caso di attività di promozione delle vendite “attive”, dovendo in caso contrario ritenere che la mera risposta alle domande di clienti non appartenenti alla zona, che si rivolgono spontaneamente all’agente avrebbe come conseguenza unicamente il mancato riconoscimento della provvigione all’agente stesso.
Tenuto conto di quelli che sarebbero comunque gli impatti sulla rete vendita dell’instaurazione di un sistema distributivo online, si consiglia di valutare con grande attenzione di regolamentare i rapporti contrattuali, in maniera coerente ed allineata con quelle che sono le effettive strategie distributive che si intendono attuare.
Diritto dell'agente alle provvigioni su affari conclusi dopo la cessazione del rapporto.
Quando il rapporto di agenzia viene a cessare, spesso accade che l'agente ha segnalato alcuni affari, oppure ha semplicemente iniziato delle trattative che sono confluite in un accordo a seguito dello scioglimento del contratto. In alcune (più rare ipotesi), l’agente ha concluso prima dello scioglimento del rapporto dei contratti di lunga durata. Comprendere se l'agente ha diritto o meno alle provvigioni su affari conclusi dopo lo scioglimento è di essenziale importanza.
Per comprendere se l'agente ha diritto alle provvigioni su affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto, bisogna in prima analisi individuare quali tra questi affari rientrino sotto il rapporto terminato e quali invece debbano considerarsi esclusi, posto che proprio da ciò si determina l’effettiva maturazione o meno della provvigione.
Con questo articolo si va in prima sede ad analizzare brevemente la fattispecie più tipica, relativa appunto agli affari conclusi dopo lo scioglimento del rapporto, per poi approfondire la più rara (ma non per questo meno importante) ipotesi di contratti di lunga durata, che sono stati conclusi prima dello scioglimento del rapporto di agenzia.
1. Provvigioni su contratti conclusi dopo lo scioglimento del contratto.
1.1. La disciplina civilistica.
A seguito della chiusura di un rapporto di agenzia spesso accade che l’agente ha segnalato al preponente determinati affari, ovvero abbia iniziato alcune trattative che sono confluite in un accordo a seguito dello scioglimento del contratto. In tali casi bisogna comprendere quali tra questi affari rientrino sotto il rapporto terminato e quali invece debbano considerarsi esclusi, posto che da ciò si determina l’effettiva maturazione o meno della provvigione.
Tale questione viene regolata dal terzo comma dell’1748 c.c., che dispone l’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se:
- “la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o
- gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta, salvo che da specifiche circostanze risulti equo ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti.”
Tale impostazione[1] è volta ad evitare che il preponente possa correre il rischio di pagare una doppia provvigione: una all’agente uscente ed una a quello entrante.[2] In caso di scioglimento del rapporto, pertanto, l’agente avrà diritto alla provvigione:
- se ha inoltrato l’ordine al preponente prima dello scioglimento del contratto, oppure se il preponente lo ha ricevuto direttamente dal cliente di zona (nel caso in cui spetti all’agente la provvigione indiretta);
- negli altri casi, la provvigione è dovuta unicamente se l’affare è stato concluso entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività svolta dall’agente stesso.
Richiede certamente maggiore attenzione la seconda ipotesi, ossia quella che riconosce la provvigione all’agente, anche se la proposta è pervenuta dopo lo scioglimento del rapporto, purché la stipula sia avvenuta entro un termine ragionevole.
Uno dei maggiori problemi interpretativi è individuare cosa si debba intendere per “termine ragionevole”, ossia quale sia la durata temporale massima, perché possa riconoscersi all’agente ancora il diritto alla provvigione. Sul punto la giurisprudenza non è uniforme, si legge di casi che hanno fissato tale termine in sei mesi[3] ed altri che hanno ritenuto ragionevole un termine addirittura biennale.[4] Si deve comunque ritenere che la ragionevolezza del termine debba essere parametrata anche in base al settore merceologico in cui l’agente ha operato ed agli usi in vigore in tale rapporto.
1.2 La disciplina AEC.
Certamente più chiara è la disciplina degli AEC Industria 2014, che all'art. 6, ultimo comma, prevedono che l’agente ha diritto alla provvigione sugli affari proposti e conclusi anche dopo lo scioglimento del contratto, non solo se la conclusione dell’affare sia effetto della sua attività, ma altresì la subordinano al fatto che:
- all’atto della cessazione del rapporto, l’agente deve relazionare dettagliatamente la preponente sulle trattative commerciali intraprese, ma non concluse, a causa dell’intervenuto scioglimento del contratto di agenzia;
- qualora, nell’arco di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, alcune di tali trattative vadano a buon fine, l’agente avrà diritto alle relative provvigioni;
- decorso tale termine, la conclusione di ogni eventuale ordine, inserito o meno nella relazione dell’agente, non potrà più essere considerata conseguenza dell’attività da lui svolta e non sarà quindi riconosciuta alcuna provvigione;
- alcuna provvigione sarà dovuta per gli affari conclusi anche entro sei mesi, ma non indicati all’interno della relazione.
2. Il diritto alle provvigioni sui contratti di lunga durata.
Nel caso in cui l’agente nel corso del rapporto promuova contratti di durata, il diritto alla provvigione sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto procurato successivamente allo scioglimento del rapporto, dipende essenzialmente dalla natura del contratto di durata.
In linea di massima, nel caso in cui il contratto di durata sia un contratto di somministrazione, di subfornitura, ovvero un contratto di vendita a consegne ripartite, si può affermare che (salvo non sia stato diversamente pattuito),[5] l’agente abbia diritto alla provvigione su tutte le forniture effettuate anche a seguito dello scioglimento del contratto di agenzia, essendo questi di fatto atti di esecuzione di un contratto concluso nel corso del rapporto.
Contrariamente, qualora il contratto promosso sia un contratto quadro, in cui ciascuna fornitura deve formare oggetto di un ulteriore accordo (ordine - accettazione), in tal caso le singole forniture dovranno essere considerate come contratti di vendita indipendenti,[6] seppure conclusi nel contesto del contratto quadro, con la conseguenza che tali successivi contratti di vendita non daranno diritto alla provvigione (fatto salvo che l’agente non riesca a dimostrare che tali affari, siano riconducibili alla sua attività di promozione e siano stati conclusi entro un termine ragionevole).
Proseguendo con il ragionamento, nel caso in cui, invece, il rapporto di durata venga sottoscritto dal preponente a seguito dello scioglimento del rapporto, per comprendere se l’agente possa avere diritto alla provvigione, non sarà sufficiente accertare la natura del rapporto di durata, ma, altresì, dimostrare che la conclusione dell’affare, sia riconducibile all’attività di promozione dell’agente.
Si richiama qui di seguito un caso molto interessante,[7] che è stato deciso da una serie di tre sentenze del Tribunale di Grosseto, avente ad oggetto la seguente fattispecie: un agente, a seguito di gravose trattative protrattesi per diversi mesi, aveva procurato alla preponente (una società che opera nel settore degli alimenti surgelati) un affare con una catena di supermercati, avente ad oggetto la somministrazione a tempo indeterminato di piatti pronti surgelati e preconfezionati. Il contratto di somministrazione veniva stipulato qualche mese dopo lo scioglimento del rapporto di agenzia.
L’agente conveniva in giudizio la preponente, affinché gli venissero riconosciute le provvigioni sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto di somministrazione. Con sentenza n. 52/2012 il Tribunale di Grosseto accoglieva le richieste attoree, ritenendo che:
“il contratto di somministrazione, è stato formalmente stipulato […] poco più di due mesi dopo lo scioglimento del contratto di agenzia […], termine che deve essere considerato, per la sua oggettiva brevità, assolutamente ragionevole.
Seppure il Tribunale avesse accertato il diritto dell’agente alle provvigioni, ha respinto la domanda attorea, volta ad ottenere la condanna del preponente al pagamento delle stesse
“fino al termine del contratto di somministrazione […] in quanto si tratterebbe di una pronuncia di condanna “in futuro” correlata, per di più ad un termine che nel contratto di somministrazione non è stato individuato dalle parti, giacché lo stesso contratto risulta essere stato stipulato a tempo indeterminato.”
L’agente, qualche anno dopo l’emanazione della prima sentenza, ha promosso un ulteriore giudizio, con il quale ha domandato la condanna della preponente al pagamento delle provvigioni sulle forniture eseguite dopo l’accertamento peritale di cui al primo giudizio. L’agente ha fondato la propria richiesta, sul principio di cui all’art. 2909 c.c., in base al quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti. Il Tribunale ha condannato nuovamente la preponente, asserendo che
“il diritto ad ottenere il pagamento delle provvigioni via via che matureranno in relazione all’esecuzione protratta nel tempo del contratto di somministrazione, è pacifico e già accertato nella sentenza irrevocabile emessa da questo Ufficio con conseguente applicazione dell’effetto revulsivo previsto dall’art. 2909 (sul punto tra le tante Cass. Sez. Lav. 2001 n. 4304).”
A seguito di tale pronuncia, al fine di evitare il pagamento delle provvigioni sugli affari futuri, la preponente ha provveduto a cedere di fatto l’affare ad una società dello stesso gruppo, anch’essa attiva nel settore degli alimenti surgelati. L’agente è ricorso, quindi, nuovamente al Tribunale di Grosseto, sostenendo che la cessione del contratto di durata ex art. 1406 c.c., comportava l’obbligo del cessionario di provvedere al pagamento delle provvigioni. Il Tribunale di Grosseto,[8] sposava nuovamente la tesi dell’attore, affermando che:
“poiché la caratteristica della cessione del contratto ex art. 1406 c.c. è l’avere ad oggetto la trasmissione di un complesso unitario di situazioni giuridiche attive e passive che derivano da ciascuna delle parti del contratto […], la cessionaria sarà tenuta a corrispondere al ricorrente le provvigioni – nella stessa misura convenuta nel contratto di agenzia à sulle forniture di prodotti alimentari surgelati effettuate in favore della X srl.”
3. Provvigioni su contratti di lunga durata ed indennità di fine rapporto.
Da ultimo, si tiene altresì a sottolineare, che la sottoscrizione di contratti di durata, possa essere utilizzato come elemento determinante per provare che sussistono le condizioni richieste dall’art. 1751 c.c., perché scaturisca il diritto dell’agente a percepire l’indennità di fine rapporto (cfr. Indennità di fine rapporto dell’agente. Come si calcola se non si applicano gli AEC?). Si legge in una interessante sentenza della Cassazione che:
“L'indennità di cessazione del rapporto di agenzia compensa l'agente per l'incremento patrimoniale che la sua attività reca al preponente sviluppando l'avviamento dell'impresa. Ne consegue che tale condizione deve ritenersi sussistente, ed è quindi dovuta l'indennità, ove i contratti conclusi dall'agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell'avviamento e la protrazione dei vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia, sono in re ipsa”.[9]
[1] Articolo riformato con D.Lgs. n. 65/1999, con il quale il legislatore ha recepito i principi della Direttiva europea n. 86/653 e, in particolare, di cui all’art. 8 che così dispone: “Per un'operazione commerciale conclusa dopo l'estinzione del contratto di agenzia, l'agente commerciale ha diritto alla provvigione; a) se l'operazione è dovuta soprattutto al risultato dell'attività da lui svolta durante il contratto di agenzia e se l'operazione è conclusa entro un termine ragionevole dopo l'estinzione del contratto, o b) se, conformemente alle condizioni di cui all'articolo 7, l'ordinazione effettuata dal terzo è stata ricevuta dal preponente o dall'agente commerciale prima dell'estinzione del contratto di agenzia.”
[2] Cfr. Tribunale di Rimini, 22.9.2004, n. 238 che ha escluso il diritto dell’agente alle provvigioni in caso di proroghe delle offerte di fornitura, stante l’assenza del preponderante intervento promozionale dell’ex agente. Sul punto cfr. VENEZIA, Il contratto di agenzia, pag. 281, 2015, CEDAM.
[3] Cass. Civ. 2006, n. 2824, in Leggi d’Italia
[4] Cass. Civ. 2013, n. 894, in Leggi d’Italia
[5] L’art. 1748 comma 3 c.c., sulle provvigioni spettanti per affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto è interamente derogabile: a favore Saracini-Toffoletto, Il contratto di agenzia. Commentario, 2014, GIUFFRÈ e Bortolotti, opera cit., pag. 276; contrario, Trioni, che ritiene che tale norma non è inderogabile, posto che il terzo comma dell’art. 1748 c.c., diversamente dal secondo e quarto, non prevede espressamente la salvezza dei patti contrari.
[6] Cfr. sul punto BORTOLOTTI, Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, pag. 8, 2007, CEDAM.
[7] Per maggiori approfondimenti cfr. Giulia Cecconi, Le provvigioni sui contratti di durata, in Agenti e rappresentanti di commercio, 1/2019, AGE EDITRICE.
[8] Tribunale di Grosseto, sentenza n. 269 del 2018.
[9] Cass. Civ. sez. lav. n. 24776 del 2013.
L'influencer (o lo youtuber) è un agente di commercio: spunti di riflessione.
L'influencer spesso svolge un'attività di promozione delle vendite dietro retribuzione di un corrispettivo: questo fa di lui un agente di commercio?
Per potere inquadrare giuridicamente la figura dell’influencer, bisogna partire da una breve un’analisi dell’attività da questi svolta, cercando di darne una, seppur generica, definizione. L’influencer, come dice la parola stessa, è un soggetto che è in grado di influenzare le opinioni e gli atteggiamenti di altre persone, in ragione della sua reputazione e autorevolezza rispetto a determinate tematiche o aree di interesse.[1]
In particolare, il marketing influencer è un esperto di settore (che può andare dal fashion, ai viaggi, dalla musica, alla tecnologia, etc.) che, con i propri post, permette di offrire maggiore visibilità a prodotti o servizi da lui promossi, avvalendosi dei canali web che ritiene più opportuni ed adeguati (Instagram, Youtube, Facebook, un blog personale, etc.).
L’influencer proprio per il ruolo determinante che svolge all’interno dei processi comunicativi, viene spesso incaricato dalle imprese del settore in cui esso opera, per pubblicizzare i loro prodotti, andando così a svolgere un’attività promozionale delle vendite, che viene retribuita tramite il pagamento di un compenso.
Proprio perché l’influencer spesso svolge un’attività di promozione delle vendite dietro retribuzione di un corrispettivo, tipica della ben più nota figura dell’agente di commercio, può sorgere la domanda se l’influencer (in alcune ipotesi), possa essere accumunato a tale figura contrattuale (cfr. sul punto Ma le piattaforme online sono agenti di commercio?)
Prima di procedere a tale analisi, è importante chiarire che, con il presente articolo, si vogliono dare alcuni spunti di riflessione, volti principalmente a cercare di meglio inquadrare le nuove modalità di intermediazione, con l’intento di “monitorare” lo sviluppo delle tecniche distribuzione, tramite l’ausilio delle nuove tecnologie.
Qualora il rapporto contrattuale tra azienda ed influencer sia regolato da un accordo scritto, il punto di riferimento dell’attività dell’interprete deve essere certamente in primo luogo il testo della dichiarazione negoziale.
Ad ogni modo, seppure il testo negoziale rappresenti il primo parametro interpretativo, per una corretta esegesi non ci si deve limitare “al testo letterale delle parole” (art. 1362 c.c.), ma occorre ricercare, attraverso un esame complessivo dell’atto, interpretando le clausole del negozio “le une per mezzo delle altre” (art. 1363 c.c.), quale sia stato il risultato perseguito con il compimento dell’accordo, ossia quale sia stata “la comune intenzione delle parti”, vale a dire il significato che entrambe attribuivano all’accordo[2].
Per risalire alla volontà delle parti bisognerà tenere conto di come si è sviluppato effettivamente il rapporto che lega l'influencer alla società produttrice, andando ad analizzare alcuni degli elementi contrattuali tipici dell’agenzia, ovvero se:
- sussiste o meno un’attività di consulenza, oltre a quella di promozione delle vendite;
- è previsto un obbligo di stabilità dell’incarico;
- l'azienda ha il potere di impartire le linee guida e le strategie di mercato dell’influencer;
- sussiste un divieto di non concorrenza contrattuale;
- è previsto un pagamento provvigionale, basato sulle vendite effettuate.
Non essendoci un unico e “risolutivo” elemento che permette di comprendere se un determinato rapporto possa essere qualificato come agenzia, dovranno essere considerati nel singolo caso di specie i differenti elementi tipici di tale figura contrattuale, tenendo presente che nessuno di essi permette da solo di inquadrare correttamente il rapporto, dovendosi piuttosto effettuare una valutazione complessiva dell’insieme degli stessi.[3]
1. Sussiste un’attività di consulenza, affiancata a quella di promozione?
Talvolta i rapporti contrattuali che legano gli influencer alle aziende vengono disciplinati da dei contratti di consulenza, retribuiti tramite il pagamento di un compenso fisso, talvolta affiancato ad un compenso variabile, calibrato sulle vendite generate dall’attività promozionale dell’influencer.
È infatti indubbio che spesso l’influencer svolge una e vera propria attività di consulenza, essendo questi un professionista che conosce il mercato dei social e l’azienda lo contatta, non solo per la sua notorietà, ma altresì per comprendere in che maniera pubblicizzare i prodotti tramite l’utilizzo di piattaforme digitali.
È anche vero che è tutt’altro che insolito che i post e i video pubblicati siano “accompagnati” da un link, che reindirizza il consumatore verso un determinato negozio online (che può essere sia del produttore, che di un soggetto terzo), ove è possibile acquistare il prodotto pubblicizzato dall’influencer.
L’eventuale acquisto da parte del consumatore tramite l’utilizzo di tale link viene tracciato, permettendo così alle parti di verificare le vendite effettivamente realizzate tramite l’attività promozionale dell’influencer, su cui eventualmente calcolare i compensi variabili.
In tal caso, ci si troverebbe di fronte ad un contratto c.d. “misto”, costituito dalla fusione delle cause di due contratti: un contratto di intermediazione e un contratto d’appalto di servizi di consulenza. Secondo la giurisprudenza, nel caso le parti stipulino un contratto avente tale natura mista, lo stesso dovrà essere assoggettato alla disciplina unitaria del contratto prevalente. Si legge sul punto che:
“Il contratto misto, costituito da elementi di tipi contrattuali diversi, non solo è unico, ma ha causa unica ed inscindibile, nella quale si combinano gli elementi dei diversi tipi che lo costituiscono. Esso è soggetto alla disciplina del contratto prevalente e la prevalenza si determina in base ad indici economici od anche di tipo diverso, come la "forza" del tipo o l'interesse che ha mosso le parti, salvo che gli elementi del contratto non prevalente, regolabili con norme proprie, non siano incompatibili con quelli del contratto prevalente.”[4]
Alla luce di quanto sopra, per comprendere a quale categoria assoggettare il rapporto di intermediazione/consulenza, bisognerà fare riferimento a come si è sviluppato effettivamente il rapporto nel corso degli anni e verificare se l’attività di consulenza abbia o meno prevalenza su quella di intermediazione, rilevando che, in caso affermativo, sarebbe più complesso considerare il rapporto come un contratto di agenzia (Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale).
2. Assenza di un obbligo di stabilità dell’incarico
Per comprendere se il rapporto tra azienda ed influencer possa essere assoggettato alla disciplina dell’agenzia, è certamente essenziale accertare che l’attività di promozione delle vendite (e non unicamente del posizionamento del brand) venga effettuata con stabilità. Come si è già avuto modo di approfondire (cfr. Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?) è proprio l’obbligo di promuovere con stabilità le vendite uno degli elementi distintivi del contratto di agenzia. Si legge in giurisprudenza che:
“mentre l'agente è la parte che assume stabilmente l'incaricodi promuovere per conto dell'altra (preponente o mandante), la conclusione di contratti in una zona determinata, il procacciatore d'affari è colui che raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole alla ditta da cui ha ricevuto l'incarico di procacciare tali commissioni, senza vincolo di stabilità (a differenza dell'agente) e in via del tutto occasionale […].
Quindi, mentre la prestazione dell'agente è stabile, avendo egli l'obbligo di svolgere l'attività di promozione dei contratti, la prestazione del procacciatore è occasionale, nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa.[5]”
Se l’accertamento della stabilità dell’incarico è un’attività già complessa in caso di intermediazione “tradizionale”, lo è certamente ancora di più se l’attività di promozione viene effettuata online. Si pensi al (non raro) caso di un influencer che effettua la recensione di un prodotto su youtube. L’attività che questi pone in essere è creare un video e postarlo sulla piattaforma.
Gli effetti di tale attività promozionale, in ogni caso, perdurano nel tempo, a volte per mesi o addirittura anni (normalmente fino a che il prodotto recensito non viene superato da un nuovo prodotto lanciato dalla casa madre, oppure fino a quanto il video non viene cancellato dal web). In tale caso, bisognerebbe comprendere se tale attività di promozione che dispiega i suoi effetti nel tempo, possa o meno essere considerata come “stabile” ai sensi di un rapporto di agenzia.
Se a questa domanda non è certamente facile dare una risposta univoca, è certamente privo di dubbi consigliare di disciplinare contrattualmente le modalità di pagamento dei compensi sulle vendite veicolate da tale post realizzate successivamente la cessazione del rapporto di collaborazione tra influencer ed azienda.
(Sul tema, cfr. Le provvigioni dell’agente di commercio per gli affari conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del rapporto; …ma se l’agente di commercio ha procurato contratti di lunga durata e il rapporto si scioglie prima della loro scadenza…).
3. Obbligo del preponente di impartire le linee guida e strategie di mercato
Un secondo punto distintivo della figura dell’agente di commercio è sicuramente costituito dall’obbligo che lo stesso assume di seguire le istruzioni del preponente, il quale è il soggetto preposto a decidere le politiche di mercato e impartire le strategie commerciali alla rete distributiva. L’art. 1746, comma 1, c.c., dispone espressamente che l’agente deve:
“adempiere l’incarico affidatogli in conformità delle istruzioni ricevute […]”.[6]
Nel rapporto di agenzia compete alla casa mandante l’elaborazione delle strategie di vendita e di marketing, strategie di cui, normalmente, gli agenti fanno parte e a cui gli stessi dovranno attenersi per lo svolgimento dei propri compiti, sempre entro i limiti prescritti dalla casa mandante.
Ne consegue che l’agente ha il dovere di seguire le istruzioni del preponente ed è obbligato ad operare conformemente alle sue prescrizioni, anche relativamente agli obiettivi da perseguire ed ai risultati da raggiungere, non potendosi esimere dall’adottare determinate modalità di vendita o tecniche di marketing messe a punto dal preponente.[7]
Ancora una volta, come si è già avuto modo di analizzare al punto 1 di tale articolo, bisognerà verificare con grande attenzione se l’influencer sia tenuto a seguire le direttive generali dell’azienda, oppure se sia lui stesso che indirizza l’azienda nelle scelte di strategia e marketing nel settore si sua competenza (in tema cfr. Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi.).
4. Assenza del divieto di concorrenza
L’art. 1742 c.c. dispone che:
“Il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.”
Secondo giurisprudenza costante il divieto di concorrenza costituisce elemento naturale, ma non essenziale del contratto di agenzia[8], con la conseguenza che le parti sono libere di regolare diversamente i loro rapporti sia con una pattuizione espressa, sia a mezzo di un comportamento concludente[9] (in tema cfr. anche L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia e Contratto di agenzia, esclusiva e provvigioni indirette.).
Seppure un agente sia di norma libero di agire promuovendo più prodotti in concorrenza tra loro, tale modalità di promozione così “aperta” è certamente anomala e si riscontra in un numero più limitato di rapporti contrattuali.
Calando tale principio al caso di specie, si potrebbe affermare che se un influencer svolge la propria attività in favore di diverse aziende tra loro concorrenti, senza che nessuno dei soggetti intermediati sollevi qualsiasi contestazione su dette modalità di operare, tale elemento potrebbe essere un indizio che, seppure di per se non può assolutamente escludere che il rapporto possa essere inquadrato come agenzia, se congiunto a quelli già sopra analizzati, potrebbe essere una componente che può influire sulla sua classificazione
5. Pagamento delle provvigioni
Qualora il contratto preveda espressamente quale modalità di calcolo del corrispettivo dell’influencer il pagamento provigionale, questo non può da solo ritenersi un elemento sufficiente per potere identificare il rapporto come agenzia. Le parti, infatti, sia che intendano stipulare un contratto di intermediazione, sia che vogliano concludere un contratto di consulenza/appalto di servizi, possono liberamente (ex art. 1322 c.c.) definire le modalità retributive che ritengono essere le più adeguate ed idonee al caso di specie.
Basti pensare che, nell’ipotesi in cui il rapporto dovesse essere inquadrato come un contratto atipico di fornitura di servizi, l’art. 1657 c.c. in tema di appalti, conferisce alle parti la piena libertà di decidere quali siano le modalità di pagamento e conteggio delle prestazioni, che pertanto può essere anche di natura provvigionale.
Ciò premesso, non si può comunque negare che il pagamento dell'attività tramite il riconoscimento di una provvigione sia tipico del rapporto di agenzia e non si deve pertanto escludere che di ciò debba esserne tenuto conto in caso di interpretazione del rapporto contrattuale.
Qualora, il rapporto venisse retribuito unicamente con un compenso in forma fissa, seppure la direttiva europea non esclude la conciliabilità di tale modalità retributiva con la figura dell’agente, la giurisprudenza italiana (criticata da parte della dottrina[10]) si è dichiarata contraria a tale tesi,[11] ritenendo che in tal caso l’intermediario non assumerebbe alcun rischio di impresa, caratteristica che contraddistingue la figura dell’agente.
Diversa cosa, invece, se il rapporto dovesse essere retribuito tramite il pagamento di una remunerazione mista, con le quali viene abbinata una componente fissa ad una componente variabile. Tale soluzione con cui all’agente viene assicurato un “minimo garantito” viene considerato lecito e compatibile con il rapporto di lavoro d’agenzia.[12]
Quelli sopra analizzati sono solamente alcuni elementi che permettono all’interprete, di capire come meglio inquadrare un rapporto contrattuale “dubbio”, che dovrà comunque essere attentamente analizzato nella sua interezza, verificando i singoli elmenti che caratterizzano tale figura contrattuale così complessa e versatile.
[1] https://www.glossariomarketing.it/significato/influencer/.
[2] TORRENTE – SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, § 311, GIUFFRE EDITORE.
[3] Bortolotti, Contratti di distribuzione, pag. 129, 2016, Wolters Kluwer.
[4] Cfr. Trib. Cagliari, 4. 5.2017; Trib. Firenze Decreto, 2.11.2016, Trib. Taranto Sez. I, 11.8.2016, Trib. Milano Sez. VII, 29/02/2012; Cass. civ. Sez. Unite, 12.5.2008, n. 11656.
[5] Tribunale di Firenze Sez. lavoro, 4.3.2014.
[6] Tale obbligo si riscontra altresì nell’art. 5, comma 2, AEC Industria 2014 ed nell’art. 3, comma 2, AEC commercio 2009.
[7] Sul punto cfr. anche Bortolotti, contratti di distribuzione, Wolters Kluwer, 2016, pag. 166 e ss.
[8] Cass. Civ. 2002 n. 5920, Cass. Civ. 1994 n. 2634, Cass. Civ. 1992 n. 5083.
[9] Cass. Civ. 2007 n. 21073, Cass. Civ. 1992 n. 5083.
[10] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore; Saracini-Toffoletto, p. 327 ss.
[11] Cass. Civ. 1986 n. 3507; Cass. Civ. 1991 n. 10588; Cass. Civ. 2012 n. 12776. Tale ultima sentenza si è spinta ad ammettere che “nel rapporto di agenzia le parti possono prevedere forma di compenso delle prestazioni dell’agente diverse dalla provvigione determinata in misura percentuale sull’importo degli affari conclusi (come ad esempio una somma fissa per ogni contratto concluso”, ma senza spingersi a riconoscere che la remunerazione in forma provigionale possa essere del tutto sostituita da una retribuzione fissa.
[12] Cfr. sul punto Cass. Civ. 1975 n. 1346; Cass. Civ. 1980 n 34; Trib. Di Milano 9 settembre 2011.
Gli effetti del coronavirus sui contratti di agenzia e di distribuzione.
Le misure restrittive che il governo ha adottato contro il coronavirus tramite il DCPM del 11.3.2020,[1] hanno portato alla sospensione di un gran numero di attività commerciali, con grave incidenza sui rapporti contrattuali in essere. Con questo articolo si cercherà di focalizzare l’attenzione sui contratti di agenzia e di distribuzione, cercando di comprendere quelli che sono i rimedi che vengono forniti dal nostro ordinamento per gestire le problematiche che più verosimilmente potranno insorgere tra le parti.
In materia contrattuale, a seguito del succitato provvedimento ministeriale, il legislatore non è intervenuto con provvedimenti ad hoc (si riscontrano unicamente in tema di agenzia alcuni provvedimenti di carattere prevalentemente tributario e contributivo),[2] limitandosi a disporre all’art. 91 Decreto Legge 18 marzo 2020, meglio conosciuto come “Cura-Italia”, in tema di “disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento”,quanto segue:
“il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”
Il senso di tale provvedimento normativo sembrerebbe demandare al giudice una valutazione più accurata e prudenziale di un eventuale inadempimento colpevole (art. 1218 c.c.) causato dal “rispetto delle misure di contenimento” della pandemia, anche ai fini della quantificazione del danno (art. 1223 c.c.), elevando il rispetto di tali misure a parametro di valutazione dell’imputabilità e dell'importanza dell’inadempimento (art. 1455 c.c.).
1. La disciplina civilistica.
Come è noto, l’art. 1218 c.c. fissa i criteri per determinare la responsabilità del debitore che non adempie la propria obbligazione, prevedendone l’esonero di una sua responsabilità per danni (art. 1223 c.c.) ogni qualvolta l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile (ex art. 1256 c.c.).[3]
L’art. 1256 c.c. prevede altresì che l’impossibilità sopravvenuta possa portare all’estinzione dell’obbligazione, dovendosi comunque distinguere tra la fattispecie di impossibilità definitiva e impossibilità temporanea. Mentre la prima, essendo irreversibile, estingue l’obbligazione automaticamente (ex art. 1256, 1 comma c.c.), la seconda determina l’estinzione dell’obbligazione solo se perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione, il debitore non può più essere tenuto obbligato ad eseguire la prestazione, ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.[4]
Posto che nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità di eseguire un’obbligazione, non sempre comporta automaticamente l’impossibilità di adempiere la controprestazione (ad es. se il venditore non può consegnare un prodotto, il compratore potrà essere ancora in grado di pagare il prezzo della cosa venduta)[5] il legislatore ha inteso tutelare la parte che ha subito l’inadempimento, disponendo all’art. 1460 c.c. che ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che non sia diversamente pattuito contrattualmente (quindi il venditore può rifiutare di provvedere al pagamento, se il produttore non consegna la merce).
Tale eccezione potrà comunque essere sollevata solamente se vi è proporzionalità tra le due prestazioni, tenuto conto della loro rispettiva incidenza sull'equilibrio del rapporto.[6]
Al fine di evitare che il rapporto contrattuale si trasformi in un “limbo” in cui entrambe le parti si limitino unicamente a dichiarare di non volere adempiere alle loro rispettive obbligazioni, qualora l’inadempimento (nel nostro caso del venditore) dipende da fattori esterni sopravvenuti (ad es. le misure sospensive del covid-19) il legislatore (riprendendo i principi generali dettati in tema di risolubilità del contratto per inadempimento, di cui all’art. 1453 c.c.), conferisce alla parti alcuni rimedi, per i casi in cui l’impossibilità sia totale, oppure solamente parziale.
L’art. 1463 c.c. (impossibilità totale) prevede che la parte che è stata liberata dalla propria obbligazione a causa della sopravvenuta impossibilità di adempiere alla stessa (ad es. il venditore che a causa del covid-19 non può più consegnare la frutta che è deperita, in quanto non è stato possibile effettuare la raccolta durante la pandemia), non può pretendere la controprestazione (quindi pagamento del prezzo) e deve altresì restituire ciò che ha eventuamente già ricevuto (ad esempio un anticipo).
L’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale) dispone invece che quando la prestazione di una parte è divenuta parzialmente impossibile (ad esempio consegna del 50% della merce venduta), l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta (pagamento del 50% della merce consegnata), ovvero può sciogliere il contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Quindi, mentre nel caso di impossibilità totale l’estinzione del rapporto contrattuale opera di diritto, in quella parziale la parte che subisce l’inadempimento può optare tra un adempimento parzialmente proporzionato, ovvero (se vi è un interesse apprezzabile) alla risoluzione del rapporto contrattuale.
Ancora differente è la fattispecie disciplinata dagli art. 1467 c.c. ss., relativa ai rapporti a prestazione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, ove a causa di fattori esterni l’adempimento della prestazione di una delle parti richieda degli sforzi che sono eccessivi e sproporzionati, rispetto a quelli che erano richiedibili una volta che il rapporto era stato stipulato. Anche in tal caso, la parte che subisce l’eccessiva onerosità della prestazione, potrà domandare la risoluzione del rapporto contrattuale, qualora si venga a creare un grave squilibrio economico tra prestazione e controprestazione.
In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (ex art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.
È assai importante sottolineare quindi che l’ordinamento non prevede un obbligo delle parti a rinegoziare e riprogrammare il rapporto medesimo, potendosi riscontrare tale fattispecie unicamente nell’ipotesi qui sopra richiamata. A parere di chi scrive, tale obbligo non si può neppure ricavare da un’applicazione estensiva del principio di buona fede di cui all’art. 1374 c.c., che ha ad oggetto la differente fattispecie di “integrazione del contratto”, nei casi di incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (e non di modifica dei termini pattizi, in caso di variazioni della posizione di equilibrio del rapporto contrattuale per fatti non imputabili alle parti).[7]
Tenuto conto che questi sono gli strumenti offerti dall’ordinamento, andiamo qui di seguito a cercare di rispondere ad alcune di quelle che sono le problematiche che potranno emergere nell’ambito della distribuzione commerciale, tenuto conto che il richiamo del legislatore agli istituti di cui agli art. 1218 c.c. e 1223 c.c., fa pensare che la preoccupazione del legislatore fosse soprattutto di mantenere in vita i rapporti contrattuali, laddove possibile e rispondente all’interesse delle parti.[8]
2. Effetti sui contratti di distribuzione
2.1. Cosa succede se il produttore non può più rifornire i propri distributori e/o clienti a causa del coronavirus?
In linea di massima, qualora il produttore non possa rifornire i propri distributori a causa di un blocco e/o rallentamento della produzione dovuta all’attuazione delle misure restrittive governative, questi non potrà essere ritenuto responsabile per tali ritardi se l'impossibilità era originaria (quindi non conosciuta al momento in cui era sorta l'obbligazione) e si sia verificata dopo la mora del debitore (art. 1219 c.c.), trovandosi il contratto in uno stato di “quiescenza”.
Se per la consegna della merce era stato previsto (espressamente o implicitamente)[9] un termine essenziale (art. 1457 c.c.), il rapporto si risolverà di diritto una volta scaduto il termine.
Qualora invece il termine della consegna della merce non sia essenziale, il rapporto contrattuale si estingue se l’impossibilità perdura fino a quanto questi non può più essere ritenuto obbligato a eseguirla, ovvero qualora nelle more venga meno l’interesse dell’acquirente a ottenere la prestazione.[10] È fatto comunque salvo il diritto dell’acquirente di non sciogliere il rapporto e chiedere unicamente una riduzione del prezzo, qualora la prestazione venga/possa essere eseguita solamente parzialmente (consegna ad es. di un solo lotto della merce acquistata).
2.2. L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli della pandemia?
La tematica dello scioglimento del rapporto di distribuzione è stata già trattata in questo blog e si richiama tale articolo per eventuali approfondimenti.
Il recesso dal contratto di concessione di vendita (o di distribuzione che dir si voglia…).
Come si è avuto di spiegare (brevemente) nella parte introduttiva dell’articolo, la parte che “subisce” l’inadempimento temporaneo, può risolvere il rapporto se non ha interesse alla continuazione parziale della prestazione. Pertanto, posto che a causa del covid-19 il rapporto di distribuzione viene interrotto per un termine che può essere più o meno prolungato, l’interesse alla continuazione del contratto di distribuzione deve essere certamente calibrato tenuto conto principalmente di due fattori: la durata effettiva dell'evento (in questo caso la pandemia) e la durata residua del contratto.
In linea di massima, si può affermare che tanto più prolungati saranno gli effetti del blocco e tanto più prossima sarà la data di scadenza naturale del rapporto, tanto maggiori saranno le possibilità di risolvere il rapporto obbligatorio. Certamente in tale valutazione, si dovrà altresì tenere conto di quelli che sono gli effetti indiretti delle misure restrittive, collegati ad una ragionevole aspettativa di una delle parti del perpetuarsi di un calo assai importante del commercio anche a seguito del venir meno del blocco.
Inoltre, qualora una delle parti sia contrattualmente tenuta a sostenere costi elevati per il mantenimento del rapporto di distribuzione (locazione, dipendenti, collaboratori, showroom, etc.) che rendono la collaborazione di fatto non più sostenibile, questi potrà valutare di risolvere il rapporto per eccessiva onerosità ex. art. 1467 c.c.
In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.
2.3. Le parti possono non rispettare il patto di non concorrenza?
Il patto di concorrenza nei rapporti di distribuzione (e di agenzia) può essere pattuito in duplice modo, ossia:
- il produttore si impegna a rifornire solamente il distributore in un determinato territorio;
- il distributore si impegna ad acquistare determinati prodotti solamente dal produttore.
Se a causa del covid-19 il produttore non può più rifornire il proprio distributore perché gli è stato imposto il blocco della produzione, ovvero il distributore non può più eseguire la propria prestazione a causa del blocco, nonostante il produttore abbia la possibilità di rifornirlo (ad es. perché aveva in stock il materiale), ci si chiede se la parte che non ha più interesse a mantenere l’obbligo di non concorrenza per fatto imputabile all'altro contraente, possa decidere di non adempiere ai propri obblighi utilizzando gli strumenti giuridici qui sopra richiamati.
Partendo dal presupposto che l’ordinamento non prevede alcun obbligo delle parti di rinegoziare l’originario assetto contrattuale,[11] non si ritiene possa desumersi l’esistenza di un principio che autorizzi una parte a obbligare l’altra a modifica il contratto in funzione di un riequilibrio.
Ne consegue che una sospensione temporanea della clausola di non concorrenza (a parere di chi scrive) non è giuridicamente fondata, se ciò non deriva da un accordo di entrambe le parti. Contrariamente, qualora il divieto di svolgere attività “in concorrenza” per il periodo in questione crei delle condizioni non sostenibili, si può eventualmente considerare l’ipotesi di risolvere il rapporto contrattuale per impossibilità sopravvenuta, oppure per eccessiva onerosità.
2.4. I budget pubblicitari devono essere forniti e spesi come concordato anche se la distribuzione non è possibile a causa della pandemia?
Qualora una delle parti sia contrattualmente tenuto a sostenere dei costi fissi per attività di marketing e pubblicitaria, potrebbe trovarsi nella posizione di decidere di non affrontare tali spese ritenendo che le stesse non siano necessarie a causa del blocco della produzione.
Per comprendere se (e quali) attività di marketing possano essere bloccate, bisogna analizzare la natura delle singole attività di pubblicità/azioni di marketing. Tendenzialmente si può affermare che tutte quelle attività “generali” che servono a mantenere il posizionamento del marchio all’interno del mercato, devono essere eseguite anche in caso di blocco della distribuzione, essendo di fatto necessarie propedeutiche alla riapertura.
Un ragionamento diverso bisognerebbe fare sulle attività di marketing relative alle azioni di vendita che non possono essere eseguite durante la pandemia. In tal caso, il problema non è tanto che tali prestazioni non possono essere eseguite (e quindi permettano di invocare l’impossibilità sopravvenuta), quanto piuttosto il fatto che le stesse non portano alcun vantaggio commerciale al soggetto che le promuove; inoltre molto spesso tali spese non graveranno economicamente così tanto sul soggetto tenuto a sostenerle, da potere sostenere la rottura dell’equilibrio contrattuale e, quindi, permettere di invocare l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
In tal caso, qualora le parti non trovino un accordo, la parte tenuta a svolgere l’attività promozionale, potrebbe avere come unica arma (assai spuntata) quella di decidere di non adempiere e quindi di non svolgere tali attività, puntando essenzialmente sul fatto che l’inadempimento possa essere ritenuto dal giudice (tenuto conto anche dell’art. 91 Decreto Cura Italia sopra richiamato) di scarsa importanza (art. 1455 c.c.), tenuto conto che la prestazione, non avrebbe comunque portato alcun vantaggio commerciale alle parti.
3. Effetti sui contratti di agenzia
3.1. Il preponente deve ancora pagare un fisso provvigionale/rimborso spese, se concordato contrattualmente?
Soprattutto nei contratti di agenzia, è spesso previsto che l'imprenditore paghi un fisso mensile (a titolo di rimborso spese, oppure come provvigione fissa) a cui normalmente si aggiunge una parte variabile.
In questo periodo, dato che l’attività di promozione è stata di fatto in gran parte bloccata, ci si chiede se il preponente possa decidere di togliere (almeno tale fase) questa parte fissa.
Come si è avuto modo di rilevare, seppure l’ordinamento non prevede uno strumento che legittima una parte a modificare unilateralmente il contratto, non è per nulla atipico riscontrare nei contratti di agenzia delle clausole contrattuali che conferiscono al preponente il diritto potestativo di modificare unilateralmente le provvigioni, il territorio e/o i clienti dell’agente.
Cfr. Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.
Secondo l’orientamento prevalente della Corte, l’attribuzione al preponente di tale potere deve “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.[12] Si può quindi ritenere che l’adeguamento del compenso provvigionale a causa del covid-19, possa essere attuato legittimamente, solamente se vi sia una clausola contrattuale che preveda tale facoltà in capo al preponente, il quale sarà comunque tenuto ad avvalersene in maniera ragionevole ed adeguata.
Diverso discorso, invece, se al contratto di agenzia si applicano gli AEC, i quali conferiscono sì da un lato la possibilità del preponente di modificare le provvigioni dell’agente, ma dall’altro lato il diritto dell’agente di rifiutare le modifiche e chiudere il rapporto per giusta causa se tali modifiche siano significative (sul tema cfr. modifiche provvigioni in base agli AEC). Si ritiene che tale norma non possa essere alterata a favore del preponente neppure tenuto conto dell'impatto che il covid-19 ha avuto sulla rete vendita del preponente, il quale dovrà essere consapevole che una eventuale modifica delle provvigioni, potrà condurre a uno scioglimento del rapporto per giusta causa da parte del proprio agente.
3.2. Cosa devono fare gli agenti se non possono visitare i propri clienti?
È chiaro che se l’agente che non può più andare a visitare i propri clienti, non potrà essere costretto a svolgere tali adempimenti; inoltre, se prima della pandemia questi non svolgeva alcuna attività di promozione online e non era contrattualmente obbligato a fare ciò, il preponente non potrà certamente imporre al proprio agente degli sforzi sproporzionati, richiedendo a questi di iniziare una attività di promozione “telematica”, tramite l’utilizzo di nuovi strumenti informatici.
3.3. Quali sono le conseguenze del mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19?
Negli ultimi anni, si sta sempre più affermando l’orientamento giurisprudenziale[13] che, seppure conferma la pacifica applicabilità della norma generale di cui all’art. 1456 c.c. in tema di clausola risolutiva espressa, ha tuttavia precisato che al fine di azionare legittimamente il relativo meccanismo risolutorio, il giudice deve comunque accertare la sussistenza di un grave inadempimento, integrante gli estremi della giusta causa.[14]
Cfr. La clausola di “minimi di fatturato” nel contratto di agenzia.
Seguendo tale orientamento, il mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19, non potrà essere considerato di per sé inadempimento tale da legittimare uno scioglimento del rapporto per fatto imputabile all’agente, dovendo comunque il giudice valutare caso per caso l'effettiva imputabilità e colpevolezza di tale inottemperanza.
3.4. L'agente commerciale conserva il diritto alla provvigione se il cliente scioglie il contratto con il preponente a causa del coronavirus?
Se il cliente risolve il contratto con il preponente a causa del coronavirus (ad esempio perché il suo negozio ha dovuto chiudere o i suoi trasportatori si sono fermati), si pone la questione se l'agente commerciale perda il diritto alla provvigione ai sensi dell’art. 1748 c.c.
L'attuale art. 1748, 6 comma c.c. prevede che l'agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse nella sola ipotesi in cui il contratto tra preponente e terzo non è stato eseguito per cause non imputabili al preponente (norma tra l'altro inderogabile dalle parti).
La nozione di causa imputabile al preponente è stata intesa come qualsiasi comportamento doloso o colposo del preponente che abbia determinato la mancata esecuzione del contratto.[15]
Posto che l'inadempimento contrattuale del cliente per impossibilità e/o eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (a causa del coronavirus) non è un fatto imputabile al preponente, l’agente non avrà diritto a percepire la provvigione su tale affare e sarà tenuto a restituirla al nel caso in cui questa fosse stata già integralmente o parzialmente versata.
3.5. Le ripercussioni sulle indennità di mancato preavviso e fine rapporto.
Come è noto le parti hanno il diritto di chiudere il rapporto riconoscendo all’altra parte un preavviso. L’agente a seguito dello scioglimento del contratto ha diritto ad un’indennità di fine rapporto, salvo il fatto che:
- il preponente risolve il contratto, per un fatto imputabile all’agente;
- l’agente recede dal contratto, per fatto imputabile all’agente.
Tenuto conto di quanto sopra esposto, si può ragionevolmente sostenere che i ragionamenti fatti al precedente paragrafo "L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli effetti della pandemia di Corona?” possano essere in linea di massima validi anche per il contratto di agenzia, dovendo comunque essere consapevoli che è comunque necessario operare con massima attenzione e consapevolezza prima di procedere alla chiusura del rapporto contrattuale, valutando prudenzialmente caso per caso.
Una cosa comunque è certa, che tale pandemia avrà un rilevante effetto sui calcoli dell’indennità di fine rapporto e di mancato preavviso per tutte le cessazioni dei contratti che avvengono in prossimità dell’arrivo della pandemia.
Se tali indennità dovessero venire eccessivamente distorte a causa del quadro economico collegato al covid-19, ci si chiede se l'agente possa integrarle avvalendosi del diritto garantito dall'art. 1751, comma 4 c.c., che riconosce all'agente il diritto di richiedere un risarcimento del danno ulteriore rispetto a suddette indennità.
L’orientamento prevalente sostiene che i danni che l'agente può richiedere in aggiunta all'indennità siano unicamente quelli da inadempimento o fatto illecito.[16] Ne consegue che sarà assai complesso per l’agente richiedere ulteriori somme, oltre quelle a questi riconosciute a titolo di indennità di fine rapporto, tenuto conto che il calo di fatturato (che ha comportato la diminuzione delle indennità), difficilmente potrà essere imputabile ad una colpa del preponente.
[1] Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale.
[2] Limatola, Novità in materia di contratti di agenzia nel mese di aprile 2020.
[3] Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, § 310, CEDAM.
[4] Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, §210, Giuffrè Editore.
[5] In tal caso non rileveranno in ogni caso le difficoltà finanziare del debitore, sul punto Cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane.
[6] Cass. Civ. 2016, n. 22626.
[7] Sul punto, cfr. Vertucci, L’inadempimento delle obbligazioni al tempo del coronavirus: prime riflessioni, ilcaso.it
[8] Vertucci, op. cit.
[9] Cfr. Cass. Civ. Cass. del 2013, n. 3710: l’essenzialità è una caratteristica che deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto.
[10] Cfr. sul punto Studio Chiomenti, Incidenza del Covid-19 sui contratti.
[11] Cfr. sul punto Vertucci, op. cit.
[12] Cfr. Cass. Civ. 2000, n. 5467.
[13] Cass. Civ. 2011, n. 10934, Cass. Civ. 2012, n. 8295.
[14] Venezia, Il recesso, la giusta causa e la clausola risolutiva espressa nel contratto di agenzia, marzo 2020, La consulenza del lavoro, Eutekne.
[15] Toffoletto, Il contratto di agenzia, Giuffrè.
[16] Bortolotti, Indennità di cessazione e risarcimento di danni ulteriori, www.mglobale.it
Ma le piattaforme online sono agenti di commercio?
Nell’articolo precedente si è cercato di andare
a delineare la natura giuridica delle piattaforme online, ripercorrendo
il percorso argomentativo compiuto dalla Corte di Giustizia nelle recenti
sentenze Uber Spagna[1], Uber Francia[2] ed Airbnb Ireland[3].
Dallo studio di tale
decisioni si evince l’impossibilità di classificare le piattaforme online
tutte all’interno della medesima categoria giuridica, dovendo di volta in volta
valutare ogni singola realtà, sulla base dei servizi che questa offre: la Corte
ha riconosciuto che il servizio Uberpop, prestato dall’omonima piattaforma, dovesse
essere qualificato come servizio dei trasporti, mentre ha escluso che il
servizio di intermediazione fornito da Airbnb potesse essere inquadrato come un
rapporto di agenzia immobiliare, quanto piuttosto quale “servizio
delle società dell’informazione”.[4]
La Corte è giunta a tali
conclusioni andando ad analizzare in maniera assai dettagliata i servizi di
intermediazione che le due piattaforme concretamente prestano, partendo dal
presupposto che, per delineare la natura giuridica di tali soggetti, sia
necessario identificare l’“elemento principale” che li caratterizza
tramite uno studio dettagliato dei servizi erogati. Nella sentenza Uber si
legge infatti che:
“il servizio di intermediazione in discussione [deve] essere considerato come parte integrante di un servizio complessivo di cui l’elemento principale era un servizio di trasporto, e dunque rispondente non alla qualificazione di “servizio della società dell’informazione.”[5]
Ne consegue che,
indipendentemente dalla qualificazione che le parti hanno dato al rapporto, è
necessario andare di volta in volta a verificare quello che è l’effettivo
fattore caratterizzante la collaborazione.
Si può ragionevolmente affermare che la massima enunciata dalla Corte (infondo) non si distacca troppo da principi nazionali in tema di interpretazione dei contratti di cui all’art. 1362 e ss. c.c., in base ai quali un negozio giuridico deve essere inquadrato tenendo conto di quella che è l’effettiva volontà dei contraenti, dando maggiore rilievo alle concrete modalità di svolgimento del rapporto: il nomen juris, pur restando un elemento di necessaria valutazione,[6] non costituisce vincolo per il giudice chiamato a decidere del caso concreto, che resta comunque libero di riqualificare il rapporto conferendogli la veste giuridica che ritiene essere più corretta.[7]
(Cfr. sul punto: differenza tra agente e lavoratore subordinato, differenza tra agente e procacciatore d’affari, differenza tra agente e contratto di distribuzione).
È chiaro, quindi, che se
si intende comprendere se l’attività di intermediazione prestata da parte di
una piattaforma online possa essere inquadrata come rapporto di agenzia,
non bisogna solamente verificare se le parti abbiano attribuito al rapporto
suddetta qualifica, ma altresì indagare quale fosse la loro comune intenzione, andando
ad individuare l’elemento principale che caratterizza l’attività di
intermediazione.
Punto di partenza di tale percorso interpretativo è determinare cosa è un contratto di agenzia; la definizione di agente che viene resa all’art. 1742 c.c. ci viene certamente incontro:
“Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l'incarico
di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione, la conclusione di
contratti in una zona determinata.”
Semplificando, gli elementi fondamentali di tale contratto sono:
- l’attività di promozione di contratti (sia di merci che di servizi);[8]
- la stabilità dell’incarico;
- l’onerosità del contratto;
- l’autonomia.
In ogni caso, ci si può spingere ad affermare che l’attività più tipica tra tutte quelle sopra elencate è certamente quella di promozione degli affari, da intendersi come l’opera di (stabile) ricerca e convincimento del potenziale cliente, destinata a sfociare in caso di successo nella conclusione di un contratto tra cliente e preponente.[9]
Ciò premesso, se l’attività di agenzia dovesse essere limitata alla promozione delle vendite, comprendere se l’intermediazione di una piattaforma online possa essere ricondotta a tale schema contrattuale sarebbe quasi lineare. In ogni caso, la questione si complica non poco se si tiene conto del fatto che la promozione dell’affare non esaurisce i compiti esercitati dall’agente, che di norma comprendono una serie di attività preliminari o collaterali, molto spesso accessorie al contratto di agenzia e ad esso funzionali.
L’agente deve in primo luogo individuare il potenziale cliente, contattarlo ed illustrargli le caratteristiche tipiche dei prodotti; può essergli richiesta la tenuta in deposito di prodotti del preponente e la conseguente consegna all’acquirente, la partecipazione alla campagna pubblicitaria, così come potrà essergli affidata la fase di post-vendita; potrà inoltre svolgere un servizio di assistenza tecnica dei prodotti, o ancora essergli richiesto di organizzare e guidare una rete di vendita sottostante.[10]
(Cfr. Agente e/o Area Manager? Una breve panoramica)
Come se ciò non dovesse bastasse, tra le attività accessorie al contratto di agenzia può anche rientrare quella di verifica della corretta esposizione e presentazione dei prodotti nei punti vendita, così come controllare il flusso di acquisti ivi effettuati (c.d. sell out e sell in).[11] In linea con tale indirizzo, la Cassazione ha ritenuto addirittura compatibile con il rapporto di agenzia lo svolgimento di un’attività accessoria di "merchandising",ossia
“un contratto avente ad
oggetto [la scelta delle modalità di] esposizione di prodotti negli spazi e
sugli appositi banchi di vendita di un grande magazzino o centro commerciale,
al fine di rendere i prodotti stessi più appetibili per i consumatori.”[12]
In sintesi, la giurisprudenza ritiene compatibili con il contratto di agenzia tutta una serie di attività complementari a quella principale di promozione degli affari, a condizione (e con il limite) che tali servizi non siano predominanti e quindi tali da mutare la causa tipica del rapporto.[13]
Applicando i principi qui sopra richiamati al mercato elettronico e più precisamente al mondo delle piattaforme online, si può ragionevolmente affermare che l’attività di intermediazione svolta per tale tramite possa potenzialmente essere riconducibile allo schema contrattuale del contratto di agenzia, non solo se la piattaforma svolge unicamente un’attività di promozione delle vendite, ma altresì se la stessa offra ulteriori servizi accessori, purché non prevalgano sull’attività principale.
Tale
impostazione, a parere di chi scrive, sarebbe altresì in linea con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia sopra richiamata, tenuto conto che
questa, nell’accertare se la piattaforma Airbnb potesse o meno essere
inquadrata come “agente immobiliare” ha tenuto esplicitamente presente il fatto
che all’elemento principale che caratterizza l’attività di intermediazione fossero
collegati ulteriori servizi accessori[14] che, seppure costituissero
“parte integrante di un servizio globale”[15], non erano tali da
snaturare l’attività caratterizzante prestata da Airbnb.
Seppure si ritiene che in linea di principio una piattaforma online possa svolgere l’attività di agente di commercio, è compito certamente assai complesso quello di cercare di adeguare a tale tipologia di mercato principi giuridici ed orientamenti giurisprudenziali che sono stati sviluppati negli anni unicamente su rapporti di agenzia “tradizionali”. Si cercherà qui di seguito di dare al lettore degli spunti che possano aiutare ad eseguire tale processo interpretativo, andando a riprendere le attività tipiche ed accessorie del contratto di agenzia qui sopra richiamate e tentando di comprendere se e come le stesse possano essere adeguate al mercato online, seppure con la consapevolezza che si tratta unicamente di spunti di riflessione su una tematica nuova e assai complessa.
a) Promozione delle vendite, individuazione del cliente ed illustrazione del prodotto.
È indubbio che l’individuazione di un cliente all’interno di un’area può essere effettuato tramite l’utilizzo di strumenti elettronici quali ad esempio il SEO[16], così come l’attività di illustrazione del prodotto può essere resa grazie all’utilizzo di foto, filmati, descrizioni, così come di live chat predisposte direttamente dalla piattaforma, tramite l’ausilio di personale demandato a tale compito (interno od esterno alla piattaforma), ovvero di programmi di risposta automatica che sfruttano algoritmi per riscontrare le domande più ricorrenti dei clienti.
b) Partecipazione alla campagna pubblicitaria.
Anche in questo caso la campagna pubblicitaria può essere utilizzata tramite l’utilizzo di strumenti digitali molto accurati ed integrati alla piattaforma: si pensi allo strumento più noto, ossia Google Adwords, che permette di individuare in maniera molto precisa e dettagliata non solo la tipologia di utente (e quindi potenziale cliente) verso cui indirizzare una campagna pubblicitaria, ma altresì circoscrivere l’area territoriale ove dirigere tali promozioni (strumento che permettere di rispettare i limiti di zona che dovessero essere imposti alla piattaforma/agente da parte del preponente)
(Cfr. L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia).
c) Attività di merchandising e sell in e sell out delle piattaforme online.
Non è certamente insolito che una piattaforma online possa occuparsi di curare al massimo la corretta esposizione e presentazione dei prodotti all’interno del proprio sito, suggerendo in maniera automatica determinati prodotti ai clienti che già hanno effettuato acquisti, ovvero a potenziali clienti sulla base delle ricerche da questi effettuate su Google. Inoltre, l’attività di controllo delle vendite in entrata ed in uscita molto spesso viene utilizzato come servizio di default da diverse piattaforme, che indicano all’utente la disponibilità dei prodotti messi in offerta sulla piattaforma.
d) Attività di deposito.
Anche questo servizio spesso viene reso da molte piattaforme online, posto che permette alle aziende che utilizzano la piattaforma, di sgravarsi dal gestire un’attività logistica che (con particolare riguardo alla vendita al dettaglio) richiede un know-how assai sviluppato, di cui spesso non sono in possesso, ovvero non hanno sufficienti risorse per gestirlo.
e) Retribuzione o provvigione: agenti di commercio?
È assai frequente che una piattaforma venga remunerata tramite il riconoscimento di una percentuale sull’ammontare dell’affare portato a compimento; anche questo elemento può essere considerato come un indizio per inquadrare un rapporto all’interno degli schemi dell’agenzia, potendo tale compenso essere inquadrato quale provvigione sulla conclusione dell’affare (ex art. 1748 c.c.)
(Cfr. Il diritto alla provvigione dell’agente).
È chiaro che qui sopra sono stati brevissimamente sviluppati solamente alcuni elementi caratterizzanti il rapporto di agenzia e non sono stati analizzati altri punti ugualmente (se non ancora più) importanti di tale tipologia contrattuale (ad es. il rapporto di interdipendenza tra piattaforma e produttore, la rappresentanza, eventuali ripercussioni previdenziali, etc.), posto che ciò richiederebbe una analisi certamente più approfondita. Si ricorda comunque che il fine di questo articolo non era certamente di compiere una analisi completa su tale tematica, ma unicamente porre l'attenzione su un argomento tanto importate, quanto attuale.
Ciò premesso, alla luce di quanto sopra, non solo non si può escludere che le piattaforme online possano svolgere l’attività di agenti di commercio, ma si può verosimilmente ritenere che già qualche piattaforma online stia svolgendo di fatto tale attività, senza essere stata inquadrata come tale.
In ogni caso, tenuto conto del potenziale della rete e dei servizi che possono essere resi tramite tale mezzo, forse bisognerebbe iniziare a pensare che il mercato elettronico non debba a priori essere considerato uno strumento “nemico” al rapporto di agenzia, ma piuttosto un mezzo che permette di ampliare e potenziare le capacità commerciali degli agenti e delle imprese. Verosimilmente, tale modello dovrà essere sempre più incoraggiato e possibilmente integrato all’interno delle strategie di intermediazione di vendite delle reti distributive delle aziende nazionali.
[1] Sentenza del 20 dicembre 2017, Associación Profesional Elite Taxi vs. Uber Systems
SpainSL.
[2] Sentenza del 10 aprile 2018, Uber France
s.a.s.
[3] Sentenza del 19.12.2019 Airbnb
Ireland UC vs. Association pour un hébergemen et un tourisme professionnels.
[4] se si ricerca
all’interno della normativa europea la sola definizione che ci viene fornita è
quella di “intermediazione online” di cui all’art. 2 del Regolamento 2019/1150[6]: tale norma qualifica
detta attività come quella prestata dai “servizi della società
dell’informazione”, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2015/1535[7], a sua volta ripresa
dall’art. 2, lett. a) della direttiva 2000/31[8] sul commercio
elettronico.
[5] Sentenza Uber, n. 40.
[6] Cass. civ. Sez.
lavoro Ord., 2018, n. 18262.
[7] Tra le tante, cfr.
Tribunale Milano Sez. lavoro, 26 ottobre 2017.
[8] Interessante
considerare che la direttiva
86/653 relativa a coordinamento degli Stati membri in tema di contratto di
agenzia, copre solo l’ipotesi di agenti che promuovono contratti di compravendita
di merci, mentre la nostra legge comprende l’intermediazione di qualsiasi
contratto, ivi incluso la prestazione di servizi. La Corte di Giustizia Poseidon
Chartering,Sentenza 16.3.2006, ha comunque riconosciuto la
possibilità degli stati membri di includere nello schema negoziale dei
contratti di agenzia anche la prestazione dei servizi. Sul punto cfr.
Bortolotti, Contratti
di distribuzione, pag. 106, 2016, Wolters Kluwer.
[9] Bortolotti, pag. 106,
op. cit.
[10] In tema di attività
accessoria al contratto di agenzia, cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, pag.
600, 2015, Giuffrè Editore.
[11] Bortolotti,
pag. 106, op. cit.
[12] Cass. Cass. civ. Sez.
lavoro, 2004, n. 6896.
[13] Sul punto Cass. Civ.
2006, n. 1308, Bortolotti, op. cit., pag. 118 e ss.
[14] I
servizi presi in considerazione sono quelli di cui al n. 19 della sentenza
ossia “Oltre al servizio consistente nel mettere in contatto locatori e
locatari tramite la sua piattaforma elettronica di centralizzazione delle
offerte, la Airbnb Ireland propone ai locatori un certo numero di altre
prestazioni, quali uno schema che definisce il contenuto della loro offerta, in
opzione, un servizio di fotografia, parimenti in opzione, un’assicurazione per
la responsabilità civile nonché una garanzia per i danni fino a un importo pari
a EUR 800 000. In aggiunta, essa mette a loro disposizione un servizio
opzionale di stima del prezzo della loro locazione alla luce delle medie di
mercato ricavate da detta piattaforma. […] La Airbnb Payments UK custodisce i
fondi per conto del locatore dopodiché, 24 ore dopo l’ingresso del locatario
nell’alloggio, li trasmette al locatore mediante bonifico, consentendo così al
locatario di avere la sicurezza dell’esistenza del bene e al locatore la
garanzia del pagamento. Infine, la Airbnb Ireland ha istituito un sistema
mediante il quale il locatore e il locatario possono formulare un giudizio
mediante un voto che va da zero a cinque stelle, voto consultabile sulla
piattaforma elettronica in questione.”
[15]
Sentenza Airbnb Ireland, n. 54.
[16] SEO è l'acronimo di Search
Engine Optimization, ossia "ottimizzazione per i Motori di ricerca".
Questo termine viene utilizzato per indicare tutti i lavori e le
implementazioni necessarie affinché un sito web abbia la struttura e i
contenuti di facile indicizzazione per i Motori di ricerca.
La natura giuridica delle piattaforme online: i casi Uber ed Airbnb
Con le sentenze Airbnb ed Uber la Corte di giustizia si è espressa in merito alla qualificazione giuridica di due importantissime piattaforme online. Con il presente articolo si andrà a comprendere quanto una piattaforma online possa essere qualificata come "società dell'informazione" e quando no.
Uno dei principi fondanti il mercato interno dell’UE è rappresentato dalla libera circolazione dei beni e dei servizi. Dato che si è già avuto modo di trattare alcune delle problematiche che il Legislatore Europeo si è trovato a gestire nel tentare di trovare un equilibrio tra il principio del libero scambio delle merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive competitive (Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva), con il presente articolo si intende incentrare l’attenzione su come il principio della libera circolazione dei servizi si coordini con il funzionamento delle piattaforme online, che sempre più caratterizzano il tessuto economico del mercato interno.
Per fare ciò, bisogna probabilmente partire dalle origini del diritto europeo che, con l’introduzione del mercato interno (art. 26 del TFUE), ha inteso garantire ad ogni soggetto che opera in uno Stato membro di esercitare un’attività economica in un altro Stato membro (art. 54 – Libertà di stabilimento) ed ivi offrire i propri servizi (art. 56 – I servizi)[1].
Con la direttiva 2006/123/CE[2] (relativa
ai servizi nel mercato interno) l’Europa ha inteso rafforzare il principio della
libertà di prestazione di servizi[3], ritenendo
che il perseguimento di tale obbiettivo “mira a stabilire legami sempre più
stretti tra gli Stati ed i popoli europei e a garantire il progresso economico
e sociale”[4], nonché
ad eliminare “ostacoli nel mercato interno [che] impedisc[ono] ai
prestatori, in particolare alle piccole e medie imprese, di espandersi oltre i
confini nazionali e di sfruttare appieno il mercato unico.”[5]
Per comprendere se i servizi offerti dalle piattaforme online, che sempre più spesso svolgono il ruolo di intermediatori con l'utente finale, rientrino nella definizione di “servizi” di cui agli artt. 56 del TFUE e 4 della direttiva 2006/123 e siano pertanto destinatari delle tutele garantite da tali norme, bisogna in primo luogo dare una definizione di "piattaforma online". Invero, se si ricerca all’interno della normativa europea la sola definizione che ci viene fornita è quella di “intermediazione online” di cui all’art. 2 del Regolamento 2019/1150[6]: tale norma qualifica detta attività come quella prestata dai “servizi della società dell’informazione”, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2015/1535[7], a sua volta ripresa dall’art. 2, lett. a) della direttiva 2000/31[8] sul commercio elettronico.
È quindi al termine “servizio della società dell’informazione” che bisogna ricorrere per iniziare a dare una veste giuridica a tali soggetti; esso viene qualificato (dalle direttive qui sopra citate) come qualsiasi servizio “prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza[9], per via elettronica[10] e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.”
L’UE dopo avere definito, seppure genericamente, il concetto di società dell'informazione, con la direttiva 2000/31 ha ritenuto opportuno garantire che il libero mercato dei servizi venga assicurato anche ai soggetti che operano online e, al fine di indurre gli Stati membri ad eliminare le restrizioni alla circolazione transfrontaliera dei servizi resi dalle società dell’informazione, all’art. 2 ha previsto che gli Stati membri non possono adottare provvedimenti che limitano tale esercizio, a meno che non siano necessari per questioni di ordine pubblico, sanità, pubblica sicurezza e tutela dei consumatori (art. 3).
Inoltre ha disposto che lo Stato membro prima di adottare i provvedimenti in questione deve (salva la nullità del provvedimento)[11] avere precedentemente notificato alla Commissione e allo Stato membro sul cui territorio il fornitore del servizio in oggetto è stabilito, la sua intenzione di prendere i provvedimenti restrittivi in questione (art. 3, lett. b, secondo trattino).
Da ciò si evince che è di essenziale importanza comprendere se una piattaforma online possa o meno essere qualificata come società dell’informazione, posto che solo in tale ultimo caso il soggetto godrà delle sopra richiamate specifiche tutele riconosciute dal diritto europeo in tema di libera circolazione dei servizi.
Sul punto, si rileva come la Corte di Giustizia è stata recentemente interrogata proprio su tale questione, in relazione ai servizi di mediazione forniti dalle piattaforme digitali Uber Spagna, Uber Francia ed Airbnb Ireland. Si vanno qui di seguito ad analizzare brevissimamente tali sentenze, al fine di cercare di comprendere quella che è la ratio che ha portato la Corte a prendere decisioni opposte, su situazioni (apparentemente) tra loro assai analoghe.
1. I casi Uber Spagna e Uber Francia.
Con due decisioni “gemelle”, Uber Spagna del 20.12.2017[12] e Uber Francia del 10.4.2018[13], la Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere se il servizio UberPop, che viene prestato tramite una piattaforma internazionale, debba essere valutato come servizio dei trasporti e in tal caso soggetto alla normativa nazionale che subordina lo svolgimento di tale attività all’ottenimento di una licenza da parte dei trasportatori, oppure un servizio della società dell’informazione, con conseguente obbligo di preventiva approvazione da parte della Commissione dei provvedimenti normativi nazionali che vietano tale attività.
La Corte di Giustizia Europea in prima analisi ha dato atto del fatto che:
“un servizio di intermediazione, il quale consenta la trasmissione, mediante un’applicazione per smartphone, delle informazioni relative alla prenotazione di un servizio di trasporto tra il passeggero e il conducente non professionista, che usando il proprio veicolo, effettuerà il trasporto, soddisfa, in linea di principio, i criteri per essere qualificato come ‘servizio della società dell’informazione’.”[14]
In ogni caso, la
Corte continua il proprio ragionamento andando ad analizzare in maniera
dettagliata quelli che sono i servizi di intermediazione effettivamente
prestati tramite l’utilizzo dell’applicazione Uber, rilevando che la compagnia non
si limita unicamente a mettere in contatto (e quindi a intermediare) il
trasportatore ed il trasportato, ma altresì:
- seleziona i conducenti non professionisti
che utilizzando il proprio veicolo e tramite l’ausilio dell’app di Uber,
forniscono un servizio di trasporto a persone che intendono effettuare uno
spostamento nell’aerea urbana, che altrimenti non sarebbero potuti ricorrere
a suddetti servizi; - fissa se non altro il prezzo
massimo della corsa; - riceve il pagamento del cliente e successivamente
lo versa al proprio conducente; - esercita un controllo sulla qualità dei
veicoli e dei loro conducenti e sul loro comportamento; - in alcuni casi può esercitare nei confronti dei
propri conducenti l’esclusione dal servizio.
La Corte, analizzato il rapporto nella sua interezza, è quindi giunta alla conclusione di ritenere che:
“il servizio di intermediazione in
discussione [deve] essere considerato come parte integrante di un servizio
complessivo di cui l’elemento principale era un servizio di trasporto, e
dunque rispondente non alla qualificazione di “servizio della società dell’informazione”
[…] bensì a quella di servizio della “qualità dei trasporti”, ai sensi
dell’articolo 2 paragrafo 2, lettera d), della direttiva 2006/123.”[15]
Stante tale
inquadramento giuridico del servizio prestato da Uber, la Corte ha ritenuto
legittimi provvedimenti normativi che lo Stato spagnolo e francese avevano
emanato volti a vietare e reprimere l’esercizio di tale attività, tenuto conto
che i servizi di trasporto sono esplicitamente esclusi dall’ambito di
applicazione della direttiva 2006/123[16] (e pertanto
neppure soggetti all’obbligo di informazione alla Commissione di cui all’art. 3
della direttiva 2000/31).
2. Il caso Airbnb del 21.12.2019
La medesima procedura
argomentativa è stata seguita dalla Corte in un caso analogo,[17] ove si
è trovata impegnata a decidere in merito all’inquadramento giuridico del
servizio di intermediazione prestato dalla società Airbnb Ireland tramite la
propria piattaforma elettronica, con la quale vengono messi in contatto, dietro
retribuzione, potenziali locatari con locatori, professionisti o meno, che
offrono servizi di alloggio di breve durata.
La questione era sorta in quanto l’associazione francese per l’alloggio e il turismo professionale (AHTOP) aveva presentato una denuncia nei confronti di Airbnb Ireland, lamentando che la società di diritto irlandese svolgesse nel territorio francese un’attività di mediazione immobiliare, soggetta secondo le normative interne (legge Houget) ad un obbligo di licenza.
Airbnb Ireland, negando di esercitare attività di agente immobiliare, si è costituita in giudizio rivendicando il diritto di libertà di stabilimento e deducendo l’inapplicabilità nei suoi confronti della legge Houget a causa della sua incompatibilità con la direttiva 2000/31, asserendo di operare nel territorio francese unicamente in qualità di società dell'informazione.
La Corte riprendendo quanto deciso nelle precedenti sentenze Uber, ha nuovamente affermato il principio di diritto che per potere riconoscere la natura giuridica di società dell’informazione, non è sufficiente che vengano unicamente soddisfatte le quattro condizioni cumulative di cui all’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della succitata direttiva 2015/1535, ma è altresì necessario verificare se risulti che:
“detto
servizio di mediazione costituisce parte integrante di un servizio globale il
cui elemento principale è un servizio al quale va riconosciuta una diversa
qualificazione giuridica”.
La Corte ha ritenuto che i servizi prestati dalla piattaforma relativi a presentare le offerte in maniera coordinata, con aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto con tali offerte, costituisce l’elemento principale del servizio e non possono quindi essere considerati semplicemente accessori di un servizio al quale va applicata la differente vesta giuridica di prestazione di alloggio.[18] Contrariamente, tutti questi servizi (analiticamente analizzati al considerando 19 della sentenza)[19] rappresentano il vero valore aggiunto della piattaforma elettronica che permettono di distinguerla dai propri concorrenti.[20]
Seguendo tale ragionamento, la Corte ha ritenuto che Airbnb Ireland non possa essere inquadrata agente immobiliare, posto che la sua attività non è mirata unicamente alla locazione di alloggio, bensì a fornire uno strumento che agevoli la conclusione di contratti vertenti su operazioni future. Si legge sul punto che:
“un servizio come quello fornito dalla
Airbnb Ireland non risulta per nulla indispensabile alla realizzazione di
prestazioni di alloggio sia dal punto di vista dei locatari che dei locatori
che vi fanno ricorso, posto che entrambi dispongono di numerosi altri canali […].
La mera circostanza che la Airbnb Ireland entri in concorrenza diretta con
questi ultimi canali, fornendo ai suoi utenti, ossia tanto ai locatori come
ai locatari, un servizio innovativo basato sulle particolarità di un’attività
commerciale della società dell’informazione non consente di ricavare da ciò
il carattere indispensabile ai fini della prestazione di un servizio di
alloggio.”
Stante la natura giuridica di Airbnb Ireland di società dell’informazione, la Corte ha dichiarato che la stessa non è assoggettata all'obbligo di licenza imposto dalla normativa francese (legge Houget), in quanto limitativa della libera circolazione dei servizi, rilevando altresì che tale provvedimento normativo non era comunque stato notificato alla Commissione in conformità dell’art. 3 della direttiva 2000/31.
Molto interessante notare come la Corte sia giunta ad una diversa decisione rispetto al caso Uber, riconoscendo la natura di servizio della società dell’informazione, sul presupposto che Airbnb Ireland non esercita un’influenza decisiva sulle condizioni della prestazione dei servizi di alloggio ai quali si ricollega il proprio servizio di mediazione, tenuto conto che la stessa non determina né direttamente, né indirettamente i prezzi delle locazioni e non effettua tantomeno la selezione dei locatori o degli alloggi proposti in locazione sulla sua piattaforma.[21]
Dallo studio delle due sentenze, si può quindi rilevare che è l'indipendenza e il mancato controllo sul soggetto che si avvale della piattaforma elettronica per promuovere il proprio servizio, un elemento centrarle per comprendere se la piattaforma online eroghi o meno un servizio di intermediazione, inquadrabile come servizio della società dell'informazione e che tale aspetto deve essere valutato analizzando il rapporto nella sua interezza.
Le sentenze qui sopra riportate hanno certamente un peso assai rilevante non solo da un punto di vista giuridico, in quanto pongono le basi per inquadrare delle figure che occupano sempre più un ruolo fondamentale del nostro tessuto economico e sociale.
[1] Art. 56
TFRUE “Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera
prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei
cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello
del destinatario della prestazione.”
[2] Direttiva
2006/123/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006,
relativa ai servizi nel mercato interno.
[3] Tale direttiva
definisce all’art. 4, paragrafo 1, come “‘servizio’: qualsiasi attività
economica non salariata di cui all’articolo 50 del trattato fornita normalmente
dietro retribuzione.”
[4] Id.
Considerando n. 1.
[5] Id.
Considerando n. 2.
[6]
Regolamento del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli
utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, in vigore a decorrere
dal 12.7.2020.
[7]
Direttiva che ha abrogato e sostituito la precedente direttiva
98/34/CE, che definiva i servizi
[8]
Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo relativa a taluni aspetti giuridici
dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio
elettronico, nel mercato interno (“direttiva sul commercio elettronico”)
[9] La
direttiva definisce: “a distanza”: un servizio fornito senza la
presenza simultanea delle parti.
[10] La
direttiva definisce: “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine
e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento
(compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è
interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici
o altri mezzi elettromagnetici.
[11] Cfr.
sul punto Sentenza
del 19.12.2019 Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP).
[12] Sentenza
del 20 dicembre 2017, Associación Profesional Elite Taxi vs. Uber Systems
SpainSL,
[13] Sentenza
del 10 aprile 2018, Uber France s.a.s.
[14] Id. 19
[15] Id. 40.
[16] Cfr.
art. 2, paragrafo 2, lettera d) direttiva 2006/123
[17] Sentenza
del 19.12.2019 Airbnb Ireland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels.
[18] Sentenza
del 19.12.2019 Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP), n. 54
[19] Id. Nel
considerando 19 elenca in maniera analitica i servizi effettivamente offerti da
Airbnb che sono “Oltre al servizio consistente nel mettere in contatto
locatori e locatari tramite la sua piattaforma elettronica di centralizzazione
delle offerte, la Airbnb Ireland propone ai locatori un certo numero di altre
prestazioni, quali uno schema che definisce il contenuto della loro offerta, in
opzione, un servizio di fotografia, parimenti in opzione, un’assicurazione per
la responsabilità civile nonché una garanzia per i danni fino a un importo pari
a EUR 800 000. In aggiunta, essa mette a loro disposizione un servizio
opzionale di stima del prezzo della loro locazione alla luce delle medie di
mercato ricavate da detta piattaforma. Peraltro, se un locatore accetta un
locatario, quest’ultimo trasferisce alla Airbnb Payments UK il prezzo della
locazione al quale va aggiunto un importo, che varia dal 6% al 12% di detto
ammontare, a titolo delle spese e del servizio a carico della Airbnb Ireland.
La Airbnb Payments UK custodisce i fondi per conto del locatore dopodiché, 24
ore dopo l’ingresso del locatario nell’alloggio, li trasmette al locatore
mediante bonifico, consentendo così al locatario di avere la sicurezza dell’esistenza
del bene e al locatore la garanzia del pagamento. Infine, la Airbnb Ireland ha
istituito un sistema mediante il quale il locatore e il locatario possono
formulare un giudizio mediante un voto che va da zero a cinque stelle, voto
consultabile sulla piattaforma elettronica in questione.”
[20] Id. 64
[21] Id. 68
Contratto di licenza e normativa antitrust: Il caso Hello Kitty.
Il produttore può bloccare le vendite del proprio licenziatario? Il contratto di licenza è sottoposto alla normativa antitrust? Alcune risposte dallo studio dei casi Hello Kitty, Campari e Grundig.
Da decenni il legislatore europeo si è trovato a dovere risolvere il potenziale conflitto che sussiste tra le regole di concorrenza, che si oppongono ad ogni misura suscettibile di restringere il libero mercato all’interno dell’UE, e proteggere i titolari di diritti di proprietà intellettuale di disporre a titolo esclusivo del bene da questi detenuto.
Ecco che si pone la questione di comprendere in che modalità e in che limiti le regole sulla concorrenza e l'esercizio dei DPI possono limitarsi a vicenda.
L'impostazione che sin da subito è stata adottata dal legislatore europeo, è stata quella, da un lato, di assegnare un ruolo centrale alla creazione di un vasto spazio economico unificato[1] e, dall’altro lato, prevedere (con l’art. 36 TFUE) che anche la tutela della proprietà industriale, possa derogare al divieto di apporre restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito di beni, purché
"tali divieti o restrizioni non [costituiscano] una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.”
Qui di seguito si cercherà di ripercorrere in estrema sintesi, quello che è stato il processo di armonizzazione normativa e giurisprudenziale seguito dalle Istituzioni europee, volto a trovare un bilanciamento tra regole apparentemente tra loro contraddittorie.
1. Contratto di licenzia e normativa antitrust dagli ’60 ad oggi.
Già negli anni ’60 la Corte di Giustizia Europea per la prima volta ha preso atto di tale potenziale conflitto tra l’esistenza dei DPI (che certamente non vengono messi in discussione dal diritto dell’Unione Europea) ed il loro esercizio, che può trovare limiti nelle norme del Trattato sulla concorrenza, di cui all'art. 101.
Tale pietra miliare è rappresentata dal caso Grundig[2] (già brevemente analizzato sotto l’aspetto delle vendite parallele all’interno dell’UE): un produttore (Grundig) aveva concordato con la propria licenziataria francese (Costen), di fare ricorso ad uno strumento riconosciutogli dalla normativa nazionale francese (la registrazione di un marchio della soc. Grundig in favore della Costen), di fatto con il solo ed unico fine di isolare tale territorio dalle vendite parallele dei prodotti Grundig in Francia, così assicurando una esclusiva assoluta al licenziatario. La Corte ha ritenuto nullo tale accordo in quanto contrario alle norme sulla concorrenza europea; si legge appunto che:
“l’articolo 36, il quale limita la portata delle norme relative alla liberalizzazione degli scambi contenute nel titolo I, capo 2, del trattato, non può restringere l’ambito di applicazione dell’articolo [101].”
In pratica, seppure l’accordo siglato tra le parti non infrangesse le norme di diritto industriale interno, la Corte lo ha ritenuto illegittimo, in quanto aveva di fatto portato ad un isolamento del mercato francese, consentendo di praticare per i prodotti prezzi sottratti ad una efficace concorrenza.
Negli anni ’70, la Corte conferma tale principio nella sentenza Sirena,[3] ove viene nuovamente confermato che:
“gli artt. [101] e [102] del trattato non ostano all'esistenza del diritto all'uso esclusivo di un marchio, che sia stato attribuito a chi di dovere da uno Stato membro. Tuttavia, l'esercizio di tale diritto può ricadere sotto detti articoli qualora ne ricorrano i presupposti.”
Nuovamente, con il caso Bitter Campari del 1977,[4] la Commissione ha ritenuto applicabile l’art. 101 ad un contratto di licenza di marchio, tramite il quale la produttrice aveva concesso ai propri licenziatari il diritto di fabbricare i prodotti concessi in licenza in rigorosa osservanza delle istruzioni impartite dalla licenziante, nonché gestirne la commercializzazione, seppure con delle forti limitazioni alle esportazioni.
La Commissione, ritenuto il contratto soggetto alla disciplina antitrust, ha concesso all’accordo l’esenzione ex art. 101 § 3, considerando che le limitazioni imposte da Campari-Milano ai propri distributori contribuivano
“a migliorare la produzione e la distribuzione dei prodotti, [a] perfezionare le tecniche di fabbricazione […], a costruire nuovi stabilimenti, [nonché ad] intensificare i propri sforzi di promozione del marchio [raddoppiando] il volume complessivo delle vendite.”[5]
Successivamente, negli anni ’90 e ’00, la Commissione ha nuovamente considerato alla stregua di un accordo di distribuzione dei contratti di licenzia di marchio nei casi Mooesehead/Whitbread[6] e Der Grüne Punkt,[7] andando così di fatto a rafforzare una tesi già ormai consolidata.
Siamo quindi giunti nel 2004, anno in cui la Commissione ha pubblicato le “Linee direttrici all’applicazione dell’art. 101”, ove non si è fatta mancare di ribadire il concetto già più volte sostenuto,[8] argomentando che sia i DPI, che la concorrenza sono entrambi necessari per favorire le innovazioni e per assicurarne lo sfruttamento competitivo.[9]
Nel 2010 è quindi entrato in vigore il Regolamento 330/2010, che ha introdotto con l’art. 2 § 1 il cd. principio dell’”esenzione universale”, in base al quale sono consentite tutte le restrizioni della concorrenza, che non siano espressamente vietate. In particolare, all’art. 2 § 3 il legislatore europeo ha voluto “mettere nero su bianco”, che l’esenzione si estende anche alle “disposizioni relative alla cessione all’acquirente o all’uso da parte dell’acquirente di diritti di proprietà intellettuale” che abbiano però carattere “accessorio[10].”
Il carattere dell’accessorietà del DPI, rispetto all’elemento commerciale è uno strumento interpretativo assai rilevante, per comprendere quali contratti di licenza di DPI, rientrino nel campo di applicazione del regolamento di esenzione per categoria. Gli Orientamenti della Commissione hanno chiarito sul punto che:
“l’oggetto primario dell’accordo non deve essere la cessione di DPI o la concessione in licenza di DPI, bensì l’acquisto, la vendita o la rivendita di beni o servizi, mentre le disposizioni relative ai DPI sono finalizzate all’esecuzione dell’accordo verticale.[11]
Ciò comporta che il rapporto fra le parti deve avere per oggetto (principale) la compravendita di beni e i DPI, invece, il ruolo (appunto “accessorio”) di “facilitare l’uso, la vendita o la rivendita di beni o servizi da parte dell’acquirente o dei suoi clienti”.[12]
Quindi, qualora un contratto di licenzia rientri nel campo di applicazione dell’art. 101, le clausole di limitazione pattizia alla libera concorrenza ivi eventualmente contenute, saranno soggette alla rigorosa disciplina europea in materia disciplinata appunto dal regolamento 330/2010.
Tale elemento di “accessorietà” è stato trovato in una interessantissima decisione del 2019,[13] con cui la Commissione ha inflitto alla società giapponese Sanrio una multa di 6,2 milioni di euro, per avere stipulato accordi di licenza per la produzione e commercializzazione di prodotti (tra cui rientrava il conosciuto marchio “Hello Kitty”) che violavano le norme dell'UE in materia di concorrenza. Si legge nel dispositivo della decisione che la Sanrio aveva introdotto una serie di misure dirette volte a limitare le vendite al di fuori del territorio di competenza da parte dei licenziatari, nonché misure volte ad incoraggiare in modo indiretto il rispetto delle restrizioni relative ai territori di competenza (ad esempio l’obbligo di utilizzo di una lingua specifica su un prodotto).[14]
2. Contratto di licenzia ed esaurimento del marchio.
Dopo avere brevemente analizzato quelli che sono i limiti che i licenzianti possono imporre alle esportazioni e vendite effettuate dai propri licenziatari, si vuole qui di seguito analizzare, se e in che misura, il titolare di un DPI possa opporsi all’importazione parallela da un altro Stato Membro di un prodotto, ivi precedentemente messo in commercio da parte di un proprio licenziatario.
Come si è già avuto modo di analizzare, l’ordinamento europeo garantisce la libertà (fondamentale) della circolazione delle merci; figlio di tale libertà è il principio di esaurimento comunitario, introdotto con Direttiva Europea 2008/95/CE all’articolo 7 e recepito dal nostro ordinamento con l’art. 5 c.p.i.[15] (sul punto cfr. articolo La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.)
In base a tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale immette direttamente o con il proprio consenso in commercio un bene nel territorio dell’Unione europea, questi perde le relative facoltà di privativa. L’esclusiva è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa, sulla circolazione del prodotto recante il marchio.
La prassi decisionale della giurisprudenza europea ha chiarito che si ha il consenso anche quando l’immissione in commercio sia stata effettuata da un’impresa controllata dal titolare del diritto di proprietà intellettuale o da un’impresa, di regola un licenziatario, a ciò autorizzata dal titolare.[16] Si legge, infatti,
“può opporsi all'importazione da un altro Stato membro di prodotti d'aspetto identico al modello depositato, purché i prodotti di cui trattasi siano stati messi in circolazione nell'altro Stato membro senza l'intervento od il consenso del titolare del diritto o di una persona ad esso legata da rapporto di dipendenza giuridica od economica.”[17]
Certamente diversa sarebbe invece la situazione, se la prima immissione fosse stata effettuata da un soggetto terzo, oppure se a seguito dell’immissione sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio.
In tali casi, l’Ordinamento prevede degli strumenti di tutela, che sono stati già oggetto di breve analisi (cfr. articolo “La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.”), al quale ci si richiama.
_______________________
[1] Il Mercato europeo comune (MEC) nasce il 25 marzo 1957 con la firma dei trattati di Roma, entrati poi in vigore il 1° gennaio 1958.
[2] Sentenza Grundig-Costen, 13.7.1966. In particolare, il produttore Grundig al fine di garantire un isolamento del mercato francese, oltre ad avere imposto numerosi divieti contrattuali al proprio concessionario (la soc. Consten), aveva altresì fatto ricorso ai DPI, concludendo con Consten un accordo, in forza del quale Grundig avrebbe creato un marchio Gint (Grundig International) e che tale marchio sarebbe stato depositato in ogni Stato Membro a nome del concessionario esclusivo operante nel paese considerato (per la Francia, appunto, la società Costen); tale marchio sarebbe stato poi apposto su tutti gli apparecchi prodotti.
Ciò avrebbe avuto il fine, di fatto, di ostacolare le importazioni parallele all’interno dei vari paesi, posto che l’’importazione (ad es. in Francia) dei prodotti recanti il marchio Gint, avrebbe costituito una contraffazione, posto che solamente il distributore esclusivo di quel paese godeva del diritto di utilizzare quel marchio. Sul punto cfr. PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 870, e ss., 2018, UTET.
[3] Sentenza del 18.2.1971.
[4] Decisione Bitter Campari, 23.12.1977.
[5] Id. III, A, 1.
[6] Decisione 23.3.1990.
[7] Decisione 20.4.2001.
[8] Linee direttrici sull'applicazione dell'articolo 101 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli accordi di trasferimento di tecnologia, n. 7.: “Il fatto che la legislazione in materia di proprietà di beni immateriali conceda diritti esclusivi di sfruttamento non significa che tali diritti siano esclusi dall'applicazione delle regole di concorrenza. L'articolo 101 del trattato si applica in particolare agli accordi con i quali il titolare concede in licenza ad un'altra impresa lo sfruttamento dei suoi diritti di proprietà di beni immateriali”
[9] Id., n. 7 “In effetti, sia la legislazione in materia di proprietà di beni immateriali sia quella in materia di concorrenza perseguono lo stesso obiettivo generale, ovverosia accrescere il benessere dei consumatori e favorire un'attribuzione efficiente delle risorse. L'innovazione costituisce una componente dinamica ed essenziale di un'economia di mercato aperta e competitiva. I diritti di proprietà di beni immateriali favoriscono la concorrenza dinamica, in quanto incoraggiano le imprese a investire nello sviluppo o nel miglioramento di nuovi prodotti e processi; la concorrenza agisce in maniera analoga, in quanto spinge le imprese a innovare. Pertanto, i diritti di proprietà di beni immateriali e la concorrenza sono entrambi necessari per favorire le innovazioni e per assicurarne lo sfruttamento competitivo.”
[10] PAPPALARDO, op. cit. pag. 338.
[11] Orientamenti sulle restrizioni verticali, n. 35.
[12] Id. n. 36.
[13] Decisione del 9.7.2019.
[14] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_3950.
[15] Art. 5, comma 1, c.p.i. (Esaurimento), “Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo.”
[16] L’esaurimento si verifica quando il prodotto tutelato sia stato immesso in commercio dal titolare del diritto “col suo consenso o da persona a lui legata da vincoli di dipendenza giuridica o economico” (sent. Keurkoop, cit., n. 25). Sul punto Cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 875, 2018, UTET.
[17] Sentenza Keurkoop, 14.9.1982.
Vendita di beni, giurisdizione e Incoterms (Wx-Works, FCA, CTP e CIF) .
In che maniera l'inserimento di una clausola Inconterms (ex-works, FCA, CIF), può influire sulla giurisdizione in caso di vendita di beni mobili? Brevi cenni sulla normativa europea e sugli sviluppi giurisprudenziali della giurisprudenza italiana ed europea.
1. Giurisdizione, vendita e incoterms: brevi cenni sulla normativa europea
In caso di compravendita di beni in ambito europeo, le parti hanno la facoltà di concordare in anticipo quali giudici saranno competenti a decidere su eventuali controversie che possano insorgere tra loro. Tale principio, di deroga del foro, è disciplinato dall’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012,[1] che prevede come condizione di validità il fatto che l’accordo attributivo della giurisdizione sia stato:
- concluso per iscritto o provato per iscritto;[2]
- in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o
- nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato.
Qualora le parti non abbiano espressamente formulato tale scelta, la giurisdizione sarà principalmente regolata dai seguenti principi:
- il principio generale del foro del convenuto (art. 4 del Regolamento) e
- il principio dell'”esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio” (art. 7 del Regolamento).
Con specifico riguardo a tale secondo opzione, l’art. 7 del Regolamento, dispone che una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro:
- in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio;[3]
- ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto.”[4]
Leggendo tale norma, non si comprende appieno cosa debba intendersi per “luogo di consegna”, ossia se si debba considerare tale luogo quello in cui è avvenuta la consegna materiale al venditore, oppure se possa ritenersi sufficiente il luogo di consegna al vettore.
Per sciogliere tale dilemma è venuta in soccorso la Corte di Giustizia,[5] affermando che:
“L’art. 5, punto 1, lett. b), primo trattino, del regolamento n. 44/2001[6] deve essere interpretato nel senso che, in caso di vendita a distanza, il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto deve essere determinato sulla base delle disposizioni di tale contratto.
Se non è possibile determinare il luogo di consegna su tale base, senza far riferimento al diritto sostanziale applicabile al contratto,[7] tale luogo è quello della consegna materiale dei beni mediante la quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe dovuto conseguire il potere di disporre effettivamente di tali beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita.”
2. Vendita di beni, giurisidizione ed incoterms: le pronuncie delle Sezioni Unite e della Corte di Giustizia.
A tale principio si è adeguata la giurisprudenza italiana: le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che in tema di vendita internazionale di beni mobili, qualora il contratto abbia ad oggetto merci da trasportare (se non diversamente concordato dalle parti), il “luogo di consegna” deve essere individuato nel luogo di recapito finale della merce, ossia ove i beni entrano nella disponibilità materiale e non soltanto giuridica dell’acquirente, con conseguente giurisdizione
“del giudice del [luogo di recapito finale della merce] rispetto a tutte le controversie reciprocamente nascenti dal contratto, ivi compresa quella relativa al pagamento dei beni alienati.”[8]
Fissato tale principio, nel 2011 alla Corte di Giustizia[9] è stato sottoposto un nuovo quesito, ossia se nel contesto dell’esame di un contratto, al fine di determinare il luogo di consegna, il giudice debba anche tenere conto degli Incoterms. La Corte si è così espressa:
“il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti di tale contratto che siano idonei a identificare con chiarezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale, quali gli Incoterms («International Commercial Terms»), elaborati dalla Camera di commercio internazionale, nella versione pubblicata nel 2000.”
In particolare,
“per quanto riguarda l’Incoterm «Ex-Works», […] tale clausola comprende […] anche le disposizioni dei punti A4 e B4, intitolati rispettivamente «Delivery» e «Taking delivery», che rinviano al medesimo luogo e consentono quindi di individuare il luogo di consegna dei beni.”
La Corte UE ha quindi stabilito che gli Incoterms, possono essere un elemento che permette al giudice di comprendere se le parti abbiano o meno concordato un luogo di consegna differente rispetto al luogo di recapito finale. In particolare, con l’accettazione delle parti del termine “ex-works Iconterms”, le parti concordano che la consegna materiale della merce debba avvenire presso la sede del produttore e, pertanto, in caso di mancata deroga di competenza delle parti, il giudice competente a decidere sarà quello della sede del venditore.
La giurisprudenza nazionale ha recepito tale orientamento, precisando comunque che il principio generale della consegna materiale può essere derogato unicamente se ciò si evince sulla base di una “chiara ed esplicita” determinazione contrattuale. La Cassazione[10] ha quindi negato che possa “assumere valore la dicitura ex Works unilateralmente inserita nelle fatture emesse da parte venditrice,” dovendo tale modalità di consegna essere stata concordata tra le parti.
La Corte di Cassazione, ha ritenuto che tali caratteristiche di chiarezza, non risultano da tutti i termini previsti negli Incoterms, posto che per essere valida anche ai fini della determinazione della giurisdizione e, quindi, assumere prevalenza, deve essere chiara, esplicita ed inequivocabile.
È stato quindi negato che le clausole CTP,[11] CIF[12] e FCA[13] palesino una chiara ed univoca volontà delle parti di stabilire il luogo di consegna della merce, in deroga al criterio fattuale del recapito finale, atteso che tali clausole sono piuttosto intese a regolamentare la ricaduto del rischio sul compratore.[14]
[1] Regolamento che ha sostituito il precedente Regolamento UE 44/2001.
[2] Con riferimento alla forma scritta, essa “comprende qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo della competenza” ex art. 25.2 del reg. La Corte di giustizia ha chiarito che le finalità di tale articolo è “quella di equiparare determinate forme di comunicazione elettronica alla forma per iscritto, in vista di semplificare la conclusione dei contratti con mezzi elettronici, poiché la comunicazione delle informazioni sono accessibili attraverso uno schermo.
Affinché la comunicazione elettronica possa offrire le stesse garanzie, in particolare in materia di prova, è sufficiente che sia ‘possibile’ salvare e stampare le informazioni prima della conclusione del contratto.” (CG UE 21.5.2015, CarsOnTheWeb.Deutschland GmbH). Le Sez. Un. della Cassazione 2009 n. 19447, hanno altresì affermato che la forma scritta di cui all’art. 23.2 del reg. 01/44 potesse essere integrata dalla registrazione delle fatture emesse dalla controparte sui sistemi elettronici interni della società.
[3] La giurisprudenza europea, ha affermato che, ove sussistano più obbligazioni derivanti dallo stesso contratto “il giudice adito, per determinare la propria competenza, si orienterà sul principio secondo il quale l’accessorio segue il principale; in altre parole sarà l’obbligazione principale, fra le varie in quesitone, quella che determinerà la competenza” CG UE 15.1.1987, Shenavai; 15.6.2017 Saale Kareda.
[4] Tale clausola, riprende parimenti quella di cui all’art. 5, 1, lett. b. del reg. 44/2001. In particolare, con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente, per i contratti di vendita, con la passata soluzione secondo cui il luogo di esecuzione era determinato, per ciascuna delle obbligazioni controverse, in conformità del diritto internazionale privato del giudice adito.
Designando il luogo di esecuzione, il legislatore comunitario ha voluto centralizzare la competenza giurisdizionale nel luogo di adempimento e determinare una competenza giurisdizionale unica per tutte le domande fondate sul contratto di vendita. In materia cfr. anche CG UE 3.5.2008, Color Drack. Sul punto cfr. Pirruccio, Contratti inutilizzabili se non esplicite le clausole Incoterms, Guida al Diritto, 35-36, 2019, Gruppo24Ore.)
[5] Sentenza Car. Trim GmbH C-381/08.
[6] Disposizione che è stata parimenti ripresa dall’art. 7, co. 1, lett. b) del reg. 1215/2012.
[7] Secondo la dottrina (Pirruccio, op. cit.) ai fini dell’individuazione del “luogo di consegna” dei beni non è possibile fare riferimento alle definizioni del diritto nazionale (quale l’art. 1510 c.c.) dalla cui applicazione rischierebbe di essere vanificata la finalità del Regolamento. Attenzione (!), tale ultima disposizione, può invece essere utilizzata (almeno come spunto difensivo) nel caso in cui la vendita abbia carattere extra UE e, quindi, non si applica il Regolamento: cfr. Cass. Civ. 1982 n. 7040.
[8] Cass. Civ. Sez. Un. 2009 n. 21191, Cass. Civ. 2014 n. 1134. Attenzione(!) in caso di mancata applicazione del diritto Europeo (ad es. per le vendite extra UE): contra Cass. Civ. sez. Un. 2011 n. 22883.
[9]Sentenza Electrosteel Europe SA – Causa C‐87/10.
[10] Cass. Civ. ordinanza n. 24279 del 2014.
[11] Tribunale di Padova, 3.5.2012.
[12] Cass. Civ. 2018 n. 32362.
[13] Cass. Civ. 2019 n. 17566.
[14] In materia cfr anche http://www.membrettilex.com/ruolo-degli-incoterms-2010-nella-determinazione-del-giudice-competente/.
Distribuzione selettiva ed esclusiva: il sistema misto funziona?
Cosa succede se un produttore applica in ambito europeo un sistema misto (distribuzione selettiva ed esclusiva). Quali sono i principali vantaggi e svantaggi?
Come si è già avuto modo di rilevare, il Legislatore Europeo è da sempre
impegnato a trovare un bilanciamento tra il principio del libero scambio delle
merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive
competitive.
Il compromesso a cui è arrivato il Legislatore è oggi disciplinato dal Regolamento
330/2010 sulle vendite verticali, che stabilisce quali accordi tra imprese
appartenenti alla medesima rete distributiva siano soggetti al divieto di
intese imposto dall’art.
101, par. 1 del Trattato Europeo e quali, invece, beneficino dell’esenzione
da tale divieto (ex art. 103, par. 3).
In sostanza, viene conferito al produttore di scegliere tra due modalità
di distribuzione: una generale utilizzabile da ogni tipologia di produttore (quella
esclusiva) e una particolare per specifiche situazioni (quella selettiva) (cfr.
sul punto La
distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi e Clausole
di esclusiva e accordi economici verticali in ambito europeo: e-commerce ed
esclusiva territoriale).
Con la distribuzione esclusiva, il fornitore divide i mercati in
cui opera attraverso la nomina di distributori esclusivi, i quali si impegnano
ad acquistare le merci e a promuoverne la vendita in maniera tendenzialmente
libera.
L’art. 4 lett. a) del Regolamento prevede, infatti, che il produttore non
può restringere, né direttamente, né indirettamente,[1] la
facoltà del distributore esclusivo di determinare il prezzo di rivendita,
fatta salva la possibilità di imporre un prezzo massimo o raccomandare un
prezzo di vendita.[2]
Il produttore, inoltre, non potrà impedire, ex art. 4 lett. a) del
Regolamento, che il distributore effettui
delle vendite attive[3]
all’interno del territorio, salva la facoltà di riservare a sé dei clienti
direzionali e impedirgli la vendita al dettaglio, al fine mantenere tale
livello della catena commerciale, distinto da quello al dettaglio.[4]
Da ultimo il distributore avrà altresì il diritto di effettuare delle
vendite fuori dal territorio, a condizione che le stesse costituiscano risposta
ad ordini non sollecitati di singoli clienti che si trovano fuori dal
territorio (cd. vendite
passive).[5]
È chiaro che tale libertà del distributore esclusivo è spesso incompatibile
con quelli che sono gli interessi di alcune tipologie di produttori, in
particolare di chi opera nel lusso o sviluppi prodotti tecnicamente molto
complessi, che sarà maggiormente interessato, piuttosto che ad una
distribuzione capillare, al fatto che i propri prodotti vengano rivenduti
unicamente da rivenditori autorizzati.
Come
si è già avuto modo di trattare, eccezionalmente per specifiche situazioni
è prevista la facoltà per il produttore di creare un sistema di distribuzione
selettiva, che gli consente, ex art. 4 lett b), iii), di vietare ai membri del sistema selettivo di
vendere a distributori non autorizzati nel territorio che il produttore ha
riservato a tale sistema: in un sistema selettivo i beni possono passare solo
dalle mani di un’impresa ammessa alla rete a quelle di un'altra, ovvero a
quelle dell’utilizzatore finale.[6]
In osservanza del principio del libero scambio delle merci, quale
contropartita del diritto del produttore di imporre tali limitazioni alla
libertà di rivendita dei membri del sistema, il Regolamento:
- all’art. 4, lett b), iv), conferisce agli stessi, la libertà di effettuare le cd. vendite incrociate, che consistono nell’approvvigionarsi senza ostacoli presso “altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale”[7];
- all’art. 4, lett. c) impedisce al produttore di limitare ai membri di un sistema distribuzione selettiva, operanti nel commercio al dettaglia, le vendite attive o passive agli utenti finali.[8]
Ciò premesso, molto spesso un produttore, per questioni pratiche, gestionali ed economiche, non è in grado di applicare per l’intero mercato europeo un unico sistema distributivo e riserva la distribuzione selettiva unicamente per i Paesi che sono per lui più strategici. In tale ambito, si pone la questione di comprendere, in primo luogo se tale sistema “misto” sia legittimo e, in secondo luogo, quali sono i rischi ad esso annessi.
1. Sistemi misti all’interno dello stesso territorio.
L’adozione di un sistema misto all’interno dello stesso territorio comporterebbe un conflitto di interessi tra il distributore esclusivo, che avrebbe il diritto di essere tutelato dalle vendite attive nel proprio territorio, e il distributore selettivo, che avrebbe il diritto di effettuare vendite attive e passive all’interno del territorio esclusivo, a norma del sopra richiamato art. 4, lett c) del Regolamento.
La Commissione si è domandata in merito alla legittimità di un sistema misto ed ha chiarito, tramite gli Orientamenti, che una siffatta combinazione non è ammissibile “all’interno del territorio in cui il fornitore gestisce una distribuzione selettiva […] poiché renderebbe una restrizione delle venite attive o passive da parte dei rivenditori” incompatibile con l’art. 4, lett. c).[9]
2. Sistemi misti in territori differenti dell’UE.
Posto che il divieto degli Orientamenti di applicare un sistema misto si riferisce unicamente alla circostanza che lo stesso venga sviluppato all’interno dello stesso territorio, si desume implicitamente che il diritto antitrust non vieta al produttore di creare un sistema misto all’interno dei differenti Stati Membri.
Ciò non toglie che tale scelta, seppure legittima, possa comunque creare delle problematiche di non poco rilievo, consistenti principalmente nell’impossibilità del produttore di controllare:
- le vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo;
- le vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.
Si vanno qui di seguito ad analizzare, assai brevemente, le singole fattispecie.
a) Vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo.
Sul fatto che al distributore esclusivo non possa essere impedito di effettuare vendite passive al di fuori del territorio e, quindi, anche all’interno di un sistema distributivo selettivo che il produttore ha riservato per un altro territorio, risulta piuttosto pacifico.
Più controverso (e impattante da un punto di vista commerciale) è la
questione se il distributore esclusivo possa effettuare anche delle vendite
attive all’interno del territorio selettivo e, quindi, effettuare anche delle
vere e proprie campagne commerciali all’interno di tale territorio. Da una lettura
rigorosa del Regolamento si evince che l’art. 4, lett. b), i), vieta ai
distributori esclusivi di effettuare vendite attive “nel territorio
esclusivo o alla clientela esclusiva riservati al fornitore o da questo
attribuiti ad un altro acquirente” e non estende tale divieto anche al
sistema distributivo.
Sul punto ad oggi non risultano precedenti giurisprudenziali che abbiano chiarito tale questione che rimane ancora aperta. In ogni caso, si ritiene possa essere legittima una clausola contrattuale che imponga al distributore esclusivo di effettuare vendite attive nel sistema selettivo, che, per le modalità in cui vengono presentate al pubblico, non creino pregiudizio all’immagine di lusso e di prestigio dei prodotti del produttore (sul punto cfr. anche La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.).
b) Vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.
I problemi per il produttore esclusivo, in caso in cui il produttore crei
un mercato misto, sono essenzialmente collegati al fatto che:
- in primo luogo, ex art. 4, lett. c) del
Regolamento, il produttore non può vietare ai dettaglianti autorizzati di
effettuare delle vendite passive ed attive all’interno dell’UE. Ci si chiede se
tra queste debbano essere anche incluse le vendite all’interno del
territorio esclusivo, oppure se l’esclusiva del distributore lo protegge da
tali azioni di vendita; - in secondo luogo, il produttore può vietare, ex
art. 4, lett. b, iii), le vendite dei membri del sistema selettivo a rivenditori
non autorizzati all’interno del territorio che il produttore stesso ha
riservato a tale sistema. Ne consegue che, da una lettura restrittiva della norma,
tale divieto non parrebbe potere essere esteso anche alle vendite che i
distributori selezionati effettuino al di fuori del sistema distributivo
selettivo: se si seguisse tale interpretazione, i distributori autorizzati potrebbero
vendere liberamente all’interno di un differente territorio riconosciuto in
esclusiva ad un distributore nominato dal produttore.
Con riferimento ai punti qui sopra richiamati, si fa presente che gli
Orientamenti dispongono che “ai rivenditori di un sistema di distribuzione
selettiva […] non possono essere imposte restrizioni tranne per proteggere un
sistema di distribuzione esclusiva gestito altrove.”[10]
Ci si trova in una situazione di grave incertezza interpretativa,
posto che da una lettura del dettato normativo, si propende per ritenere che il
titolare di una esclusiva non abbia il diritto di essere tutelato dalle “invasioni
di zona” da parte dei distributori selettivi, mentre gli Orientamenti farebbero
propendere per la tesi opposta.[11]
Unica cosa che è certa è che i rischi di creare un sistema misto sono molto elevati e che se tale strategia distributiva viene adottata dal produttore, nel medio-lungo periodo comporterebbero grandissime difficoltà nella gestione, soprattutto delle vendite parallele e delle reciproche e continue invasioni di zona.
[1] L’art. 4 lett. a) prevede, infatti, che l’imposizione
di prezzi fissi, non può avvenire neppure indirettamente, per effetto di
pressioni esercitate o incentivi offerti da una delle parti. Gli Orientamenti,
n. 48 elencano numerosi esempi di misure del genere e, in particolare “accordi
che fissano il margine del distributore, o il livello massimo degli sconti che
il distributore può praticare a partire da un livello di prezzo prescritto; la
subordinazione di sconti o del rimborso dei costi promozionali da parte del
fornitore al rispetto di un dato livello di prezzo; il collegamento del prezzo
di rivendita imposto ai prezzi di rivendita dei concorrenti; minacce,
intimidazioni, avvertimenti, penalità, rinvii o sospensioni di consegne o
risoluzioni di contratti in relazione all’osservanza di un dato livello di
prezzo” In giurisprudenza, si richiama la decisione della Commissione, Caso Yamaha, 16.7.2003, nella quale sono stata riconosciuta come imposizione
indiretta dei prezzi la seguente clausola: i premi/bonus “saranno
concessi solo ai rivenditori che abbiano applicato, nelle loro azioni
pubblicitarie, i margini normali” e che “le azioni pubblicitarie e
promozionali che prevedano sconti superiori al 15% non sarebbero da noi
considerate normali.”
[2] Importante sottolineare che gli Orientamenti, n. 225
giustificano tale scelta del Legislatore Europeo, ritenendo che “’l’imposizione
di prezzi di rivendita può […] ridurre il dinamismo e l’innovazione al livello
di distribuzione [e così] impedire a dettaglianti più efficienti di entrare sul
mercato e/o di acquisire dimensioni sufficienti con prezzi bassi.” D’altro
canto, viene altresì dato atto del fatto che “A volte l’imposizione di
prezzi di rivendita non ha soltanto l’effetto di limitare la concorrenza ma può
condurre, in particolare se determinata dal fornitore, a incrementi di
efficienza, che verranno valutati ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3 […].
L’imposizione di prezzi di rivendita più evitare un fenomeno di parassitismo
[…]. Secondo la migliore Dottrina
(Pappalardo, 356, op. cit.) in attesa di decisioni che consentono di verificare
con tale apertura della Commissione, certamente il fondamento dell’approccio
aperto e positivo della Commissione, è preferibile considerarlo come la
conferma dell’assenza, nel diritto della concorrenza dell’UE, di divieti
automatici.
[3] Cfr.
Orientamenti, n. 51.
[4] Sul punto cfr. anche Orientamenti, n. 55.
[5] Cfr. Orientamenti, n. 51.
[6] Cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza
dell’Unione Europea, pag. 363, 2018, UTET.
[7] Sul punto gli Orientamenti, n. 58, dispongono che “[…]
un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o
indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei
prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere
liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete,
operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale.”
[9] N. 57.
[10] Orientamenti,
n. 56.
[11] Sul
punto cfr. Pappalardo, op. cit., 364.