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Toggle1. Distribuzione selettiva: il contesto normativo e giurisprudenziale.
Partendo dal presupposto che il fine di ogni produttore è quello di massimizzare il proprio profitto, vi sono casi in cui tale obbiettivo può essere raggiunto solo tramite una limitazione dell’accesso alla rete vendita ufficiale a distributori e rivenditori che possiedano particolari requisiti, così da proteggere l’immagine di eccellenza e qualità dei prodotti.
Ciò accade, tendenzialmente, per i prodotti tecnicamente complessi – per i quali l’assistenza alla clientela riveste particolare importanza – e il produttore ritiene che la certezze di un servizio adeguato possa influenzare positivamente le scelte dell’acquirente, ovvero nel caso di prodotti di bellezza o di moda, ove la tutela dell’immagine del prodotto o del suo prestigio può essere ritenuta essenziale al fine di non dissuadere il consumatore ad acquistare un prodotto che viene offerto insieme a beni di valore assai minore.[1]
Ecco l’interesse del produttore di creare un sistema di distribuzione selettiva all’interno del quale, ogni membro autorizzato, si impegna a vendere i beni o i servizi contrattuali unicamente a distributori selezionati sulla base di criteri predeterminati, al fine di salvaguardare, nella percezione del consumatore, l’aura di esclusività e prestigio dei prodotti, proprio grazie ad una presentazione al pubblico dei beni idonea a valorizzare la loro specificità estetica e funzionale.
Sebbene la distribuzione selettiva sia astrattamente idonea a limitare la concorrenza sul mercato (in contrasto quindi all’art. 101 par. 1 TFUE), essa è tuttavia considerata una modalità di vendita legittima (ex art. 101 par 3 TFUE) a condizione che:
- le caratteristiche dei prodotti richiedano effettivamente un sistema di distribuzione selettiva, in considerazione del loro elevato livello qualitativo e tecnologico, onde conservarne la qualità e garantirne l’uso corretto;
- la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa, stabiliti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali e applicati in modo non discriminatorio;
- il sistema si proponga un risultato idoneo a migliorare la concorrenza e quindi a controbilanciare le limitazioni alla concorrenza alla stessa;
- i criteri imposti non vadano oltre i limiti del necessario.[2]
In presenza di tali condizioni, quindi, un sistema di distribuzione selettiva è lecito.
Il primo e principale vantaggio (collegato in realtà alla vera essenza della distribuzione selettiva stessa) è il fatto che in tale sistema, il produttore può imporre ai soggetti appartenenti alla rete e, quindi, vincolati allo stesso da un rapporto contrattuale, di non promuovere vendite a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla rete (art. 4 lett. b), iii)), fatto comunque salvo la possibilità delle vendite incrociate tra i membri autorizzati (art. 4 lett. d).[3] Pertanto, in caso di violazione degli obblighi contrattuali, il produttore avrà la possibilità di rivalersi sul membro inottemperante ricorrendo ai rimedi tipici dell’inadempimento contrattuale.
– Leggi anche: La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: vantaggi e svantaggi.
Quanto invece ai rapporti con i soggetti estranei alla rete, con cui il produttore per definizione non ha alcun rapporto contrattuale, si può affermare ormai pacificamente che sussiste in capo allo stesso il diritto di esperire i rimedi inibitori nei confronti dei distributori paralleli, qualora e solo se le modalità di rivendita siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e prestigio – che il produttore cerca di difendere proprio attraverso l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva – o comunque che sussista un effetto confusorio circa l’esistenza di un legame commerciale tra il titolare del marchio e il rivenditore non autorizzato.
Come è noto, l’art. 5 c.p.i. – che al primo comma sancisce il c.d. principio di esaurimento, al secondo comma ne contempla una deroga, stabilendo che il titolare della privativa industriale può, sussistendone legittimi motivi, opporsi all’ulteriore commercializzazione dei propri prodotti già immessi sul mercato, in particolare quanto lo stato di questi sia modificato o alterato; è ormai indirizzo pacifico che la distribuzione selettiva rientri in tale eccezione.[4]
– Leggi anche: Le vendite parallele nell’UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?
L’applicazione di tali principi alle vendite online, ha portato al consolidamento di un orientamento che ritiene illegittimo, in quanto costituisce grave restrizione della concorrenza, un contratto che impedisca in assoluto la vendita via web[5] e che una limitazione alla distribuzione online sarebbe lecita unicamente se volta a fare rispettare ai rivenditori autorizzati di un sistema selettivo, determinati standard qualitativi con il fine principe di salvaguardare l’immagine dei prodotti contrattuali.
– Leggi anche: Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?
Posto che le vendite online sono state di fatto “sdoganate” da parte della giurisprudenza europea, seppure con le limitazioni qui sopra richiamate, è emersa un’ulteriore problematica, ossia se i distributori paralleli possano anche loro rivendicare il diritto di effettuare vendite via web. Una recente sentenza del Tribunale di Milano – applicando i principi già da tempo ben delineati nell’ambito delle vendite “tradizionali” – ha ritenuto che nei rapporti extracontrattuali, il titolare di diritti di privativa, possa bloccare la vendita a soggetti estranei alla rete di vendita selettiva, unicamente se sussista un effettivo pregiudizio all’immagine di lusso o di prestigio del marchio, affermando così che la mancata distinzione da parte di un maerketplace (in tal caso amazon.it) tra i prodotti di lusso e quelli di livello inferiore può confondere il consumatore e creare un danno al prestigio del brand.[6]
2. Il caso Shiseido c. Amazon.
Con ordinanza del 19 ottobre 2020 (al momento oggetto di reclamo), il Tribunale di Milano ha nuovamente confermato il proprio orientamento, accogliendo il ricorso proposta dalle licenziatarie di marchi tra cui “Narciso Rodriguez” e “Dolce & Gabbana” per la fabbricazione e commercializzazione di prodotti di profumeria e cosmetica, inibendo ad “amazon.it” la promozione e offerta in vendita dei prodotti recanti i propri marchi, oggetto di accordi di distribuzione selettiva.
Il Tribunale di Milano, al fine di verificare la sussistenza del fumus boni iuris, ha accertato l’esistenza dei seguenti tre requisiti:
- se i prodotti in questione potessero qualificarsi come di lusso;
- se la distribuzione selettivadel ricorrente fosse legittima;
- se la vendita fuori rete recasse un effettivo pregiudizio alla reputazione del marchio.
2.1. Accertamento della categoria “luxury” dei prodotti.
L’esame di tale requisito è stato effettuato, nel caso di specie, sulla base di indici di qualità, riscontrando, con riferimento ai marchi “D&D” e “Narciso Rodriquez”:
“la ricerca di materiali di alta qualità, la cura del packaging […], la presentazione al pubblico promossa a livello pubblicitario da personalità dello spettacolo, l’ampio accreditamento nel settore di riferimento desumibile da […] premi conseguiti, il consolidato riconoscimento da parte della stampa specialistica”.
Il Tribunale ha, da un lato, ritenuto che tali indizi gravi, precisi e concordanti ex art. 2729 c.c., comprovassero l’appartenenza di tali fragranze alla categoria d’alta gamma (riservandosi una più approfondita indagine nella fase di merito) e dall’altro lato, sempre utilizzando i medesimi indici e parametri valutativi, ha dichiarato non fosse stata sufficientemente provata l’aurea di lusso con riferimento ai marchi “Iseey Miyake”, “Elie Sahh” e “Zadig&Voltaire”, così da collocare tali fragranze nella categoria di alta gamma.
2.2. Verifica dei contratti di distribuzione selettiva.
Successivamente alla verifica dell’aurea di prestigio dei prodotti di cui trattasi, è stato necessario verificare l’effettiva sussistenza di una distribuzione selettiva.
In base alla giurisprudenza europea, per potere godere delle esenzioni di cui all’art. 101 comma 3 del Trattato, non è sufficiente il solo fatto che un produttore si sia impegnato in modo rilevante a fini promozionali in favore di prodotti di alta gamma, ma altresì la conclusione di accordi che impongono effettivamente ad altri operatori economici indipendenti obblighi che restringono la loro libertà di concorrenza, potendo, in caso contrario, ogni produttore giustificare il ricorso ad un sistema di distribuzione selettiva soltanto in base alle attività promozionali svolte, così che qualsiasi criterio di lesione restrittivo troverebbe una giustificazione nel fatto di essere stato necessario per tutelare la strategia di commercializzazione voluta dal produttore.[7]
Inoltre, verificata la sussistenza di un sistema di distribuzione selettivo, secondo un orientamento recente della Corte d’Appello di Milano, il produttore potrà fare valere i vantaggi da esso derivanti, e così derogare al principio di esaurimento, solamente se, in sede applicativa, si è verificata la sussistenza di un’effettiva vigilanza esercitata sul mercato da parte del produttore.[8]
Nel caso di specie, il Tribunale analizzando le clausole dei contratti ha verificato che gli obblighi imposti ai rivenditori autorizzati sembrano finalizzati unicamente a tutelare l’aurea di lusso dei marchi, essendo stati applicati “criteri oggettivi, qualitativi, non discriminatori e proporzionati al carattere di lusso dei prodotti distribuiti” e pertanto “confermi ai principi normativi e giurisprudenziali citati”.
In particolare, sono state ritenuti idonei limitazioni relative alle modalità di posizionamento del marchio e dell’insegna, al servizio di vendita e consulenza, alle modalità di vendita, all’utilizzo del materiale pubblicitario, alla qualificazione del personale addetto alla vendita e alla cura dei clienti.
I contratti prevendevano delle ulteriori limitazioni alle modalità di vendita via internet, essendo consentito svolgere tali attività unicamente ai rivenditori autorizzati che avessero la disponibilità di almeno tre punti vendita fisici e solamente a seguito di specifica autorizzazione da parte del licenziatario, i quali, attivata la procedura di ammissione, dovevano comunque impostare e gestire il sito seguendo gli standard impostigli contrattualmente (qualità grafica del sito, spazio di qualità dedicati ai prodotti di lusso concorrenti di pari livello, assenza di prodotti di diversi rispetto a quelli di profumerie o di bellezza).
Il Tribunale ha ritenuto che le limitazioni imposte dal Shiseido ai propri rivenditori autorizzati, incluso la subordinazione dell’utilizzo di un e-commerce alla disponibilità di almeno tre punti vendita fisici, non sembrano spingersi oltre il perimetro del necessario, tenuto conto del fatto che (con riferimento al requisito dei punti vendita fisici) la stessa è ammessa dalla stessa Commissione Europea al punto 54 delle Linee Guida del Regolamento di Esenzione.
2.3. Pregiudizio alla reputazione del marchio.
Ultimo elemento che è stato accertato da parte del Tribunale, necessario ai fini dell’accoglimento della domanda inibitoria, è la sussistenza di un pregiudizio in concreto in capo al titolare dei diritti di privativa, non essendo infatti sufficiente rilevare unicamente la circostanza che il venditore non autorizzato non rispetti gli standard imposti ai rivenditori autorizzati.
Si è infatti visto che la giurisprudenza richiede che le specifiche modalità di vendita debbano ledere in concreto il prestigio dei marchi, per consentire al titolare di inibire al rivenditore non autorizzato l’ulteriore rivendita.[9]
Ai fini dell’accertamento del pregiudizio, è stata contestata ad Amazon:
- l’assenza di negozi fisici (rilevante per i prodotti in questione, ossia fragranze e cosmetici, anche per eventuali test di allergie ai prodotti),
- la mancanza di un ideone servizio clienti analogo a quello assicurato nel punto vendita reali con la presenta di una persona capace,
- l’accostamento dei profumi in questione ad altri prodotti eterogenei e non di lusso (carta igienica, insetticidi),
- la presenza di materiale pubblicitario di prodotti di altri brand, anche di segmenti di mercato più bassi, nella stessa pagina internet in cui sono presenti i profumi in questione.
Elemento di particolare interesse è il fatto che il Tribunale abbia quindi ritenuto che non fosse tanto dirimente il fatto che all’interno di amazon venissero venduti altri prodotti anche non di lusso, quanto piuttosto che nello stesso spazio virtuale (pagina web), venissero presentati beni eterogenei, applicando così al “virtuale” un orientamento della giurisprudenza europea ormai consolidato.
In particolare, la Corte di Giustizia, aveva confermato la possibilità da parte di soggetti estranei alla rete, di vendere i prodotti contrattuali in negozi multimarca (nel caso di specie un ipermercato), purché l’insegna del dettagliante non ne svaluti l’immagine di lusso e la vendita venga effettuata in un reparto o in uno spazio riservato, al fine di valorizzare le qualità dei prodotti.[10]
Applicare questo principio al virtuale, significa, in pratica, dovere accertare non solo che il bene venga venduto in maniera “adeguata”, riservando allo stesso uno spazio virtuale consono alla sua allure di lusso, ma altresì che venga promosso e venduto su un marketplace o e-commerce la cui insegna non ne svaluti l’immagine.
3. Amazon è un hosting provider “attivo”
Un elemento di assoluto rilievo è rappresentato dal fatto che il Tribunale con tale ordinanza ha accertato la natura di Amazon quale “prestatore dei servizi della società dell’informazione” ai sensi della Direttiva n. 2000/31/CE (sul punto cfr. anche la natura giuridica delle piattaforme online: i casi Uber ed Airbnb) e, in particolare, riconoscendo a tale soggetto il ruolo di hosting provider “attivo” in relazione all’attività di gestione del proprio portale di vendita, anche laddove la stessa sia limitata alla fornitura di servizi di intermediazione, ovverosia non svolga attività di vendita attiva all’interno del sito, ma di fornitore di servizi a soggetti terzi utilizzano la piattaforma per promuovere le vendite.[11]
Il Tribunale, in particolare, ha accertato che il ruolo di Amazon di hosting provider “attivo”,[12] e in quanto tale non soggetto alle esenzioni di responsabilità delineate dagli art. 14, 15 e 16 della direttiva 2000/31/CE, tenuto conto del fatto che la piattaforma (i) “gestisce lo stoccaggio e la spedizione dei prodotti”, (ii) “gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi, che costituisce l’unico servizio di cui il cliente dispone per potersi interfacciare con il venditore”, (iii) “è responsabile di un’attività promozionale anche tramite inserzioni su siti internet di terzi” e (iv) “permette ai consumatori di inferire l’esistenza di un legame tra Amazon” e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla piattaforma.
Leggi anche – Il contratto di hosting e i profili di responsabilità dell’hosting provider.
4. Alcune riflessioni
La sentenza oggetto del presente breve commento, ormai si allinea ad un orientamento giurisprudenziale consolidato che, di fatto, rispecchia è la realtà del commercio di oggi, ossia un costantemente crescente assottigliamento tra esperienza di acquisto in negozio e online.
Si può comprendere come la distribuzione online di prodotti di lusso e di alta gamma, potrà sempre meno prescindere da una attenta e rigorosa cura delle modalità di vendita ed attenersi sempre più a rigorosi standard che all’interno dei negozi fisici sono dati ormai per assodati, non solo da un punto di vista giuridico, ma (soprattutto) da un punto di vista culturale.
Non sarebbe neppure pensabile, infatti, che in un negozio griffato possa essere venduto un abito di alta moda assieme ad un pacco di carta igienica, cosa che online regolarmente ancora accade, senza creare poi così scompiglio al consumatore, forse concentrato maggiormente sul prezzo e non sull’esperienza di acquisto online.
Tale elemento dovrà sempre più essere tenuto conto da parte dei produttori, nelle loro strategie di vendita
Probabilmente, una sentenza di questo genere, letta fra qualche anno farà sorridere, non potendosi un utente neppure immaginare che all’interno dello stesso negozio (virtuale) possano essere venduti nelle medesime modalità ed all’interno della medesima pagina un profumo di alta gamma, insieme a dell’idraulico liquido.
[1] Sul tema, Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’unione europea, pag. 405 e ss, 2018, UTET.
[2] Sul punto cfr. Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Galec c. Commissione CE, punto 16, Corte di Giustizia, 13 ottobre 2011, Pierre Fabre Dermo-Cosmetique, punto 41, Linee Guida Reg. UE 330/2010, par. 175.
[3] A tal proposito, si richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba I, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente – altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.
[4] Ordinanze del 19 novembre 2018 e 18 dicembre 2018 del Tribunale di Milano., con commento di Alice Fratti
[5] Caso Corte di Giustizia, Pierre Fabre C‑439/09.
[6] Tribunale di Milano, 3 luglio 2019, con commento di RIVA, E-commerce e accordi di distribuzione selettiva: il caso “Sisley c. Amazon”, in Il diritto Industriale, 1/2010, WoltersKluver.
[7] Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Groupement d’achat Eduard Leclerc contro Cmmissione, punto 111; v. anche Sentenza Vichy/Commisione.
[8] Corte d’Appello Milano, 25 novembre 2019, n. 5682.
[9] Corte di Giustizia, 4 novembre 1997, Dior c. Evora.
[10] Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Groupement d’achat Eduard Leclerc contro Cmmissione.
[11] Sul punto Cfr. anche Traina Chiarini, Amazon è un hosting provider “attivo”, secondo il Tribunale delle imprese di Milano.
[12] Da contrapporsi al hosting provider passivo che, in base al considerando 42 della direttiva 31/2000/CE, deve qualificarsi come tale ogni prestatore di servizi che non esercitino l’”autorità o il controllo” e abbia un ruolo meramente “tecnico, automatico e passivo” ed onde che “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.