La cosiddetta clausola dello “star del credere”[1] può essere definita come una vera e propria garanzia, con la quale un soggetto assume in parte od integralmente il rischio del mancato pagamento di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.[2]
In tema di agenzia, l’utilizzabilità di tale clausola è di fatto venuta meno a seguito della riforma della Legge 21 dicembre 1999, n. 256, con la quale è stato modificato l’art. 1746 c.c.. Si ricorda che con la riforma, è stato inserito un terzo comma nell’art. 1746 c.c.. Detto comma ha introdotto un esplicito divieto di inserire nei contratti di agenzia una clausola che
“ponga a carico dell’agente una responsabilità, anche solo parziale, per l’inadempimento del terzo“.
Ad ogni modo, la norma prevede espressamente la facoltà delle parti di derogare a tale divieto, ma solamente
“per singoli affari , di particolare natura ed importo, individualmente determinati“.
La garanzia in tali casi però incontrerà il limite quantitativo imposto dallo stesso comma 3 dell’art. 1746 c.c., non potendo essere superiore alla provvigione che l’agente avrebbe diritto a percepire in relazione al medesimo affare.
In ambito Europeo, si rileva che, nonostante la sua rilevanza e le criticità ad esso collegate, la direttiva n. 86/653 CEE, ha trascurato di disciplinare tale istituto, che veniva (e viene tutt’oggi) disciplinato nei restanti paesi membri principalmente nei seguenti due modi:
- le parti possono concordare lo star del credere solamente per determinati affari o clienti, ma, in tali casi, l’agente garantisce al 100% il rischio del preponente (meccanismo seguito ad esempio da Germania, Fillandia e Portogallo);
- è previsto un generico obbligo di garanzia a carico dell’agente su tutti gli affari promossi dall’agente, ma di ammontare molto inferiore all’effettivo danno subito dal preponente (si pensi a Belgio e Paesi Bassi).
Prima della riforma del 1999, l’Italia rientrava anch’essa nella seconda tipologia: lo star del credere dell’agente di commercio, non era disciplinato specificamente nel codice civile, bensì era regolato come istituto eventuale e pattizio dagli Accordi Economici Collettivi. L’agente era tenuto allo star del credere esclusivamente per patto ed in ottemperanza alle norme degli Accordi Economici Collettivi aventi efficacia erga omnes (art. 7, a.e.c. 20 giugno 1956) secondo cui l’onere pattuito a carico dell’agente non poteva superare il 20% della perdita subita dal preponente, misura ridotta dagli accordi economici collettivi aventi validità di convenzione privatistica (9 giugno 1988, settore commercio e 16 novembre 1988, settore industria) nella misura del 15%.
La Corte di Cassazione, si è recentemente pronunciata su un giudizio promosso da un agente, volto ad ottenere il pagamento del corrispettivo per lo star del credere che era stato pattuito, in un rapporto contrattuale instaurato antecedentemente alla riforma dell’art. 1746 comma 3, avvenuta, appunto, alla fine del 1999.[3]
In tale sentenza la Corte compie una breve analisi dello sviluppo dell’istituto, ricordando che esso, già previsto dal codice di commercio, ha trovato ingresso nel codice civile all’art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione. L’art. 1736 c.c., infatti, dispone che il commissionario risponde nei confronti del committente dell’esecuzione dell’affare, avendo nel contempo un diritto ad uno speciale compenso o ad una maggiore commissione. In tale prospettiva il commissionario, in quanto mandatario del committente, per conto del quale agisce, si fa garante nei suoi confronti della solvibilità del terzo contraente.
La Corte, sostanzialmente, ha riconfermato l’orientamento espresso e ribadito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità,[4] secondo cui al contratto di agenzia (prima della riforma!) non poteva applicarsi in via analogica l’art. 1736, c.c. in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell’agente per lo star del credere era disciplinata in modo specifico dall’accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 1450/1961 (che limita la responsabilità dell’agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore (qualora le parti vi abbiano aderito), che adottano il più ristretto limite del 15%.[5] Sulla base di tale ragionamento la Corte ha affermato che:
“in mancanza di una esplicita pattuizione del compenso ed in assenza di prova di una volontà delle parti in tal senso, nessun compenso aggiuntivo è dovuto all’agente per la statuizione dello star del credere.”
A seguito di tale intervento normativo, (dopo il 1999) l’utilizzabilità dello star del credere risulta di fatto molto meno rilevante nel nostro sistema. Le parti possono, infatti, pattuirlo solamente caso per caso e, inoltre, la garanzia dell’agente deve essere limitata ad un importo pari e non superiore alla sua provvigione.
In pratica, il legislatore ha in pratica applicato ed imposto i requisiti (sopra esaminati) di ambedue i sistemi utilizzati dagli Stati Membri e ha ristretto l’utilizzabilità di tale istituto in maniera tale da cancellarlo di fatto dal nostro sistema giuridico.
Da un lato lo star del credere, così disciplinato, non ha più la funzione di garantire il preponente per determinati affari che ritiene essere rischiosi (la garanzia non è del 100%, ma è solamente pari alla provvigione che l’agente avrebbe diritto a percepire per quel determinato affare), dall’altro non può essere utilizzato per responsabilizzare l’agente, in quanto non può operare riguardo a tutti gli affari promossi dall’agente stesso, ma solo in singoli casi in cui il preponente ha il sospetto che il cliente sia poco affidabile.
Tale scelta di fatto costituisce una grave svantaggio per il preponente italiano che intenda accedere a nuovi mercati e sottoporre la propria legge ad agenti stranieri. Lo star del credere, infatti, dovrebbe essere visto come tutela per il preponente, soprattutto quando questi si relazioni con agenti in mercati esteri, per i quali lo star del credere dovrebbe essere mezzo fortemente necessario, considerando la maggiore difficoltà per il preponente, di ottenere informazioni sull’affidabilità e la solvibilità di clienti stranieri, procacciati dall’agente.
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[1] Il termine “star del credere” viene normato all’art. 1736 c.c., in tema di commissione, che prevede: “Il commissionario che, in virtù di patto o di uso, è tenuto allo “star del credere” risponde nei confronti del committente per l’esecuzione dell’affare. In tal caso ha diritto, oltre che alla provvigione, a un compenso o a una maggiore provvigione, la quale, in mancanza di patto, si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l’affare. In mancanza di usi, provvede il giudice secondo equità.” Attraverso tale clausola il commissario assume il ruolo di un fideiussore ex art. 1936 del terzo con cui contrare, garantendo al committente il regolare adempimento dell’obbligazione del terzo ed il buon esisto dell’affare.
[2] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolters Kluwer, pag. 241.
[4] Cfr., ad es., Corte di Cass. Civ. n. 1999, n. 12879.
[5] Cass. Civ. 1999, n. 3902/99