Il recesso anticipato dal contratto di agenzia. Come si calcola l’indennità per il mancato preavviso?

Il recesso dal contratto di agenzia è espressamente regolato all'art. 1750, comma 2. c.c. Tale articolo concede ad entrambe le parti la facoltà di recedere liberamente dal contratto a tempo indeterminato, senza alcuna motivazione, dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito.

L'art. 1750 comma 3 c.c. dispone, inoltre, che il “contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a”:

  • 1 mese per il 1° anno
  • 2 mesi per il 2° anno
  • 3 mesi per il 3° anno
  • 4 mesi per il 4° anno
  • 5 mesi per il 5° anno
  • 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi.

Importante ricordare che le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si domanda, fuori dai casi in cui è ammessa la risoluzione anticipata, cosa succede quando una parte recede dal contratto di agenzia, senza osservare il preavviso. In tale situazione si pongono, di norma, due tipologie di problemi:

  1. comprendere se il rapporto contrattuale prosegue o viene interrotto;
  2. comprendere se e in che misura controparte avrà diritto al risarcimento del danno.

Con riguardo al primo punto, bisogna distinguere tra contratto a tempo determinato e contratto a tempo indeterminato.

Con riferimento al contratto a tempo determinato, è pacifico ritenere che il contratto continua ad essere efficace fino alla scadenza. In tale caso, un recesso illegittimo, non potrà in alcun modo risolvere il contratto che, pertanto, proseguirà anche dopo l'ingiustificato recesso fino alla sua normale scadenza (cfr. Cass. Civ. 1990 n. 1614).

"con riguardo a contratto di agenzia, ove il preponente receda illegittimamente dal rapporto ed ometta, di conseguenza, di fornire all'agente la cooperazione indispensabile per lo svolgimento della sua attività, non ne consegue la risoluzione del contratto, che deve considerarsi ancora in corso fino alla prevista scadenza, bensì ne deriva la responsabilità del preponente stesso, che è tenuto - pur in mancanza di una costituzione in mora - al risarcimento del danno in favore dell'agente."

 In tale caso, seppure il contratto continui ad essere efficace anche a seguito del recesso ingiustificato, bisogna anche tenere presente che, in linea di massima, risulterà quasi impossibile per il non recedente proseguire concretamente il rapporto. Proprio su tale punto, la Casssazione nella sentenza qui sopra citata, ha affermato che:

"è praticamente impossibile per un agente continuare la promozione degli affari qualora il preponente abbia intimato il recesso sia pure illegittimo ed abbia di conseguenza tenuto un comportamento coerente con tale recesso cessando di fornire all'agente quella cooperazione necessaria per lo svolgimento del rapporto."

Ne deriva, pertanto, che la continuazione del rapporto contrattuale fino alla sua naturale scadenza, conferirà di fatto il diritto dell'agente a pretendere il risarcimento del danno, da quantificarsi nel mancato guadagno per la rimanente durata del rapporto.

Con riferimento al contratto a tempo indeterminato, la questione si poneva in termini differenti prima della riforma dell'art. 1750 c.c. che è stato così sostituito dall'art. 3 d. lgs. 10 set. 1991, n. 3030, in attuazione della direttiva 86/653/CE. Con la riforma, infatti, è stato eliminato il riferimento dell'art. 1750 c.c., che concedeva alle parti la facoltà di sostituire il preavviso con il pagamento di un'indennità, la cui determinazione era (ed è tutt'ora) determinata dagli accordi economici collettivi (cfr. anche(cfr. calcolo indennità ex AEC 2014, calcolo indennità ex AEC 2009, calcolo indennità ex ANA 2003).

A seguito di tale intervento normativo, l'orientamento maggioritario della giurisprudenza e di parte della dottrina (Bortolotti), considera che l'abrogazione della possibilità delle parti di sostituire il preavviso con un'indennità, ha di fatto attribuito una "efficacia reale" al preavviso con la conseguenza di riconoscere, almeno da un punto di vista teorico, il diritto della parte non recedente di proseguire il rapporto fino alla scadenza del preavviso.

La Corte di Cassazione, sul punto ha recentemente ribadito, con sentenza n. 8295 del 25 maggio 2012, il principio, dell'efficacia reale del preavviso ovvero di ultrattività del rapporto contrattuale.

"In base al principio di ultrattività del rapporto durante il periodo di preavviso, il contratto di agenzia a tempo indeterminato non cessa nel momento in cui uno dei contraenti recede dal contratto, ma solo quando scade il termine di preavviso, sancito nell'interesse e a tutela della parte non recedente."

Secondo la sopra richiamata giurisprudenza, attribuire efficacia "reale" al preavviso, conferisce alla parte non recedente il diritto a continuare il rapporto fino alla naturale scadenza. Seppure, come si è detto sopra, nella pratica è di difficile continuare un rapporto che è stato di fatto interrotto da una delle parti, il diritto delle parti alla continuazione del rapporto fino alla naturale scadenza, si traduce nel diritto a chiedere un risarcimento del danno, che, nel caso dell'agente, potrà essere superiore rispetto all'indennità di mancato preavviso (pari alle provvigioni perse dall'agente durante il preavviso, sulla media di quelle dell'anno precedente).

Il danno ulteriore che l'agente potrebbe fare valere a titolo di risarcimento del danno, si può riscontrare, ad esempio, nel caso di vendita di beni stagionali. Si pensi alla vendita di un prodotto stagionale (ad es. uovo pasquale, costume da bagno, ski-pass, etc.): è chiaro che se il recesso dovesse avvenire nel momento in cui sta per iniziare la stagione delle vendite, le provvigioni perse dall'agente durante il preavviso, saranno quasi sicuramente superiori rispetto alla media dell'anno precedente.

Nel caso di recesso illecito dell'agente, il preponente, potrà, ad esempio subire un danno derivante dalla perdita di una fetta di mercato, causato dallo sviamento della clientela verso concorrenti del preponente.

Va comunque sottolineato che secondo parte della dottrina (Toffoletto, Baldi-Venezia) e della giurisprudenza (Cass. Civ. 1999 n. 5577), nel contratto a tempo indeterminato il preavviso, contrariamente, costituisce un'obbligazione della parte recedente e non viene attribuita una efficacia "reale". L'eventuale inadempimento a tale obbligazione, dunque, non inficia la validità del recesso, dando luogo soltanto ad un obbligo di risarcimento del danno, corrispondente all'indennità di mancato preavviso.

Se tale discussione dell'efficacia reale ed obbligatoria del preavviso è tutt'ora in corso per quanto riguarda la disciplina civilistica del rapporto di agenzia, di cui all'art. 1750 c.c., le contrattazioni collettive ad oggi in vigore, AEC 2009 per il commercio e AEC 2014 per l'industria, conferiscono espressamente il diritto alle parti di terminare anticipatamente il rapporto, salvo il diritto della controparte all'indennità di fine rapporto.

Nello specifico, all'art. 11 del AEC 2009 e l'art. 9 dell'AEC 2014, dispongono che:

"ove la parte recedente, in qualsiasi momento, intenda porre fine, con effetto immediato al rapporto, essa dovrà corrispondere all'altra parte, in sostituzione del preavviso, una somma a titolo di risarcimento pari a tanti dodicesimi delle provvigioni di competenza dell'anno solare precedente quanti sono i mesi di preavviso dovuti. Qualora il rapporto abbia avuto inizio nel corso dell'anno civile precedente, saranno conteggiati i successivi mesi dell'anno in corso per raggiungere i dodici mesi di riferimento.

Inoltre, è previsto un criterio di calcolo alternativo a quello qui sopra evidenziato, in base al quale:

"Ove più favorevole. la media retributiva per la determinazione dell'indennità di cui trattasi sarà calcolata sui dodici mesi immediatamente precedenti la comunicazione di recesso. Qualora il rapporto abbia avuto un durata inferiore a dodici mesi, il detto computo si effettuerà in base alla media mensile delle provvigioni liquidate durante il rapporto stesso."

Pertanto, per calcolare l'ammontare della somma dovuta a titolo di sostituzione del preavviso, sarà necessario effettuare un doppio calcolo, seguendo i due differenti periodi e applicare quello dei due che risulti essere più favorevole per l'agente.


Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale

Il contratto di concessione di vendita e il contratto di agenzia sono tra le forme più diffuse di organizzazione della distribuzione. Tali contratti sono accumunati dal fatto che sia l'agente, che il concessionario, si assumono l'obbligo di organizzare e promuovere, in maniera autonoma, le vendite conformemente alle politiche del produttore, integrandosi all’interno della rete distributiva dello stesso. Quello che differenzia principalmente questi due intermediari è il fatto che, mentre l’agente si impegna, a fronte di una provvigione, a promuovere la conclusione di contratti tra il produttore e i clienti che l'agente stesso ha procurato, il concessionario opera in qualità di acquirente-rivenditore e la sua fonte di guadagno si basa sulla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rivendita.

La concessione di vendita è uno strumento di particolare rilievo per l’organizzazione della distribuzione sui mercati, sia nazionali che stranieri, che si distingue dagli altri rivenditori non integrati (ad es. i "grossisti"), in quanto esso svolge un’autonoma attività di promozione ed organizzazione delle vendite dei prodotti del concedente, in un determinato territorio, che, in linea di massima, gli viene concesso in esclusiva.

Una definizione di tale tipologia contrattuale, non viene data dal codice civile, in quanto esso non è stato regolamentato nel nostro ordinamento e va, dunque, qualificato come un contratto atipico.  Ad ogni modo, se si vuole dare una definizione del concessionario di vendita, esso si può inquadrare come un imprenditore commerciale, che stipula con il produttore un contratto quadro, a tempo determinato o indeterminato, atto a regolare, in una determinata zona, tutte le vendite che vengo effettuate in maniera stabile e continua da parte del concedente nei confronti del concessionario.

La definizione di agente, o meglio, di contratto di agenzia è, invece, data dal codice civile, che dispone all’art. 1742 c.c. che “col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione la conclusione di contratti in una zona determinata” (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?).

Pertanto, mentre il concessionario tratta in nome e per contro proprio, acquistando la merce direttamente dal concedente e rivendendola a terzi, contrariamente l’agente agisce per conto e in qualità di autonomo collaboratore del preponente, promuovendo la conclusione di contratti di vendita ai terzi e, solamente quanto è munito del potere di rappresentanza, anche in nome del preponente.

Quindi, seppure l’agente e il concessionario svolgono una funzione molto simile, in quanto entrambi si occupano di organizzare la distribuzione dei prodotti di un preponente, in un determinato territorio a loro affidato, in qualità di imprenditori autonomi, ma integrati nella rete di vendita del fabbricante, allo stesso tempo, essi si distinguono in maniera molto pronunciata, nella modalità di gestione delle vendite l’agente è un puro e semplice intermediario del preponente, il concessionario, invece, acquista direttamente i prodotti dal concedente e si occupa lui stesso di rivenderli direttamente al cliente finale, che è stato da esso procurato.

Se si guardano le due figure da un punto di vista strategico, si rileva che l’agente di commercio permette al preponente di avere un controllo più forte e diretto sulla clientela, in quanto la vendita viene effettuata dal preponente stesso e l’agente ha invece il compito di passare l’ordine al preponente, il concessionario ha invece il compito di organizzare la fase di vendita al cliente finale e, spesso, anche di assistenza e, pertanto, di norma ha un controllo più diretto sul cliente, svolgendo anche attività correlate alla promozione della vendita, quali appunto lo sdoganamento della merce, la spedizione al destinatario ed il magazzinaggio.

Tali tipologie contrattuali si distinguono anche dal punto di vista dei rischi commerciali che il fabbricante si assume: nel contratto di distribuzione il il rischio è spostato sicuramente più sul concessionario, il quale si accolla il potenziale pericolo di non riuscire a rivendere i prodotti acquistati. Al contrario nel caso di agenzia, il rischio di inadempimento del cliente finale, si ribalta direttamente sul preponente, soprattutto se le parti hanno applicato il diritto italiano, in quanto nel nostro ordinamento l’utilizzabilità della cosiddetta clausola dello "star del credere" è stata di fatto cancellata. Si ricorda brevemente, che con tale clausola, l’agente si assume in parte od integralmente, il rischio del mancato pagamento da parte di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.

Bisogna comunque rilevare, che in buona parte dei contratti di distribuzione di vendita è prevista una clausola, che posticipa l’obbligo del concessionario di pagare la merce, solamente a seguito del pagamento del prodotto da parte del cliente finale. È evidente che una tale pattuizione andrà a spostare fortemente il rischio imprenditoriale nei confronti del concedente.

Sicuramente, un aspetto che fortemente distingue le due figure contrattuali è l’indennità di fine rapporto (in tema cfr. anche calcolo indennità ex art. 1751 c.c., calcolo indennità ex AEC 2014 calcolo indennità ex AEC 2009 e calcolo indennità ex ANA 2003). Come è noto, il contratto di agenzia prevede espressamente, all'art. 1751 c.c., il diritto dell'agente a percepire, a determinate condizioni, un'indennità a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale. Parimenti non si può dire per il contratto di concessione di vendita. La giurisprudenza italiana, infatti, distaccandosi da quella che è la giurisprudenza di diversi paesi europei - ad es. Austria e Germania) non riconosce al concessionario tale diritto.

Autorevole dottrina, si dissocia da tale orientamento giurisprudenziale, affermando che "pur in assenza di norme legislative, il diritto all'indennità nel contratto di agenzia nel quale l'agente è anche autorizzato ad effettuare acquisti in proprio quale concessionario, potrebbe essere esteso agli affari posti in essere dal concessionario. Ci pare infatti che in tali ipotesi, trattandosi di contratto misto, nel quale è prevalente la causa del contratto di agenzia, l'indennità di risoluzione, per il principio dell'assorbimento, potrebbe essere estesa all'attività che l'agente ha svolto come concessionario" (Venezia-Baldi).


diritto dell'agente alla provvigione

Il diritto dell'agente alle provvigioni sugli affari diretti, indiretti e di zona.

L’art. 1748 c.c. prevede che il diritto dell’agente alla provvigione sussiste essenzialmente in tre casi: per gli affari promossi direttamente dall'agente; per gli affari conclusi dal preponente, senza l'intervento dell'agente con clienti procurati in precedenza dall'agente ("affari successivi") e affari conclusi direttamente dalla preponente senza l'intervento dell'agente con clienti appartenenti ad una zona o clientela riservata all'agente.

Come è noto, il compenso dell’agente è costituito da una provvigione che, normalmente, consiste in una percentuale sull’ammontare dell’affare portato a compimento da parte del preponente con un proprio cliente, tramite l’intermediazione dell’agente. Prima di procedere ad individuare per quali affari la provvigione sia effettivamente dovuta, vale la pena ricordare che le parti sono libere di determinare contrattualmente le modalità di computo del compenso dell’agente, tramite modalità differenti rispetto a quelle di carattere provvigionale,[1] tramite ad esempio il pagamento di:

  • un sovrapprezzo, ossia la percentuale legata alla differenza, completa o parziale, fra il prezzo di listino e il maggior prezzo di vendita;
  • un compenso a somma fissa per ogni contratto concluso, indipendentemente dal suo ammontare; oppure
  • la remunerazione tramite un fisso garantito, spesso abbinato ad un compenso provvigionale variabile. (Importante ricordare che se la remunerazione viene determinata unicamente in forma fissa può essere un elemento che, abbinato ad altri indizi di subordinazione, può portare a qualificare il rapporto come di lavoro subordinato.)[2]

Ciò premesso, il diritto dell’agente alle provvigioni viene disciplinato dall’art. 1748 c.c. che così dispone:

Per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento.

La provvigione è dovuta anche per gli affari conclusi dal preponente con terzi che l’agente aveva in precedenza acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o

appartenenti alla zona, o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente, salvo che sia diversamente pattuito.”

La provvigione dell’agente è quindi dovuta essenzialmente in tre casi:

  1. per gli affari promossi direttamente dall'agente;
  2. per gli affari conclusi dal preponente, senza l'intervento dell'agente con clienti procurati in precedenza dall'agente ("affari successivi");
  3. affari conclusi direttamente dalla preponente senza l'intervento dell'agente con clienti appartenenti ad una zona o clientela riservata all'agente (c.d. "affari diretti").

Qui di seguito si vanno brevemente ad analizzare le tre “categorie” di provvigioni sopraelencate.


1. Affari promossi direttamente dall'agente.

L'art. 7, 1 lettera a) della direttiva 86/653/CEE stabilisce quanto segue:

"per un'operazione commerciale conclusa durante il contratto di agenzia, l'agente commerciale ha diritto alla provvigione: a) quando l'operazione è stata conclusa grazie al suo intervento [..]"

Principio che è stato integralmente recepito nel nostro ordinamento con l'art. 3 del d.lgs 65/99, che ha modificato l'art. 1748 c.c.

Tenuto conto che la normativa subordina il diritto dell’agente alla provvigione ad un suo effettivo intervento nella conclusione dell’affare, è essenziale comprendere quando si può affermare un affare venga realmente concluso grazie all’intervento dell’agente. Se non ci sono dubbi nel caso in cui l’agente raccoglie direttamente l’ordine dal cliente e lo trasmette al preponente, meno chiaro sarà certamente il caso in cui all’attività iniziale di contatto posta in essere dall’agente faccia seguito una trattativa condotta dal preponente o da un altro agente.[3]

Non è invece necessario verificare l’intervento dell’agente nella conclusione dell’affare, qualora a questi venga riservata una zona e l’affare viene concluso nel territorio esclusivo dell’agente; in tale ipotesi all’agente sarà comunque riconosciuta una provvgione, salvo il caso che le parti non abbiano contrattualmente deciso di escludere il diritto alle provvigioni sugli gli affari direttamente posti in essere dal preponente (questione che verrà trattata al successivo paragrafo 3). 

Ancora differente è il caso dell’agente di zona che ha promosso l'affare con clienti estranei al proprio territorio. Secondo autorevole dottrina,[4] in tal caso l’agente non maturerebbe alcuna provvigione trattandosi di affari estranei all'ambito di applicazione del contratto di agenzia. Seguendo tale orientamento, l’agente maturerebbe una provvigione, solamente se emerge che le parti abbiano convenuto - espressamente o tacitamente - di far rientrare l'affare sotto il contratto, in caso contrario, ossia se non emerge con sufficiente chiarezza una volontà di considerare l'attività dell'agente come promozione rientrante nel contratto, non spetterà all'agente alcun compenso provvigionale.

Gli AEC industria 2014 (art. 6) e 2009 commercio (art. 5) vanno a disciplinare l’ancora diversa circostanza, relativa al caso in cui la promozione e l’esecuzione di un affare interessi zone e/o clienti affidati in esclusiva ad agenti diversi. In tal caso, gli AEC dispongono che, salvo diverso accordo

la relativa provvigione verrà riconosciuta all’agente, che abbia effettivamente promosso l’affare, salvo diversi accordi fra le parti per un’equa ripartizione della provvigione stessa.”

Va da ultimo tenuto presente che l’art. 1748 comma 1, non determina il momento in cui viene acquisito il diritto alla provvigione, problema che viene affrontato nel successivo articolo 1748 comma 4.

- Leggi anche: Quando è obbligato il preponente al pagamento della provvigione?


2. Affari conclusi direttamente dal preponente, con clienti procurati dall'agente.

Il secondo caso è quello introdotto dall'art. 7,1 lettera b) della direttiva, che prevede che l’agente ha diritto alla provvigione:

" quando l'operazione è stata conclusa con un terzo che egli aveva precedentemente acquisito come cliente per operazioni dello stesso tipo.”

Il nostro ordinamento ha recepito tale disposizione nell'art. 1748 c.c. 2 comma; in base a tale disposizione l'agente senza esclusiva, una volta che ha trasmesso un ordine al preponente per un cliente da lui acquisito, avrà quindi diritto anche alla provvigione per gli affari che il preponente conclude in seguito, purché si tratti di affari dello stesso tipo.

La norma è volta a tutelare i rapporti con agenti non esclusivi, ai quali spetta unicamente un compenso per gli affari da lui promossi e quindi evitare che il preponente eluda il diritto dell’agente (non esclusivo) alla remunerazione, mettendosi semplicemente in contatto diretto i clienti da questi acquisiti per affari successivi.

Per comprendere cosa si debba intendere per affare dello “stesso tipo”, può venire in aiuto una sentenza della Corte di Giustizia del 2016,[5] che (seppure abbia ad oggetto la differente questione relativa alla qualificazione di “nuovo cliente” ai fini della quantificazione dell’indennità di fine rapporto)[6], ha affermato che possono essere considerati nuovi clienti, anche quelli con cui la preponente intrattenesse già rapporti commerciali in merito alle medesime tipologie di merci (nel caso di specie occhiali da sole) ma di marchi differenti, qualora la vendita dei nuovi marchi ai clienti già acquisti dal preponente abbi imposto di porre in essere rapporti commerciali specifici.

Guardando tale sentenza da una differente prospettiva (ossia dal lato del preponente) ed applicandola alla disciplina delle provvigioni (e non dell’indennità di fine rapporto) si potrebbe affermare che l’agente (non esclusivo), non possa maturare alcuna provvigione su affari conclusi dal preponente con clienti che l’agente aveva precedentemente procacciato, non solo se si tratta di prodotti appartenenti ad un differente settore merceologico, ma addirittura dello stessa tipologia, ma di un  marchio differente, se il preponente dimostra che tale attività di vendita sia stata la conseguenza di un’attività commerciale attiva.


3. Affari diretti all'interno della zona dell'agente o con i suoi clienti esclusivi.

Nel caso in cui all'agente sia riconosciuta una zona, l'agente ha ex art. 1748 c.c. secondo comma il diritto alla provvigione sugli affari conclusi dal preponente con terzi appartenenti al proprio territorio, prescindendo quindi dal luogo di esecuzione dell'affare.

Tale principio era stato altresì sancito all'art. 5 sesto comma dell'AEC 20 giugno 1956 per gli agenti di imprese industriali, avente efficacia erga omnes, che ha previsto il diritto dell'agente di zona alla provvigione sugli affari conclusi direttamente dal preponente, senza esigere che nella zona debba aver luogo l'esecuzione.

Posto che nel nostro ordinamento l’esclusiva dell’agente costituisce ex art. 1743 c.c. un elemento naturale del contratto e che quindi essa si presume sussistere nel rapporto contrattuale, il diritto dell'agente alle provvigioni sugli affari diretti del preponente sussiste sempre, salvo pattuizione contraria delle parti. Secondo la dottrina e la giurisprudenza, in caso di deroga delle parti all'esclusiva, verrà meno automaticamente il diritto alla provvigione sugli affari diretti, non esistendo, in tal caso, più la "zona o [...] categoria di clienti riservati all'agente" così come previsti dall'art. 1748 c.c.[7]

Si evidenzia da ultimo che le parti possono comunque espressamente stipulare un patto con il quale escludono il diritto alla provvigione sugli affari diretti, seppure venga mantenuta all'agente l'esclusiva, in tale ipotesi, l'agente avrà diritto alla provvigione solamente per gli affari che ha personalmente promosso (punto 1) e sugli affari "successivi" (punto 2).

Meno pacifica è la questione se la provvigione per gli affari spetti all’agente di zona ove il cliente poi di fatto invierà la merce per la rivendita (punti vendita). In difetto di accordo, se i contratti vengono conclusi presso la sede della cliente e poi è quest’ultimo che distribuisce i prodotti alle proprie filiali/punti vendita si pensa essere preferibile la tesi della provvigione riconosciuta all’agente dove ha sede il cliente, irrilevante essendo dove poi il contratto viene eseguito.[8]

Diversa questione è se l’agente possa rivendicare il diritto alla provvigione sulle vendite che il cliente  (gorssista) effettua al pubblico nella zona dell’agente, attraverso i propri punti vendita. La giurisprudenza italiana[9] e della Corte di Giustizia,[10] propende per escludere il diritto dell’agente a conseguire le provvigioni per le tali vendite, posto che l’art. 1748, comma 2, c.c., presuppone che si tratti di vendite concluse da un soggetto, appunto il preponente, in immediato rapporto con la controparte acquirente, nelle quali, cioè, lo scambio fra le prestazioni corrispettive avvenga in maniera immediata e diretta tra le due parti, senza l’intervento di soggetti interposti e senza ulteriori passaggi intermedi.


[1] La nostra normativa non dà una definizione di provvigione e a questo provvede invece la direttiva europea 86/653/CEE  che all’art. 6§2 stabilisce quanto segue: “Tutti gli elementi della retribuzione che variano secondo il numero o il valore degli affari sono considerati come costituenti una provvigione ai sensi della presente direttiva.”

[2] Cfr. Cass. Civ. 2012 n. 12776; Cass. Civ. 2009 n. 9686; Cass. Civ. 1998, n. 1737.

[3] Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 266, Wolters Kluver.

[4] Ibidem.

[5] Corte di Giustizia 7 aprile 2016, n. C-315/2014, Marchon vs. Karaszhiewicz.

[6] Quagliarella, I nuovi clienti nel contratto di agenzia: la recente giurisprudenza comunitaria.

[7] Cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, 2014,  Giuffré.

[8] Ibidem, pag. 275.

[9] Cass. Civ. 2001 n. 11197, (nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la provvigione in relazione a vendite effettuate da un grossista, che aveva acquistato i prodotti commerciati presso il preponente e li aveva successivamente posti in vendita al dettaglio mediante propri venditori).

[10] Sentenza del 17 gennaio 2008, n. 19/17, con nota di Venezia, Il necessario intervento del preponente per il diritto dell’agente alla provvigione per l’affare concluso da un terzo, in I Contratti 2008, pag. 307 e s.


La clausola di "minimi di fatturato" nel contratto di agenzia

Una tra le clausole maggiormente utilizzate e di grande diffusione nel contratto di agenzia è sicuramente quella dei “minimi di fatturato”. Con tale clausola le parti stabiliscono la soglia minima di fatturato annuo che l’agente deve apportare al preponente.

A tal proposito ci si chiede quale è la validità di tale clausola e quali siano le conseguenze nel caso in cui l’agente non riesca a raggiungere le soglie concordate.

In primo luogo, in via per così dire preliminare, secondo la giurisprudenza il fatturato concordato deve essere equo, ossia fissato dalle parti in relazione alle effettive possibilità di assorbimento del mercato; in secondo luogo, si rileva che una clausola che attribuisce al preponente la facoltà di modificare unilateralmente, nel corso del rapporto, i minimi di fatturato è di dubbia validità: in linea di principio, infatti, le parti non posso introdurre sempre e in maniera indistinta clausole contrattuali che conferiscono ad una parte la facoltà di modificare discrezionalmente il contratto, soprattutto se hanno ad oggetto elementi fondamentali del rapporto, quali, ad esempio, la zona, il pacchetto clienti dell’agente, le provvigioni, minimi contrattuali, etc..

Tale diritto potestativo conferito al preponente, in linea di massima soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c.[1] In generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare elementi essenziali del rapporto, deve “essere giustificato dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo[2]non può tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali.

Tanto premesso, in linea di principio, la giurisprudenza ritiene che il mancato raggiungimento di un minimo concordato implica di fatto un inadempimento dell’agente. Il problema maggiore è comprendere se ciò costituisca un inadempimento di gravità tale da giustificare il recesso in tronco o la risoluzione per inadempimento da parte del preponente.

Nel caso in cui le parti non avessero previsto nulla in merito, sarà necessario valutare, caso per caso, la gravità di tale inadempimento e se questo possa configurare una recesso per giusta causa oppure la risoluzione del contratto.

Qualora, contrariamente, le parti avessero espressamente previsto nel contratto che il mancato raggiungimento dei minimi comporti lo scioglimento immediato del rapporto e, pertanto, avessero previsto una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., si deve ritenere che fino a qualche anno fa la giurisprudenza riteneva univocamente che:

quando […] le parti, nella loro autonomia e libertà negoziale, abbiano preventivamente valutato l’importanza di un determinato inadempimento, facendone discendere la risoluzione del contratto senza preavviso, il giudice non può compiere alcuna indagine sull’entità dell’inadempimento stesso rispetto all’interesse dell’altro contraente, ma deve unicamente accettare se esso sia imputabile al soggetto obbligato quanto meno a titolo di colpa, che peraltro si presume a norma dell’art. 1218 c.c.”.[3]

Tale indirizzo giurisprudenziale è stato radicalmente cambiato da un più recente (ed ormai consolidato) orientamento della Corte del 2011,[4] con il quale la Cassazione, seppure da un lato ha riconosciuto la legittimità dell’inserimento all’interno del contratto di una clausola risolutiva espressa, dall’altro lato ne ha in parte limitato la sua efficacia: con tale pronuncia la Corte ha precisato che l’interruzione di un contratto di agenzia in forza di una clausola risolutiva espressa, comporta la preliminare e necessaria verifica da parte del giudice dell’esistenza di un inadempimento. Il giudice, nello specifico, dovrà verificare se:

  • l’inadempimento è di gravità tale da escludere l’indennità di mancato preavviso ex art. 1750 c.c.;
  • l’inadempimento è di gravità tale da escludere il diritto dell’agente di percepire l‘indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c.

Si vanno qui di seguito ad analizzare brevemente tali fattispecie.

a) Indennità di mancato preavviso

È ormai consolidato che il contratto di agenzia sia soggetto ad un’applicazione analogia dell’art. 2119 c.c., che prevede la facoltà dei contraenti di recedere senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

Sulla base di tale presupposto, la sopra richiamata Giurisprudenza ha quindi affermato che in caso di ricorso da parte dell’impresa preponente ad una clausola risolutiva espressa, questa può ritenersi valida nei limiti in cui venga a giustificare un recesso in tronco, non potendo la libertà delle parti di fatto essere assoluta. Il Giudice, in tali casi, dovrà accertare se il mancato raggiungimento del budget sia una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.[5]

 Applicando tale principio alla clausola dei minimi di fatturato la giurisprudenza di merito ha recentemente ritenuto che di per sé il mancato raggiungimento del budget di vendita non legittima una chiusura immediata del rapporto da parte del preponente,

poiché […] non rientra tra le obbligazioni dell’agente quella di far conseguire al preponente un certo fatturato e poiché non è possibile, in linea di principio, addebitare all’agente il mancato raggiungimento di obiettivi a prescindere dal fatto che tale evenienza sia addebitale o meno al comportamento inadempiente dell’agente.”[6]

b) Indennità di fine rapporto

Parimenti, per quanto l’indennità di fine rapporto, la valutazione di gravità dell’inadempimento dovrà essere effettuata sul parametro di cui all’art. 1751 c.c., che anch’esso subordina il venir meno a tale indennità, qualora si verifichi un inadempimento che per la sua gravità “non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

Posto che l’art. 1751 c.c. prevede espressamente che tutte le disposizioni in esso contenute sono inderogabili a svantaggio dell’agente, la possibilità di escludere il diritto dell’agente all’indennità di fine rapporto, dovrà essere subordinata all’esistenza di un inadempimento grave, indipendentemente dall’inserimento all’interno del contratto di una clausola risolutiva espressa.[7]

Ne consegue che il mancato raggiungimento degli obiettivi, qualora sia svincolato da precise e specifiche inadempienze dell’agente che devono essere specificamente provate dalla preponente, non può essere posto a fondamento del venire meno del vincolo fiduciario tale da impedire la prosecuzione del rapporto.[8]

__________________________

[1] Sul punto cfr. Cass. Civ. n. 9924, 2009.

[2] Cass. Civ. n. 5467, n. 2000.

[3] Cass. Civ. n 7063, 1987.

[4] Cass. Civ. 2011 n. 10934

[5] Cass. Civ. 14.2.2011 n. 3595.

[6] Corte d’Appello di Brescia del 15.9.2019.

[7] Cfr. sul punto Tribunale di Modena 10 giugno 2011.

[8] Id. Corte d’Appello di Brescia del 15.9.2019.


L'obbligo di non concorrenza nel contratto di agenzia: durante e a seguito della cessazione del rapporto.

In ambito europeo, stupisce sicuramente il fatto che la direttiva 86/653/CEE non accenni minimamente all'obbligo dell'agente di non operare in concorrenza con il preponente, nel corso del rapporto contrattuale.

Tale impostazione ha portato la maggior parte dei Paesi Membri a non menzionare, regolamentare ed espressamente, tale istituto nei propri ordinamenti. Pertanto, in ambito europeo non deve assolutamente darsi per scontato che l'agente, in caso di mancanza di apposito patto stipulato contrattualmente tra le parti, sia obbligato a non prestare, nel corso del rapporto contrattuale, la propria opera a favore di concorrenti del preponente.

Contrariamente, secondo il diritto italiano durante lo svolgimento del rapporto, il divieto di concorrenza è "effetto naturale del contratto": questo, seppure non vi sia una norma specifica che lo preveda, come ad esempio l'art. 2015 c.c. per il lavoratore subordinato,  si desume indirettamente dal primo comma dell'art. 1746 c.c., in base al quale l'agente deve tutelare gli interessi del preponente ed agire con lealtà e buona fede.

Quanto al periodo successivo alla cessazione del contratto, ossia il cosiddetto divieto di concorrenza "postcontrattuale", esso è stato in parte regolato dalla direttiva, che ha dettato le tutele minime che devono essere rispettate da tutti i paesi firmatari. Esse sono:

  • che venga stipulato per iscritto;
  • che riguardi il settore geografico o il gruppo di persone e il settore geografico affidati all'agente commerciale, nonché le merci di cui l'agente commerciale aveva la rappresentanza ai sensi del contratto, e l'agente commerciale aveva la rappresentanza ai sensi del contratto.
  • che sia di durata non superiore a due anni dalla del rapporto contrattuale

La direttiva ha pertanto disposto che il patto di non concorrenza postcontrattuale è ammesso solo in specifico accordo delle parti e comunque entro determinati limiti legali. Infatti, un obbligo di tale natura, che ha sicuramente l'utilità di fare in modo che il preponente possa mantenere la clientela che era gestita dall'agente prima della conclusione del rapporto, ha comunque come risvolto quello di potere di fatto rendere impossibile per l'agente di svolgere la propria attività e per tale motivo è stato espressamente limitato dalla direttiva europea, in modo da garantire gli interessi di entrambe le parti.

Il divieto di concorrenza "postcontrattuale"  è stato introdotto nel nostro paese dell'art. 1751bis c.c., con il decreto 303 del 1991. Nello specifico il primo comma dell'art. 1751bis dispone che:

"Il patto che limita la concorrenza da parte dell’agente dopo lo scioglimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto."

Il secondo comma dell'art. 1751bis c.c., è stato inserito dalla legge n. 422 del 2000, e stabilisce che:

"l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale. L’indennità va commisurata alla durata, non superiore a due anni dopo l’estinzione del contratto, alla natura del contratto di agenzia e all’indennità di fine rapporto."

Importante sottolineare che tale ultimo articolo si applica solamente a certe categorie di agenti di commercio, che sono stati considerati maggiormente meritevoli di tutela. L'art 23,2 della succitata legge n. 422 del 2000, che ha introdotto appunto il secondo comma dell'art. 1751bis c.c., ha previsto espressamente che l'articolo si applica:

"esclusivamente agli agenti che esercitano in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un solo socio, nonché, ove previsto da accordi economici nazionali di categoria, a società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali. Le disposizioni di cui al comma 1 acquistano efficacia dal 1o giugno 2001."

Pertanto il patto di non concorrenza postcontrattuale ha, in primo luogo, carattere oneroso, in secondo luogo, deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia (Trib. Firenze  20 novembre 2012) e, inoltre, deve assumere la forma scrita ad substantiam (Trib. Milano 12 settembre 2011).

Quanto alla quantificazione, è prevista per l'agente una indennità di natura non provvigionale, affidata alla contrattazione tra le parti, tenuto conto degli Accordi Economici Nazionali di categoria.

In difetto d'accordo individuale, e solo quando non siano applicabili gli AEC, l'art. 1751bis terzo comma, dispone che l'indennità è determinata dal giudice in via equitativa, con riferimento:

  1. alla media dei corrispettivi riscossi dall’agente in pendenza di contratto ed alla loro incidenza sul volume d’affari complessivo nello stesso periodo;
  2. alle cause di cessazione del contratto di agenzia;
  3. all’ampiezza della zona assegnata all’agente;
  4. all’esistenza o meno del vincolo di esclusiva per un solo preponente.

 

RIASSUMENDO

  • secondo il diritto italiano durante lo svolgimento del rapporto, il divieto di concorrenza è "effetto naturale del contratto"
  • il divieto di concorrenza "postcontrattuale" è stato introdotto nel nostro paese dell'art. 1751bis c.c.. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia, la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto e deve essere stipulato per iscritto
  • l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale
  • è prevista per l'agente una indennità di natura non provvigionale, affidata alla contrattazione tra le parti, tenuto conto degli Accordi Economici Nazionali di categoria
  • in difetto d'accordo individuale, e solo quando non siano applicabili gli AEC, l'art. 1751bis terzo comma, dispone che l'indennità è determinata dal giudice in via equitativa

 


esclusiva contratto di agenzia

L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia.

Il diritto di esclusiva costituisca sì un elemento “naturale” del contratto di agenzia, ma non rappresenti un elemento “essenziale”, i contraenti possono derogare a tale diritto, ovvero delimitarne contrattualmente l’esatta estensione.

Nel diritto italiano l’esclusiva dell’agente costituisce un elemento naturale del contratto: l’art. 1743 c.c., infatti, predispone che "il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività". Ciò comporta che, salvo pattuizione contraria delle parti, essa si presume sussistere nel rapporto contrattuale.

Tanto premesso, si rileva che, seppure il tema dell’”esclusiva” dell’agente sia di fondamentale importanza, il legislatore comunitario nella dir. 86/653/CCE si è limitato a disciplinare parzialmente tale istituto, ossia solamente con specifico riferimento alla provvigione spettante all’agente (cfr. art. 7 dir. 86/653/CEE).

Ne deriva che, contrariamente al diritto italiano, nella maggior parte dei paesi europei vige l’opposto principio, ossia che, in mancanza di pattuizione delle parti, l’agente non beneficerà dell’esclusiva di zona (cfr. agente di zona, nel diritto tedesco).

Pertanto, mentre in ambito europeo (in linea di massima), si considera che l’esclusiva di zona debba essere espressamente pattuita, in Italia l’esclusiva viene considerata come una caratteristica naturale del contratto e, pertanto, presente in ogni rapporto, a meno che le parti non abbiano stipulato diversamente (cfr. anche Agente e/o Area Manager? Una breve panoramica.)

Quanto alla funzione, l’esclusiva di zona, evidentemente, persegue il fine di tutelare l’agente e le sue prospettive di guadagno. Infatti, se in una stessa area il preponente potesse utilizzare più agenti, questi vedrebbero ridotte in modo significativo le proprie prospettive di profitto: gli agenti si troverebbero in concorrenza l’un l’altro e le provvigioni spettanti per gli affari conclusi da uno di essi non potrebbero essere riconosciute agli altri.

Ciò premesso, va tenuto sicuramente presente che, se da un lato l’art. 1743 c.c. ha il fine di proteggere l’agente da eventuali azioni dirette del preponente nella propria zona, dall’altro lato, l’art. 1748, 2 comma c.c., prevede che l’agente ha diritto alle provvigioni anche su affari conclusi con clienti “appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente”. Secondo tale norma, apparentemente, fatta salva una diversa pattuizione, viene dato per scontato che il preponente sia libero di effettuare ogni tipologia di vendita anche nelle zone che sono state concesse in esclusiva all'agente.

La giurisprudenza italiana, nel tentativo di superare tale apparente contraddizione, si è espressa più volte, asserendo che il diritto del preponente, ex art. 1748,2 c.c., di effettuare vendite dirette anche nel territorio dell’agente, debba essere parzialmente limitato, potendo tale diritto essere esercitato solo in via occasionale e dovendosi escludere che il preponente possa svolgere una sistematica ed organizzata attività di vendita nella zona di esclusiva dell'agente. Si legge ad esempio in una recente sentenza della Cassazione che:

in materia di rapporto di agenzia, il proponente non può operare, con continuità, nella zona di competenza dell'agente ma, ai sensi dell'art. 1748, secondo comma, cod. civ., ha solamente la facoltà di concludere, direttamente, singoli affari, anche se di rilevante entità, dal cui compimento sorge il diritto dell'agente medesimo a percepire le cosiddette provvigioni indirette; ne consegue che, ove l'intervento del proponente sia meramente isolato, il diritto al pagamento della provvigione ha, a sua volta, natura episodica e non periodica, e, come tale, è soggetto alla prescrizione ordinaria di cui all'art. 2946 cod. civ. e non alla prescrizione "breve" ex art. 2948, n. 4, cod. civ. (Cass. Civ. 2008, n. 15069).

Bisogna peraltro dire che è improbabile che una condotta del genere, caratterizzata da sistematicità si riscontri nella prassi, in quanto il preponente tendenzialmente non ha interesse a vendere direttamente, se poi deve comunque pagare la provvigione all’agente. Il produttore, in altre parole, svolgerebbe il medesimo lavoro dell’agente in sua sostituzione, ne reggerebbe i costi, senza trarne guadagno, dovendo in ogni caso riconoscere la provvigione a un agente inerte. È invece più probabile che il preponente, il quale sulla base di una nuova valutazione delle condizioni di mercato ritenga preferibile vendere direttamente al cliente finale, senza servirsi più dell’agente, si limiti a disdettare il contratto di agenzia.

Ciò nonostante, è comunque evidente che tale impostazione, secondo la quale, in assenza di una pattuizione contraria, il preponetene debba limitare la propria attività nel territorio dell’agente ad affari occasionali, possa dare svariate problematiche pratiche, collegate appunto a interpretare la distinzione, tutt’altro che chiara, tra violazioni occasionali, e pertanto legittime, da violazioni continuative dell’esclusiva.

A tal proposito si mette in luce un orientamento di autorevole dottrina (Bortolotti), secondo il quale debba ritenersi preferibile intendere l’esclusiva dell’art. 1743 c.c., nel senso che il preponente è libero di effettuare nella zona esclusiva dell’agente tutte le vendite dirette che vuole, purché paghi la provvigione indiretta, e che si ha, pertanto, violazione dell’esclusiva solo quanto il preponente nomini altri agenti nella zona o cerchi di aggirare l’esclusiva attraverso l’interposizione fittizia di terzi, per non pagare le provvigioni indirette.

Ad ogni modo, posto che il diritto di esclusiva costituisca sì un elemento “naturale” del contratto di agenzia, ma non rappresenti un elemento “essenziale”, i contraenti possono derogare a tale diritto, ovvero delimitarne contrattualmente l’esatta estensione.
Sulla base di quanto sopra esposto, si consiglia, onde evitare ogni incertezza e diminuire al massimo potenziali controversie, chiarire contrattualmente in che modo e in che misura il preponente possa effettuare le vendite dirette nel territorio e quali siano le conseguenze in caso di singole o ripetute violazioni contrattuali.


L'obbligo di iscrizione all'albo dell'agente di commercio.

Secondo ormai consolidata dottrina e giurisprudenza, sia italiana che della Corte di Giustizia europea, la mancata iscrizione al ruolo di un agente di commercio italiano, operante in Italia, non inficia la validità del contratto di agenzia.

Si può affermare che a tale conclusione la giurisprudenza italiana è arrivata dopo un non breve e lineare percorso. Tutto è partito dal fatto che l’art. 9 della legge 3 maggio 1985, n. 204, prevede espressamente  che “è fatto divieto a chi non è iscritto al ruolo di cui alla presente legge di esercitare l'attività di agente o rappresentante di commercio”.

La giurisprudenza italiana, fino all’entrata in vigore della normativa europea (86/653/CEE), ha fatto discendere dalla norma sopracitata il divieto assoluto di esercizio della professione da parte degli agenti non iscritti, con la conseguente nullità ex art. 1418 c.c. del rapporto contrattuale, per contrarietà a norme imperative. (ad es. Cass. Civ. n. 4154 del 1992).

A seguito dell’entrata in vigore della direttiva 86/653/CEE, il Tribunale di Bologna, in una vertenza in cui ad un agente non iscritto al ruolo era stata negato il diritto di percepire l’indennità di fine rapporto, prevista dall’art. 1751 c.c., a causa della nullità del relativo contratto, sottoponeva alla Corte di Giustizia il seguente quesito:

se la direttiva 86/653/CEE sia incompatibile con gli art. 2 e 9 della legge interna italiana n. 204 del 3 maggio 1985, che condizionano la validità dei contratti di agenzia all’iscrizione degli agenti di commercio in apposto albo”.

La Corte di giustizia, con sentenza del 30.4.1998, nel caso Barbara Bellone / Yokohama spa affermava quanto segue:

la direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in un apposito albo”.

Si rileva che, nonostante la Corte non abbia espressamente affrontato la questione della nullità dei contratti con gli agenti non iscritti al ruolo, questa abbia di fatto inteso affermare l’incompatibilità dell’art. 9 della legge del 1985, rispetto alla validità dei relativi contratti.

Si deve pertanto ritenere  che la direttiva ha efficacia diretta, con conseguente obbligo per i giudici nazionali di disapplicare la disposizione interna incompatibile. La Corte di Cassazione sul punto, ormai in maniera uniforme, ha più volte ritenuto

"la validità dei contratti di agenzia stipulati con agenti non iscritti all'albo sul rilievo che la norma che ne statuiva la nullità, art. legge n. 204 del 1985, essendo in contrasto con la direttiva comunitaria n. 653 del 1986, andava disapplicata. Tali principi, confortati dalla decisione della Corte di Giustizia dell'Unione europea del 30 aprile 1998 (resa nel procedimento C - 215 del 1997, Bellone e. Yokohama s.p.a.), ai sensi della quale deve ritenersi che "osta ad una normativa nazionale subordinare la validità di un contratto di agenzia all'iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo", vanno confermati, consegue che va rigettato il motivo.” (tra le varie, cfr. Cass. Civ. n. 18202 del 2005).

La giurisprudenza italiana ha pertanto interpretato tale norma, affermando che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le leggi interne quanto più possibile alla luce di tenore e finalità della direttiva 86/653/CEE, in modo da consentire un’applicazione conforme ai suoi obbiettivi.

Sulla base di tali orientamenti giurisprudenziali, il legislatore con il D. Lgs 26.03.2010, n. 59, l’ordinamento italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2006/123/CE, nota come “direttiva Servizi”. Tra gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva comunitaria, vi era quello di semplificazione delle modalità di accesso anche all'attività di agente di commercio. A tal fine, pertanto, l’art. 74 del D. lgs. 59/2010 ha espressamente disposto:

  • la soppressione, tra gli altri, del ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio (“RAR”), previsto dall'art. 2 della legge 204/1985;
  • l’assoggettamento dell’inizio dell’attività di agente commerciale alla DIA (Dichiarazione Inizio Attività) - ora SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) - corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti;
  • l’iscrizione dell’attività di agenti o rappresentanti di commercio nel RI (Registro delle Imprese) se l’attività è svolta in forma di impresa, ovvero in un’apposita sezione del REA (Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative).

L’effettiva soppressione del Ruolo è stata resa operativa dal 12 maggio 2012, a seguito dell'entrata in vigore del Decreto Ministeriale attuativo del 26.10.11.

Da tale data, pertanto, coloro che intendono iniziare l’attività di agenzia commerciale devono presentare all’ufficio del registro della Camera di Commercio della provincia dove esercitano l’attività, apposita SCIA, corredata delle certificazioni e delle dichiarazioni sostitutive previste dalla legge 204/1985, tramite la compilazione del modello “ARC” allegato al decreto attuativo.

Per i contratti di agenzia che sono stati stipulati anteriormente alla soppressione dell'albo, si deve quindi ritenere che il giudice italiano dovrà pertanto disapplicare la legislazione al tempo in vigore e si può concludere che, in seguito alla sentenza Bellone, i contratti con agenti che non erano iscritti all'albo devono considerarsi pienamente validi.

Da ultimo, bisogna da ultimo rimarcare il fatto che l’obbligo di iscrizione al ruolo da parte degli agenti (seppure questo sia stato di fatto derogato e non ha più una reale efficacia) sussisteva solamente per  gli agenti che esercitano in Italia e deve escludersi non solo per gli agenti residenti all'estero, ma anche per gli agenti italiani che di fatto operino e promuovano affari all'estero.

 


Le parti possono chiedere la prova per testimoni dell'esistenza di un contratto di agenzia?

Cosa succede se le parti non stipulano il contratto di agenzia per iscritto, ma solamente sulla base di accordi verbali? Le parti possono dimostrare l’esistenza del rapporto attraverso l’ausilio di testimoni?

Con riferimento a questi aspetti, l’art. 1742 c.c., secondo comma, dispone che “il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduce il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive”.

La Corte si è recentemente pronunciata in merito all’interpretazione di tale norma, consolidando quello che è l’orientamento della giurisprudenza, in base al quale il contratto di agenzia non può essere provato per testimoni, ma, appunto solamente per iscritto, salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento (Cass. Civ. n. 16/03/2015, n. 5165) (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale).

Seppure in prima analisi tale sentenza non sembra aggiungere molto a quanto già disposto dall’art. 1742 c.c., da una lettura più attenta del testo normativo, si rilevare che tale articolo possa dare adito ad interpretazioni contrastanti e generare problematiche piuttosto rilevanti. Nello specifico tale norma, da un lato impone alle parti l’onere di provare per iscritto il contratto di agenzia, escludendo implicitamente la prova per testimoni, ma, dall’altro lato, attribuisce alle stesse il diritto irrinunciabile di pretendere l’una dall’altra un documento scritto che recepisca il contenuto del loro accordo verbale.

È evidente che il coordinamento tra il requisito della forma scritta ed il diritto delle parti ad ottenere un documento che riproduca il contenuto dell’accordo contiene al suo interno delle incoerenze: si pensi al caso (piuttosto frequente) in cui le parti hanno stipulato verbalmente un contratto di agenzia e, nel corso del rapporto, il preponente si rifiuta di fornire all'agente un documento scritto che ne recepisca i contenuti.
In tale caso, potrà l’agente, al quale è attribuito un diritto irrinunciabile di ottenere che l’accordo verbale venga recepito in un documento scritto, di agire in giudizio per conseguire tale documento e, per dimostrare la sussistenza del rapporto contrattuale, chiedere la prova per testimoni?

Per rispondere a tale domanda, è necessario fare un piccolo passo indietro ed analizzare l’origine dell’attuale formulazione del testo normativo. L’articolo 1742 c.c., è stato così modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, che ha espressamente recepito la direttiva europea 86/653, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri, concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
La direttiva, nello specifico, ha introdotto due concetti fondamentali, ossia:

  • quello di attribuire a ciascuna parte il diritto di chiedere ed ottenere dall’altra un documento firmato, che riproduca il contenuto del contratto di agenzia (art. 13, §1);
  • quello di consentire agli Stati membri, se lo desiderano, di “prescrivere che un contratto di agenzia sia valido solo se documentato per iscritto.” (art. 13, §2)

La direttiva, introducendo tali principi generali, si è ispirata al modello tedesco, che al § 85HGB (Handelsgesetzbuch – codice del commercio), prevede (e prevedeva) esplicitamente la facoltà di ciascuna parte di “pretendere che, tanto il contenuto del contratto, quanto i successivi accordi relativi allo stesso, vengano inseriti in un documento firmato dalla controparte.”

È necessario specificare che tale documento redatto da una sola parte, non andrebbe a costituire un vero e proprio contratto, bensì una dichiarazione unilaterale con cui una parte indica quale sia, secondo essa, il contenuto del contratto. (cfr. Bortolotti, Contratto Manuale di Diritto Commerciale internazionale)

Pertanto, secondo quanto riferito dal testo normativo, le parti, che non hanno stipulato un contratto per iscritto, non possono provare in giudizio, tramite testimoni, il rapporto contrattuale ed eventuali variazioni di tale rapporto (ad es. aumenti di provvigioni, ampliamenti della zona) che sono stati concordati tra le parti verbalmente. Contrariamente, potranno provare solamente se vi siano delle “tracce scritte” che dimostrino l’effettivo accordo delle parti, come ad esempio degli scambi di mail e corrispondenza, delle conferma d’ordine da cui si possono presumere l’effettiva sussistenza di tali cambiamenti, etc..

Ad ogni modo, come si è detto, è espressamente prevista la possibilità (irrinunciabile!) della parte di chiedere che gli venga fornito un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto. Ma cosa succede se controparte si rifiuta, oppure non riconosca che tra loro siano intervenuti degli accordi verbali. In tale caso, la parte richiedente, potrebbe agire giudizialmente per chiedere che venga riconosciuto la sussistenza del rapporto e per fare ciò utilizzare dei testimoni?

Sulla base di quanto esposto, tale domanda non sembra essere più scontata e l’interpretazione della Corte di Cassazione, qui sopra esaminata, secondo la quale “il contratto di agenzia deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 1742, secondo comma, cod. civ., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, sicché è inammissibile la prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e quella per presunzioni”, può risultare in parte non condivisibile.

Secondo autorevole dottrina (Bortolotti), il diritto irrinunciabile della parte di potere ottenere un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto, mal si coniuga con una interpretazione restrittiva della norma, che andrebbe a vietare la possibilità di utilizzare la prova per testimoni per ottenere tale documento scritto.

Se si dovesse seguire tale interpretazione, non solo molto autorevole, ma altresì altamente coerente con quelle che sono le necessità pratiche delle parti e la prassi dei rapporti commerciali, la parte che desideri ottenere dall’altra un documento scritto che riproduca gli accordi verbali esistenti, potrà utilizzare la prova testimoniale nell’ambito del procedimento volto ad ottenere dall’altra parte il documento scritto. A seguito dell’ottenimento di tale documento, la parte potrà far valere, nel corso di una eventuale controversia, i propri diritti.

Tale orientamento si fonda principalmente sul fatto che, la scelta del legislatore di introdurre il requisito della forma scritta, è incompatibile con il diritto (irrinunciabile) delle parti di ottenere che l’accordo verbale venga recepito per iscritto.

Se così non si facesse, ci si troverebbe nella paradossale situazione, della parte di potere esercitare un proprio diritto irrinunciabile. Lo scopo della norma è quello di consentire ad una parte di ottenere un documento scritto che le facilita la tutela de suoi diritti e, quindi, pretendere la prova scritta degli accordi erbali di cui una parte chiede la formalizzazione costituirebbe un paradosso, che renderebbe quindi del tutto inefficacie la norma oggetto di esame.


Lo "star del credere" nel contratto di agenzia.

La cosiddetta clausola dello "star del credere"[1] può essere definita come una vera e propria garanzia, con la quale un soggetto assume in parte od integralmente il rischio del mancato pagamento di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.[2]

In tema di agenzia, l'utilizzabilità di tale clausola è di fatto venuta meno a seguito della riforma della Legge 21 dicembre 1999, n. 256, con la quale è stato modificato l'art. 1746 c.c.. Si ricorda che con la riforma, è stato inserito un terzo comma nell'art. 1746 c.c.. Detto comma ha introdotto un esplicito divieto di inserire nei contratti di agenzia una clausola che

"ponga a carico dell'agente una responsabilità, anche solo parziale, per l'inadempimento del terzo".

Ad ogni modo, la norma prevede espressamente la facoltà delle parti di derogare a tale divieto, ma solamente

"per singoli affari , di particolare natura ed importo, individualmente determinati".

La garanzia in tali casi però incontrerà il limite quantitativo imposto dallo stesso comma 3 dell'art. 1746 c.c., non potendo essere superiore alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire in relazione al medesimo affare.

In ambito Europeo, si rileva che, nonostante la sua rilevanza e le criticità ad esso collegate, la direttiva n. 86/653 CEE, ha trascurato di disciplinare tale istituto, che veniva (e viene tutt'oggi) disciplinato nei restanti paesi membri principalmente nei seguenti due modi:

  1. le parti possono concordare lo star del credere solamente per determinati affari o clienti, ma, in tali casi, l'agente garantisce al 100% il rischio del preponente (meccanismo seguito ad esempio da Germania, Fillandia e Portogallo);
  2. è previsto un generico obbligo di garanzia a carico dell'agente su tutti gli affari promossi dall'agente, ma di ammontare molto inferiore all'effettivo danno subito dal preponente (si pensi a Belgio e Paesi Bassi).

Prima della riforma del 1999, l'Italia rientrava anch'essa nella seconda tipologia: lo star del credere dell'agente di commercio, non era disciplinato specificamente nel codice civile, bensì era regolato come istituto eventuale e pattizio dagli Accordi Economici Collettivi. L'agente era tenuto allo star del credere esclusivamente per patto ed in ottemperanza alle norme degli Accordi Economici Collettivi aventi efficacia erga omnes (art. 7, a.e.c. 20 giugno 1956) secondo cui l'onere pattuito a carico dell'agente non poteva superare il 20% della perdita subita dal preponente, misura ridotta dagli accordi economici collettivi aventi validità di convenzione privatistica (9 giugno 1988, settore commercio e 16 novembre 1988, settore industria) nella misura del 15%.

La Corte di Cassazione, si è recentemente pronunciata su un giudizio promosso da un agente, volto ad ottenere il pagamento del corrispettivo per lo star del credere che era stato pattuito, in un rapporto contrattuale instaurato antecedentemente alla riforma dell’art. 1746 comma 3, avvenuta, appunto, alla fine del 1999.[3]

In tale sentenza la Corte compie una breve analisi dello sviluppo dell’istituto, ricordando che esso, già previsto dal codice di commercio, ha trovato ingresso nel codice civile all’art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione. L’art. 1736 c.c., infatti, dispone che il commissionario risponde nei confronti del committente dell’esecuzione dell’affare, avendo nel contempo un diritto ad uno speciale compenso o ad una maggiore commissione. In tale prospettiva il commissionario, in quanto mandatario del committente, per conto del quale agisce, si fa garante nei suoi confronti della solvibilità del terzo contraente.

La Corte, sostanzialmente, ha riconfermato l'orientamento espresso e ribadito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità,[4] secondo cui al contratto di agenzia (prima della riforma!) non poteva applicarsi in via analogica l'art. 1736, c.c. in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell'agente per lo star del credere era disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 1450/1961 (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore (qualora le parti vi abbiano aderito), che adottano il più ristretto limite del 15%.[5] Sulla base di tale ragionamento la  Corte ha affermato che:

"in mancanza di una esplicita pattuizione del compenso ed in assenza di prova di una volontà delle parti in tal senso, nessun compenso aggiuntivo è dovuto all'agente per la statuizione dello star del credere."

A seguito di tale intervento normativo, (dopo il 1999) l’utilizzabilità dello star del credere risulta di fatto molto meno rilevante nel nostro sistema. Le parti possono, infatti, pattuirlo solamente caso per caso e, inoltre, la garanzia dell'agente deve essere limitata ad un importo pari e non superiore alla sua provvigione.

In pratica, il legislatore ha in pratica applicato ed imposto i requisiti (sopra esaminati) di ambedue i sistemi utilizzati dagli Stati Membri e ha ristretto l'utilizzabilità di tale istituto in maniera tale da cancellarlo di fatto dal nostro sistema giuridico.

Da un lato lo star del credere, così disciplinato, non ha più la funzione di garantire il preponente per determinati affari che ritiene essere rischiosi (la garanzia non è del 100%, ma è solamente pari alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire per quel determinato affare), dall'altro non può essere utilizzato per responsabilizzare l'agente, in quanto non può operare riguardo a tutti gli affari promossi dall'agente stesso, ma solo in singoli casi in cui il preponente ha il sospetto che il cliente sia poco affidabile.

Tale scelta di fatto costituisce una grave svantaggio per il preponente italiano che intenda accedere a nuovi mercati e sottoporre la propria legge ad agenti stranieri. Lo star del credere, infatti, dovrebbe essere visto come tutela per il preponente, soprattutto quando questi si relazioni con agenti in mercati esteri, per i quali lo star del credere dovrebbe essere mezzo fortemente necessario, considerando la maggiore difficoltà per il preponente, di ottenere informazioni sull'affidabilità e la solvibilità di clienti stranieri, procacciati dall'agente.

____________________________

[1] Il termine “star del credere” viene normato all’art. 1736 c.c., in tema di commissione, che prevede: “Il commissionario che, in virtù di patto o di uso, è tenuto allo "star del credere" risponde nei confronti del committente per l'esecuzione dell'affare. In tal caso ha diritto, oltre che alla provvigione, a un compenso o a una maggiore provvigione, la quale, in mancanza di patto, si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l'affare. In mancanza di usi, provvede il giudice secondo equità.” Attraverso tale clausola il commissario assume il ruolo di un fideiussore ex art. 1936 del terzo con cui contrare, garantendo al committente il regolare adempimento dell’obbligazione del terzo ed il buon esisto dell’affare.

[2] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolters Kluwer, pag. 241.

[3] Cass. Civ. 2015, n. 4461.

[4] Cfr., ad es., Corte di Cass. Civ. n. 1999, n. 12879.

[5] Cass. Civ. 1999, n. 3902/99


Il potere del preponente di modificare il portafoglio clienti del proprio agente

[:it]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e preponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88% (sul punto cfr. anche Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente).

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:de]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:en]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:]