L'obbligo di non concorrenza nel contratto di agenzia: durante e a seguito della cessazione del rapporto.

In ambito europeo, stupisce sicuramente il fatto che la direttiva 86/653/CEE non accenni minimamente all'obbligo dell'agente di non operare in concorrenza con il preponente, nel corso del rapporto contrattuale.

Tale impostazione ha portato la maggior parte dei Paesi Membri a non menzionare, regolamentare ed espressamente, tale istituto nei propri ordinamenti. Pertanto, in ambito europeo non deve assolutamente darsi per scontato che l'agente, in caso di mancanza di apposito patto stipulato contrattualmente tra le parti, sia obbligato a non prestare, nel corso del rapporto contrattuale, la propria opera a favore di concorrenti del preponente.

Contrariamente, secondo il diritto italiano durante lo svolgimento del rapporto, il divieto di concorrenza è "effetto naturale del contratto": questo, seppure non vi sia una norma specifica che lo preveda, come ad esempio l'art. 2015 c.c. per il lavoratore subordinato,  si desume indirettamente dal primo comma dell'art. 1746 c.c., in base al quale l'agente deve tutelare gli interessi del preponente ed agire con lealtà e buona fede.

Quanto al periodo successivo alla cessazione del contratto, ossia il cosiddetto divieto di concorrenza "postcontrattuale", esso è stato in parte regolato dalla direttiva, che ha dettato le tutele minime che devono essere rispettate da tutti i paesi firmatari. Esse sono:

  • che venga stipulato per iscritto;
  • che riguardi il settore geografico o il gruppo di persone e il settore geografico affidati all'agente commerciale, nonché le merci di cui l'agente commerciale aveva la rappresentanza ai sensi del contratto, e l'agente commerciale aveva la rappresentanza ai sensi del contratto.
  • che sia di durata non superiore a due anni dalla del rapporto contrattuale

La direttiva ha pertanto disposto che il patto di non concorrenza postcontrattuale è ammesso solo in specifico accordo delle parti e comunque entro determinati limiti legali. Infatti, un obbligo di tale natura, che ha sicuramente l'utilità di fare in modo che il preponente possa mantenere la clientela che era gestita dall'agente prima della conclusione del rapporto, ha comunque come risvolto quello di potere di fatto rendere impossibile per l'agente di svolgere la propria attività e per tale motivo è stato espressamente limitato dalla direttiva europea, in modo da garantire gli interessi di entrambe le parti.

Il divieto di concorrenza "postcontrattuale"  è stato introdotto nel nostro paese dell'art. 1751bis c.c., con il decreto 303 del 1991. Nello specifico il primo comma dell'art. 1751bis dispone che:

"Il patto che limita la concorrenza da parte dell’agente dopo lo scioglimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto."

Il secondo comma dell'art. 1751bis c.c., è stato inserito dalla legge n. 422 del 2000, e stabilisce che:

"l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale. L’indennità va commisurata alla durata, non superiore a due anni dopo l’estinzione del contratto, alla natura del contratto di agenzia e all’indennità di fine rapporto."

Importante sottolineare che tale ultimo articolo si applica solamente a certe categorie di agenti di commercio, che sono stati considerati maggiormente meritevoli di tutela. L'art 23,2 della succitata legge n. 422 del 2000, che ha introdotto appunto il secondo comma dell'art. 1751bis c.c., ha previsto espressamente che l'articolo si applica:

"esclusivamente agli agenti che esercitano in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un solo socio, nonché, ove previsto da accordi economici nazionali di categoria, a società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali. Le disposizioni di cui al comma 1 acquistano efficacia dal 1o giugno 2001."

Pertanto il patto di non concorrenza postcontrattuale ha, in primo luogo, carattere oneroso, in secondo luogo, deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia (Trib. Firenze  20 novembre 2012) e, inoltre, deve assumere la forma scrita ad substantiam (Trib. Milano 12 settembre 2011).

Quanto alla quantificazione, è prevista per l'agente una indennità di natura non provvigionale, affidata alla contrattazione tra le parti, tenuto conto degli Accordi Economici Nazionali di categoria.

In difetto d'accordo individuale, e solo quando non siano applicabili gli AEC, l'art. 1751bis terzo comma, dispone che l'indennità è determinata dal giudice in via equitativa, con riferimento:

  1. alla media dei corrispettivi riscossi dall’agente in pendenza di contratto ed alla loro incidenza sul volume d’affari complessivo nello stesso periodo;
  2. alle cause di cessazione del contratto di agenzia;
  3. all’ampiezza della zona assegnata all’agente;
  4. all’esistenza o meno del vincolo di esclusiva per un solo preponente.

 

RIASSUMENDO

  • secondo il diritto italiano durante lo svolgimento del rapporto, il divieto di concorrenza è "effetto naturale del contratto"
  • il divieto di concorrenza "postcontrattuale" è stato introdotto nel nostro paese dell'art. 1751bis c.c.. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia, la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto e deve essere stipulato per iscritto
  • l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente commerciale di una indennità di natura non provvigionale
  • è prevista per l'agente una indennità di natura non provvigionale, affidata alla contrattazione tra le parti, tenuto conto degli Accordi Economici Nazionali di categoria
  • in difetto d'accordo individuale, e solo quando non siano applicabili gli AEC, l'art. 1751bis terzo comma, dispone che l'indennità è determinata dal giudice in via equitativa

 


esclusiva contratto di agenzia

L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia.

Il diritto di esclusiva costituisca sì un elemento “naturale” del contratto di agenzia, ma non rappresenti un elemento “essenziale”, i contraenti possono derogare a tale diritto, ovvero delimitarne contrattualmente l’esatta estensione.

Nel diritto italiano l’esclusiva dell’agente costituisce un elemento naturale del contratto: l’art. 1743 c.c., infatti, predispone che "il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività". Ciò comporta che, salvo pattuizione contraria delle parti, essa si presume sussistere nel rapporto contrattuale.

Tanto premesso, si rileva che, seppure il tema dell’”esclusiva” dell’agente sia di fondamentale importanza, il legislatore comunitario nella dir. 86/653/CCE si è limitato a disciplinare parzialmente tale istituto, ossia solamente con specifico riferimento alla provvigione spettante all’agente (cfr. art. 7 dir. 86/653/CEE).

Ne deriva che, contrariamente al diritto italiano, nella maggior parte dei paesi europei vige l’opposto principio, ossia che, in mancanza di pattuizione delle parti, l’agente non beneficerà dell’esclusiva di zona (cfr. agente di zona, nel diritto tedesco).

Pertanto, mentre in ambito europeo (in linea di massima), si considera che l’esclusiva di zona debba essere espressamente pattuita, in Italia l’esclusiva viene considerata come una caratteristica naturale del contratto e, pertanto, presente in ogni rapporto, a meno che le parti non abbiano stipulato diversamente (cfr. anche Agente e/o Area Manager? Una breve panoramica.)

Quanto alla funzione, l’esclusiva di zona, evidentemente, persegue il fine di tutelare l’agente e le sue prospettive di guadagno. Infatti, se in una stessa area il preponente potesse utilizzare più agenti, questi vedrebbero ridotte in modo significativo le proprie prospettive di profitto: gli agenti si troverebbero in concorrenza l’un l’altro e le provvigioni spettanti per gli affari conclusi da uno di essi non potrebbero essere riconosciute agli altri.

Ciò premesso, va tenuto sicuramente presente che, se da un lato l’art. 1743 c.c. ha il fine di proteggere l’agente da eventuali azioni dirette del preponente nella propria zona, dall’altro lato, l’art. 1748, 2 comma c.c., prevede che l’agente ha diritto alle provvigioni anche su affari conclusi con clienti “appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente”. Secondo tale norma, apparentemente, fatta salva una diversa pattuizione, viene dato per scontato che il preponente sia libero di effettuare ogni tipologia di vendita anche nelle zone che sono state concesse in esclusiva all'agente.

La giurisprudenza italiana, nel tentativo di superare tale apparente contraddizione, si è espressa più volte, asserendo che il diritto del preponente, ex art. 1748,2 c.c., di effettuare vendite dirette anche nel territorio dell’agente, debba essere parzialmente limitato, potendo tale diritto essere esercitato solo in via occasionale e dovendosi escludere che il preponente possa svolgere una sistematica ed organizzata attività di vendita nella zona di esclusiva dell'agente. Si legge ad esempio in una recente sentenza della Cassazione che:

in materia di rapporto di agenzia, il proponente non può operare, con continuità, nella zona di competenza dell'agente ma, ai sensi dell'art. 1748, secondo comma, cod. civ., ha solamente la facoltà di concludere, direttamente, singoli affari, anche se di rilevante entità, dal cui compimento sorge il diritto dell'agente medesimo a percepire le cosiddette provvigioni indirette; ne consegue che, ove l'intervento del proponente sia meramente isolato, il diritto al pagamento della provvigione ha, a sua volta, natura episodica e non periodica, e, come tale, è soggetto alla prescrizione ordinaria di cui all'art. 2946 cod. civ. e non alla prescrizione "breve" ex art. 2948, n. 4, cod. civ. (Cass. Civ. 2008, n. 15069).

Bisogna peraltro dire che è improbabile che una condotta del genere, caratterizzata da sistematicità si riscontri nella prassi, in quanto il preponente tendenzialmente non ha interesse a vendere direttamente, se poi deve comunque pagare la provvigione all’agente. Il produttore, in altre parole, svolgerebbe il medesimo lavoro dell’agente in sua sostituzione, ne reggerebbe i costi, senza trarne guadagno, dovendo in ogni caso riconoscere la provvigione a un agente inerte. È invece più probabile che il preponente, il quale sulla base di una nuova valutazione delle condizioni di mercato ritenga preferibile vendere direttamente al cliente finale, senza servirsi più dell’agente, si limiti a disdettare il contratto di agenzia.

Ciò nonostante, è comunque evidente che tale impostazione, secondo la quale, in assenza di una pattuizione contraria, il preponetene debba limitare la propria attività nel territorio dell’agente ad affari occasionali, possa dare svariate problematiche pratiche, collegate appunto a interpretare la distinzione, tutt’altro che chiara, tra violazioni occasionali, e pertanto legittime, da violazioni continuative dell’esclusiva.

A tal proposito si mette in luce un orientamento di autorevole dottrina (Bortolotti), secondo il quale debba ritenersi preferibile intendere l’esclusiva dell’art. 1743 c.c., nel senso che il preponente è libero di effettuare nella zona esclusiva dell’agente tutte le vendite dirette che vuole, purché paghi la provvigione indiretta, e che si ha, pertanto, violazione dell’esclusiva solo quanto il preponente nomini altri agenti nella zona o cerchi di aggirare l’esclusiva attraverso l’interposizione fittizia di terzi, per non pagare le provvigioni indirette.

Ad ogni modo, posto che il diritto di esclusiva costituisca sì un elemento “naturale” del contratto di agenzia, ma non rappresenti un elemento “essenziale”, i contraenti possono derogare a tale diritto, ovvero delimitarne contrattualmente l’esatta estensione.
Sulla base di quanto sopra esposto, si consiglia, onde evitare ogni incertezza e diminuire al massimo potenziali controversie, chiarire contrattualmente in che modo e in che misura il preponente possa effettuare le vendite dirette nel territorio e quali siano le conseguenze in caso di singole o ripetute violazioni contrattuali.


L'obbligo di iscrizione all'albo dell'agente di commercio.

Secondo ormai consolidata dottrina e giurisprudenza, sia italiana che della Corte di Giustizia europea, la mancata iscrizione al ruolo di un agente di commercio italiano, operante in Italia, non inficia la validità del contratto di agenzia.

Si può affermare che a tale conclusione la giurisprudenza italiana è arrivata dopo un non breve e lineare percorso. Tutto è partito dal fatto che l’art. 9 della legge 3 maggio 1985, n. 204, prevede espressamente  che “è fatto divieto a chi non è iscritto al ruolo di cui alla presente legge di esercitare l'attività di agente o rappresentante di commercio”.

La giurisprudenza italiana, fino all’entrata in vigore della normativa europea (86/653/CEE), ha fatto discendere dalla norma sopracitata il divieto assoluto di esercizio della professione da parte degli agenti non iscritti, con la conseguente nullità ex art. 1418 c.c. del rapporto contrattuale, per contrarietà a norme imperative. (ad es. Cass. Civ. n. 4154 del 1992).

A seguito dell’entrata in vigore della direttiva 86/653/CEE, il Tribunale di Bologna, in una vertenza in cui ad un agente non iscritto al ruolo era stata negato il diritto di percepire l’indennità di fine rapporto, prevista dall’art. 1751 c.c., a causa della nullità del relativo contratto, sottoponeva alla Corte di Giustizia il seguente quesito:

se la direttiva 86/653/CEE sia incompatibile con gli art. 2 e 9 della legge interna italiana n. 204 del 3 maggio 1985, che condizionano la validità dei contratti di agenzia all’iscrizione degli agenti di commercio in apposto albo”.

La Corte di giustizia, con sentenza del 30.4.1998, nel caso Barbara Bellone / Yokohama spa affermava quanto segue:

la direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in un apposito albo”.

Si rileva che, nonostante la Corte non abbia espressamente affrontato la questione della nullità dei contratti con gli agenti non iscritti al ruolo, questa abbia di fatto inteso affermare l’incompatibilità dell’art. 9 della legge del 1985, rispetto alla validità dei relativi contratti.

Si deve pertanto ritenere  che la direttiva ha efficacia diretta, con conseguente obbligo per i giudici nazionali di disapplicare la disposizione interna incompatibile. La Corte di Cassazione sul punto, ormai in maniera uniforme, ha più volte ritenuto

"la validità dei contratti di agenzia stipulati con agenti non iscritti all'albo sul rilievo che la norma che ne statuiva la nullità, art. legge n. 204 del 1985, essendo in contrasto con la direttiva comunitaria n. 653 del 1986, andava disapplicata. Tali principi, confortati dalla decisione della Corte di Giustizia dell'Unione europea del 30 aprile 1998 (resa nel procedimento C - 215 del 1997, Bellone e. Yokohama s.p.a.), ai sensi della quale deve ritenersi che "osta ad una normativa nazionale subordinare la validità di un contratto di agenzia all'iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo", vanno confermati, consegue che va rigettato il motivo.” (tra le varie, cfr. Cass. Civ. n. 18202 del 2005).

La giurisprudenza italiana ha pertanto interpretato tale norma, affermando che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le leggi interne quanto più possibile alla luce di tenore e finalità della direttiva 86/653/CEE, in modo da consentire un’applicazione conforme ai suoi obbiettivi.

Sulla base di tali orientamenti giurisprudenziali, il legislatore con il D. Lgs 26.03.2010, n. 59, l’ordinamento italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2006/123/CE, nota come “direttiva Servizi”. Tra gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva comunitaria, vi era quello di semplificazione delle modalità di accesso anche all'attività di agente di commercio. A tal fine, pertanto, l’art. 74 del D. lgs. 59/2010 ha espressamente disposto:

  • la soppressione, tra gli altri, del ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio (“RAR”), previsto dall'art. 2 della legge 204/1985;
  • l’assoggettamento dell’inizio dell’attività di agente commerciale alla DIA (Dichiarazione Inizio Attività) - ora SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) - corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti;
  • l’iscrizione dell’attività di agenti o rappresentanti di commercio nel RI (Registro delle Imprese) se l’attività è svolta in forma di impresa, ovvero in un’apposita sezione del REA (Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative).

L’effettiva soppressione del Ruolo è stata resa operativa dal 12 maggio 2012, a seguito dell'entrata in vigore del Decreto Ministeriale attuativo del 26.10.11.

Da tale data, pertanto, coloro che intendono iniziare l’attività di agenzia commerciale devono presentare all’ufficio del registro della Camera di Commercio della provincia dove esercitano l’attività, apposita SCIA, corredata delle certificazioni e delle dichiarazioni sostitutive previste dalla legge 204/1985, tramite la compilazione del modello “ARC” allegato al decreto attuativo.

Per i contratti di agenzia che sono stati stipulati anteriormente alla soppressione dell'albo, si deve quindi ritenere che il giudice italiano dovrà pertanto disapplicare la legislazione al tempo in vigore e si può concludere che, in seguito alla sentenza Bellone, i contratti con agenti che non erano iscritti all'albo devono considerarsi pienamente validi.

Da ultimo, bisogna da ultimo rimarcare il fatto che l’obbligo di iscrizione al ruolo da parte degli agenti (seppure questo sia stato di fatto derogato e non ha più una reale efficacia) sussisteva solamente per  gli agenti che esercitano in Italia e deve escludersi non solo per gli agenti residenti all'estero, ma anche per gli agenti italiani che di fatto operino e promuovano affari all'estero.

 


Le parti possono chiedere la prova per testimoni dell'esistenza di un contratto di agenzia?

Cosa succede se le parti non stipulano il contratto di agenzia per iscritto, ma solamente sulla base di accordi verbali? Le parti possono dimostrare l’esistenza del rapporto attraverso l’ausilio di testimoni?

Con riferimento a questi aspetti, l’art. 1742 c.c., secondo comma, dispone che “il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduce il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive”.

La Corte si è recentemente pronunciata in merito all’interpretazione di tale norma, consolidando quello che è l’orientamento della giurisprudenza, in base al quale il contratto di agenzia non può essere provato per testimoni, ma, appunto solamente per iscritto, salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento (Cass. Civ. n. 16/03/2015, n. 5165) (cfr. anche Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale).

Seppure in prima analisi tale sentenza non sembra aggiungere molto a quanto già disposto dall’art. 1742 c.c., da una lettura più attenta del testo normativo, si rilevare che tale articolo possa dare adito ad interpretazioni contrastanti e generare problematiche piuttosto rilevanti. Nello specifico tale norma, da un lato impone alle parti l’onere di provare per iscritto il contratto di agenzia, escludendo implicitamente la prova per testimoni, ma, dall’altro lato, attribuisce alle stesse il diritto irrinunciabile di pretendere l’una dall’altra un documento scritto che recepisca il contenuto del loro accordo verbale.

È evidente che il coordinamento tra il requisito della forma scritta ed il diritto delle parti ad ottenere un documento che riproduca il contenuto dell’accordo contiene al suo interno delle incoerenze: si pensi al caso (piuttosto frequente) in cui le parti hanno stipulato verbalmente un contratto di agenzia e, nel corso del rapporto, il preponente si rifiuta di fornire all'agente un documento scritto che ne recepisca i contenuti.
In tale caso, potrà l’agente, al quale è attribuito un diritto irrinunciabile di ottenere che l’accordo verbale venga recepito in un documento scritto, di agire in giudizio per conseguire tale documento e, per dimostrare la sussistenza del rapporto contrattuale, chiedere la prova per testimoni?

Per rispondere a tale domanda, è necessario fare un piccolo passo indietro ed analizzare l’origine dell’attuale formulazione del testo normativo. L’articolo 1742 c.c., è stato così modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, che ha espressamente recepito la direttiva europea 86/653, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri, concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
La direttiva, nello specifico, ha introdotto due concetti fondamentali, ossia:

  • quello di attribuire a ciascuna parte il diritto di chiedere ed ottenere dall’altra un documento firmato, che riproduca il contenuto del contratto di agenzia (art. 13, §1);
  • quello di consentire agli Stati membri, se lo desiderano, di “prescrivere che un contratto di agenzia sia valido solo se documentato per iscritto.” (art. 13, §2)

La direttiva, introducendo tali principi generali, si è ispirata al modello tedesco, che al § 85HGB (Handelsgesetzbuch – codice del commercio), prevede (e prevedeva) esplicitamente la facoltà di ciascuna parte di “pretendere che, tanto il contenuto del contratto, quanto i successivi accordi relativi allo stesso, vengano inseriti in un documento firmato dalla controparte.”

È necessario specificare che tale documento redatto da una sola parte, non andrebbe a costituire un vero e proprio contratto, bensì una dichiarazione unilaterale con cui una parte indica quale sia, secondo essa, il contenuto del contratto. (cfr. Bortolotti, Contratto Manuale di Diritto Commerciale internazionale)

Pertanto, secondo quanto riferito dal testo normativo, le parti, che non hanno stipulato un contratto per iscritto, non possono provare in giudizio, tramite testimoni, il rapporto contrattuale ed eventuali variazioni di tale rapporto (ad es. aumenti di provvigioni, ampliamenti della zona) che sono stati concordati tra le parti verbalmente. Contrariamente, potranno provare solamente se vi siano delle “tracce scritte” che dimostrino l’effettivo accordo delle parti, come ad esempio degli scambi di mail e corrispondenza, delle conferma d’ordine da cui si possono presumere l’effettiva sussistenza di tali cambiamenti, etc..

Ad ogni modo, come si è detto, è espressamente prevista la possibilità (irrinunciabile!) della parte di chiedere che gli venga fornito un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto. Ma cosa succede se controparte si rifiuta, oppure non riconosca che tra loro siano intervenuti degli accordi verbali. In tale caso, la parte richiedente, potrebbe agire giudizialmente per chiedere che venga riconosciuto la sussistenza del rapporto e per fare ciò utilizzare dei testimoni?

Sulla base di quanto esposto, tale domanda non sembra essere più scontata e l’interpretazione della Corte di Cassazione, qui sopra esaminata, secondo la quale “il contratto di agenzia deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 1742, secondo comma, cod. civ., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, sicché è inammissibile la prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e quella per presunzioni”, può risultare in parte non condivisibile.

Secondo autorevole dottrina (Bortolotti), il diritto irrinunciabile della parte di potere ottenere un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto, mal si coniuga con una interpretazione restrittiva della norma, che andrebbe a vietare la possibilità di utilizzare la prova per testimoni per ottenere tale documento scritto.

Se si dovesse seguire tale interpretazione, non solo molto autorevole, ma altresì altamente coerente con quelle che sono le necessità pratiche delle parti e la prassi dei rapporti commerciali, la parte che desideri ottenere dall’altra un documento scritto che riproduca gli accordi verbali esistenti, potrà utilizzare la prova testimoniale nell’ambito del procedimento volto ad ottenere dall’altra parte il documento scritto. A seguito dell’ottenimento di tale documento, la parte potrà far valere, nel corso di una eventuale controversia, i propri diritti.

Tale orientamento si fonda principalmente sul fatto che, la scelta del legislatore di introdurre il requisito della forma scritta, è incompatibile con il diritto (irrinunciabile) delle parti di ottenere che l’accordo verbale venga recepito per iscritto.

Se così non si facesse, ci si troverebbe nella paradossale situazione, della parte di potere esercitare un proprio diritto irrinunciabile. Lo scopo della norma è quello di consentire ad una parte di ottenere un documento scritto che le facilita la tutela de suoi diritti e, quindi, pretendere la prova scritta degli accordi erbali di cui una parte chiede la formalizzazione costituirebbe un paradosso, che renderebbe quindi del tutto inefficacie la norma oggetto di esame.


Lo "star del credere" nel contratto di agenzia.

La cosiddetta clausola dello "star del credere"[1] può essere definita come una vera e propria garanzia, con la quale un soggetto assume in parte od integralmente il rischio del mancato pagamento di un terzo da lui introdotto, impegnandosi a rimborsare al preponente, entro i limiti pattuiti, la perdita da questi subita.[2]

In tema di agenzia, l'utilizzabilità di tale clausola è di fatto venuta meno a seguito della riforma della Legge 21 dicembre 1999, n. 256, con la quale è stato modificato l'art. 1746 c.c.. Si ricorda che con la riforma, è stato inserito un terzo comma nell'art. 1746 c.c.. Detto comma ha introdotto un esplicito divieto di inserire nei contratti di agenzia una clausola che

"ponga a carico dell'agente una responsabilità, anche solo parziale, per l'inadempimento del terzo".

Ad ogni modo, la norma prevede espressamente la facoltà delle parti di derogare a tale divieto, ma solamente

"per singoli affari , di particolare natura ed importo, individualmente determinati".

La garanzia in tali casi però incontrerà il limite quantitativo imposto dallo stesso comma 3 dell'art. 1746 c.c., non potendo essere superiore alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire in relazione al medesimo affare.

In ambito Europeo, si rileva che, nonostante la sua rilevanza e le criticità ad esso collegate, la direttiva n. 86/653 CEE, ha trascurato di disciplinare tale istituto, che veniva (e viene tutt'oggi) disciplinato nei restanti paesi membri principalmente nei seguenti due modi:

  1. le parti possono concordare lo star del credere solamente per determinati affari o clienti, ma, in tali casi, l'agente garantisce al 100% il rischio del preponente (meccanismo seguito ad esempio da Germania, Fillandia e Portogallo);
  2. è previsto un generico obbligo di garanzia a carico dell'agente su tutti gli affari promossi dall'agente, ma di ammontare molto inferiore all'effettivo danno subito dal preponente (si pensi a Belgio e Paesi Bassi).

Prima della riforma del 1999, l'Italia rientrava anch'essa nella seconda tipologia: lo star del credere dell'agente di commercio, non era disciplinato specificamente nel codice civile, bensì era regolato come istituto eventuale e pattizio dagli Accordi Economici Collettivi. L'agente era tenuto allo star del credere esclusivamente per patto ed in ottemperanza alle norme degli Accordi Economici Collettivi aventi efficacia erga omnes (art. 7, a.e.c. 20 giugno 1956) secondo cui l'onere pattuito a carico dell'agente non poteva superare il 20% della perdita subita dal preponente, misura ridotta dagli accordi economici collettivi aventi validità di convenzione privatistica (9 giugno 1988, settore commercio e 16 novembre 1988, settore industria) nella misura del 15%.

La Corte di Cassazione, si è recentemente pronunciata su un giudizio promosso da un agente, volto ad ottenere il pagamento del corrispettivo per lo star del credere che era stato pattuito, in un rapporto contrattuale instaurato antecedentemente alla riforma dell’art. 1746 comma 3, avvenuta, appunto, alla fine del 1999.[3]

In tale sentenza la Corte compie una breve analisi dello sviluppo dell’istituto, ricordando che esso, già previsto dal codice di commercio, ha trovato ingresso nel codice civile all’art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione. L’art. 1736 c.c., infatti, dispone che il commissionario risponde nei confronti del committente dell’esecuzione dell’affare, avendo nel contempo un diritto ad uno speciale compenso o ad una maggiore commissione. In tale prospettiva il commissionario, in quanto mandatario del committente, per conto del quale agisce, si fa garante nei suoi confronti della solvibilità del terzo contraente.

La Corte, sostanzialmente, ha riconfermato l'orientamento espresso e ribadito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità,[4] secondo cui al contratto di agenzia (prima della riforma!) non poteva applicarsi in via analogica l'art. 1736, c.c. in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell'agente per lo star del credere era disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 1450/1961 (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore (qualora le parti vi abbiano aderito), che adottano il più ristretto limite del 15%.[5] Sulla base di tale ragionamento la  Corte ha affermato che:

"in mancanza di una esplicita pattuizione del compenso ed in assenza di prova di una volontà delle parti in tal senso, nessun compenso aggiuntivo è dovuto all'agente per la statuizione dello star del credere."

A seguito di tale intervento normativo, (dopo il 1999) l’utilizzabilità dello star del credere risulta di fatto molto meno rilevante nel nostro sistema. Le parti possono, infatti, pattuirlo solamente caso per caso e, inoltre, la garanzia dell'agente deve essere limitata ad un importo pari e non superiore alla sua provvigione.

In pratica, il legislatore ha in pratica applicato ed imposto i requisiti (sopra esaminati) di ambedue i sistemi utilizzati dagli Stati Membri e ha ristretto l'utilizzabilità di tale istituto in maniera tale da cancellarlo di fatto dal nostro sistema giuridico.

Da un lato lo star del credere, così disciplinato, non ha più la funzione di garantire il preponente per determinati affari che ritiene essere rischiosi (la garanzia non è del 100%, ma è solamente pari alla provvigione che l'agente avrebbe diritto a percepire per quel determinato affare), dall'altro non può essere utilizzato per responsabilizzare l'agente, in quanto non può operare riguardo a tutti gli affari promossi dall'agente stesso, ma solo in singoli casi in cui il preponente ha il sospetto che il cliente sia poco affidabile.

Tale scelta di fatto costituisce una grave svantaggio per il preponente italiano che intenda accedere a nuovi mercati e sottoporre la propria legge ad agenti stranieri. Lo star del credere, infatti, dovrebbe essere visto come tutela per il preponente, soprattutto quando questi si relazioni con agenti in mercati esteri, per i quali lo star del credere dovrebbe essere mezzo fortemente necessario, considerando la maggiore difficoltà per il preponente, di ottenere informazioni sull'affidabilità e la solvibilità di clienti stranieri, procacciati dall'agente.

____________________________

[1] Il termine “star del credere” viene normato all’art. 1736 c.c., in tema di commissione, che prevede: “Il commissionario che, in virtù di patto o di uso, è tenuto allo "star del credere" risponde nei confronti del committente per l'esecuzione dell'affare. In tal caso ha diritto, oltre che alla provvigione, a un compenso o a una maggiore provvigione, la quale, in mancanza di patto, si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l'affare. In mancanza di usi, provvede il giudice secondo equità.” Attraverso tale clausola il commissario assume il ruolo di un fideiussore ex art. 1936 del terzo con cui contrare, garantendo al committente il regolare adempimento dell’obbligazione del terzo ed il buon esisto dell’affare.

[2] Cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, Wolters Kluwer, pag. 241.

[3] Cass. Civ. 2015, n. 4461.

[4] Cfr., ad es., Corte di Cass. Civ. n. 1999, n. 12879.

[5] Cass. Civ. 1999, n. 3902/99


Il potere del preponente di modificare il portafoglio clienti del proprio agente

[:it]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e preponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88% (sul punto cfr. anche Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente).

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:de]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:en]Con sentenza del 2 luglio 2015, n. 13580, la Corte di Cassazione si è espressa su un punto molto spesso oggetto di controversie nei rapporti contrattuali tra agente e proponente. Il caso è stato il seguente: un preponente, al quale era stato attribuito il potere di modificare, nel corso del rapporto contrattuale, il portafoglio clienti del proprio agente, ha utilizzato tale clausola, per effettuare una drastica riduzione del portafoglio clienti dell’agente stesso, pari, appunto, al 88%.

La Corte, che è stata interrogata sulla legittimità di tale comportamento, ha rilevato che, seppure al preponente venga genericamente attribuito il potere di ridurre il pacchetto clienti del proprio agente, tale facoltà dovrebbe, comunque, essere esercitata principalmente con lo scopo di adeguare il contratto all’effettiva evoluzione che il rapporto ha nel corso del tempo. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, tale potere deve comunque essere sottoposto a dei limiti ed essere esercitato dal titolare con correttezza e buona fede.

Il ricorso è stato fondato essenzialmente sulla denuncia di violazione e/o falsa applicazione, da parte del preponente, dell’art. 2 A.E.C. 2002 (accordi economici collettivi) e dell’art. 2697 c.c. I commi 3,4 e 5 (che qui interessano) dell’art. 2 A.E.C. 2002 così recitano:

"Le variazioni di zona (territorio, clientela, prodotti) e della misura delle provvigioni, esclusi i casi di lieve entità (intendendosi per lieve entità le riduzioni, che incidano fino al cinque per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente o rappresentante nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), possono essere realizzate previa comunicazione scritta all'agente o al rappresentante da darsi almeno due mesi prima (ovvero quattro mesi prima per gli agenti e rappresentanti impegnati ad esercitare la propria attività esclusivamente per una sola ditta), salvo accordo scritto tra le parti per una diversa decorrenza.

Qualora queste variazioni siano di entità tale da modificare sensibilmente il contenuto economico del rapporto (intendendosi per variazione sensibile le riduzioni superiori al venti per cento del valore delle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno civile precedente la variazione, ovvero nei dodici mesi antecedenti la variazione, qualora l'anno precedente non sia stato lavorato per intero), il preavviso scritto non potrà essere inferiore a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Qualora l'agente o rappresentante comunichi, entro trenta giorni, di non accettare le variazioni che modifichino sensibilmente il contenuto economico del rapporto, la comunicazione del preponente costituirà preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza, ad iniziativa della casa mandante".

Dalla lettura di tale articolo, si evince, quindi, che al preponente è conferito un diritto potestativo, consistente nella possibilità di diminuire la clientela del proprio agente. In tal caso, qualora l’agente comunichi di non accettare le diminuzioni impostegli da preponente, si determina una giusta causa di recesso, che consente al preponente di recedere dal rapporto contrattuale senza dovere corrispondere all’agente l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c..

Tuttavia, tale diritto potestativo, soggiace, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, anch’esso ai principi generali del nostro ordinamento, di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto contrattuale, disciplinati appunto agli artt. 1175, 1375 c.c. e 1749 c.c. (cfr. Cass. n. 9924/09).

Inoltre, la stessa Corte, ha richiamato un proprio orientamento (cfr. Cass. 5467/2000), secondo il quale, in generale, nel contratto di agenzia, l’attribuzione al preponente del potere di modificare alcune clausole (in particolare quelle relative all’ambito territoriale e alla misura delle provvigioni), dovrebbe “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.

L’utilizzo di poteri potestativi, pertanto, non deve comunque tradursi in un sostanziale aggiramento delle obbligazioni contrattuali e, pertanto, deve essere comunque limitato e sottoposto ai principi di correttezza e buona fede.

La Corte ha concluso, affermando che nel caso di specie, il preponente ha essenzialmente utilizzato e mascherato un proprio diritto potestativo, quello appunto di ridurre, la clientela del proprio agente, per mettere quest’ultimo in una situazione di fatto impossibile da accettare e, quindi, con il fine e la funzionalità di fare cessare il rapporto contrattuale, senza che nascesse l’obbligo di pagare l’onere di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Si ricorda da ultimo che la Corte ha fatto riferimento già numerose volte al principio di agire secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In altre occasioni ha ad esempio considerato contrario a tale principio il comportamento del preponente che aveva operato un cambiamento radicale nella politica dei prezzi, da rendere di fatto impossibile per l’agente operare (cfr. Cass. Civ. 1995 n. 1142), il rifiuto incondizionato e sistematico di fare corso aglio ordini trasmetti dall’agente (Cass. Civ. 1985 n. 6475), sostituire l’agente nel corso del preavviso, informando contemporaneamente la clientela (Cass. Civ. 1991 n. 1032).[:]


Derogabilità del termine di preavviso dell'agente.

L'art. 1750 cod. civ., così come sostituito dal D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303, art. 3 (di attuazione della direttiva comunitaria 86/653), stabilisce che:

"Se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito (comma 2).
"Il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi (comma 3).
"Le parti possono concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell'agente" (comma 4).

Si ricordo che le modifiche apportate all’art. 1750 c.c. dal d.Lgs. n. 303 del 1991,  sono state attuate in linea con la direttiva comunitaria n. 653 del 1986, che disponeva espressamente che:

1. Se il contratto di agenzia è concluso a tempo indeterminato, ciascuna parte può recedervi mediante preavviso.
2. Il termine di preavviso è di un mese per il primo anno del contratto di agenzia, di due mesi per il secondo anno iniziato, di tre mesi per il terzo anno iniziato e per gli anni successivi. Le parti non possono concordare termini più brevi.
3. Gli Stati membri possono fissare a quattro mesi il termine di preavviso per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi. Essi possono stabilire che le parti non possono concordare termini più brevi.

Ci si è domandati se le parti possano derogare in parte il dettato normativo dell’art. 1750 c.c., riducendo i termini di preavviso stabiliti dal legislatore. Nello specifico si è sostenuto che la tutela espressamente prevista dalla direttive sia riferibile solamente ai primi tre anni e che quindi sarebbe lecito sostenere che il termine di preavviso inderogabile dalle parti sarebbe riferibile solamente quello di tre mesi. Se si seguisse tale teoria, le parti potrebbero derogare parzialmente l’art. 1750 c.c. e prevedere un termine di preavviso di tre mesi anche per i rapporti di durata superiore ai tre anni.

La Corte di Cassazione si è espressa in merito, respingendo integralmente tale tesi, sostenendo che “in tema di contratti di agenzia a tempo indeterminato, il termine di preavviso, ai sensi dell'art. 1750 cod. civ. (come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303), non può essere inferiore ad un mese per ogni anno, o frazione di anno, di durata del contratto fino ad un massimo di sei mesi, poiché il legislatore italiano - come consentito dall'art. 15 della Direttiva del Consiglio CEE del 18 dicembre 1986, n. 86/653/CEE, ferma la tutela inderogabile per il primo triennio - ha previsto, anche per gli anni successivi al terzo, termini crescenti di quattro, cinque e sei mesi (rispettivamente per il quarto, il quinto, il sesto ed i successivi anni) non derogabili ad opera delle parti.” (Cass. Civ. n. 16487, 2014)

Pertanto, secondo la Corte, il termine di preavviso di cui all’art. 1750 c.c. è inderogabile dalle parti, o meglio, le parti possono prevedere solamente termini superiori, ma non inferiori rispetto a quelli indicati nel codice.

Da ultimo, ricordo che il mancato preavviso, fa insorgere in capo all’agente il diritto di chiedere l’indennità’ sostitutiva del preavviso.

 


Obblighi principali dell'agente. E' sufficiente una semplice attività di propaganda?

In base all'art. 1742 c.c., l'agente nel rapporto contrattuale "assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione la conclusione di contratti in una zona determinata." (cfr. obblighi dell'agente nel diritto tedesco)

Con riferimento a tale articolo, recentemente si è pronunciata una sentenza della Corte di Cassazione, che si è soffermata appunto sugli elementi essenziali del contratto di agenzia. La Corte ha precisato che l'attività di promozione della conclusione di contratti, che appunto costituisce obbligazione tipica dell'agente ex art. 1742 c.c., non può consistere in una semplice attività di "propaganda", seppure da questa derivi un incremento delle vendite; infatti una semplice attività di promozione della conclusione di contratti non è sufficiente a fare maturare il diritto dell'agente alla provvigione, essendo necessario che l'agente stesso svolga una attività di convincimento del potenziale cliente a effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente. Solo in tal caso, ossia in caso il contratto promosso dovesse andare a buon fine per l'attività svolta dall'agente, quest'ultimo avrà diritto alla provvigione. (cfr. anche Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.L’obbligo di informazione dell’agente nei confronti del preponente).

La Cassazione sul punto ha affermato che la prestazione dell'agente consiste

"in atti di contenuto vario e non predeterminato - quali il compito di propaganda, predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l'accettazione - atti che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente; nessuna di queste attività costituisce componente indispensabile della prestazione dell'agente." (Cass. Civ. 4.9.2014 n. 18690).

La giurisprudenza, quindi, fa una netta distinzione tra l’attività di propaganda e l’attività di promozione.

L’attività di promozione, infatti, è considerata come la prestazione tipica dell’agente di commercio, ex art. 1742 c.c.. Promuovere la conclusione di un contratto significa quindi spingere, proporre, mettere in atto una serie di attività affinché vengano stipulati determinati contratti in una determinata zona. Tra le attività di promozione, si ricorda, rientrano svariate attività di “impulso” e di “agevolazione”, finalizzate appunto al collocamento di un bene o servizio in una zona determinata, volte ad incrementare o sostenere verso l’acquisto la domanda del prodotto offerto dall’impresa preponente.

Tra queste attività di impulso rientra (principalmente) l’attività di propaganda, che è destinata a persuadere e informare un potenziale cliente dell’esistenza del prodotto o del servizio, illustrandone le qualità e le caratteristiche.

A ogni modo, la semplice attività di propaganda non è sufficiente a fare si che si possa ritenere sussistere un rapporto di agenzia. Rilevo da ultimo che la giurisprudenza non esclude la possibilità di rendere preminente l'azione di propaganda rispetto a quella di preparazione e allestimento del contratto.


La clausola di recesso per giusta causa nel contratto di agenzia. Parametri valutativi.

In tema di estinzione del rapporto di lavoro subordinato, l'art. 2119 c.c. dispone che "ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto."

La giurisprudenza, ormai in maniera piuttosto uniforme, ritiene applicabile in via analogia l'art. 2119 c.c. anche al rapporto di agenzia. Pertanto, anche in tale ambito, l'obbligo del recedente dal contratto a tempo indeterminato di dare il preavviso non sussiste, qualora si verifichi una (giusta) causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (Cass. Civ. 14.2.2011 n. 3595).

Inoltre, secondo la giurisprudenza ed autorevole dottrina, in tali ipotesi verrebbe conseguentemente meno l'obbligo del preponente di corrispondere all'agente l'indennità sostitutiva del preavviso che non è stato dato, stante l'interruzione in tronco  del rapporto per causa imputabile all'agente stesso.

Posto che l'applicabilità analogica dell'art. 2119 comma 1 c.c. al rapporto di agenzia è piuttosto pacifica, ci si domanda quando possa affermarsi che sussista per il preponente una giusta causa di recesso dal contratto.

La Corte di Cassazione in merito si è pronunciata affermando che "l'istituto del recesso per giusta causa, previsto dall'art. 2119, comma 1, c.c. in relazione al contratto di lavoro subordinato, è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest'ultimo ambito il rapporto di fiducia - in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell'attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali - assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata. (Nella specie la Corte ha ritenuto correttamente accertata la sussistenza della giusta causa di recesso dell'agente, in ragione del mancato pagamento di provvigioni relative ad uno specifico ordine, ricevuto direttamente dal preponente, ma da terzi rientranti nella zona di esclusiva dell'agente e che quest'ultimo aveva in precedenza acquisito come clienti)." (Cass. Civ. 5.11.2013 n. 24776).


L'indennita' sostitutiva del preavviso nel contratto di agenzia.

Nel diritto italiano, la durata e le modalità di recesso del contratto di agenzia sono regolate dall’art. 1750 del codice civile.

Il primo comma di tale articolo prevede che "il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti anche  successivamente  alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato."

Il secondo comma dell'art. 1750 c.c., regola quello che è il preavviso minimo che le parti devono dare in caso di recesso. Nello specifico esso dispone che: il "contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a":

  • 1 mese per il 1° anno,
  • 2 mesi per il 2° anno,
  • 3 mesi per il 3° anno,
  • 4 mesi per il 4° anno,
  • 5 mesi per il 5° anno,
  • 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi.

Importante ricordare che le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si chiede, dunque, che cosa succede se il termine di preavviso non venga rispettato: il preponente deve all’agente un’indennità per il periodo di preavviso non rispettato?

Esempio:

L’agente X ha lavorato per 6 anni per il preponente Y. Il preponente Y decide di non volere proseguire la collaborazione con l’agente, decisione supportata da mere e semplici ragioni personali e senza la sussistenza di una giusta causa. Recede dal contratto senza alcun preavviso e liquida le provvigioni dovute fino alla data del recesso.

Il legale del preponente Y, venuto a conoscenza dell’accaduto contatta il preponente avvisandolo che, sulla base di un costante indirizzo giurisprudenziale, in caso di mancato preavviso nel recesso da parte del preponente l’agente ha comunque diritto a percepire una indennità sostitutiva del predetto preavviso (in questo caso 6 mesi) da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso[1].

Si può concludere che, ove una parte receda in tronco, senza che vi sia un motivo sufficiente per giustificare tale scelta, essa è tenuta a risarcire il danno alla controparte.

Nel caso di recesso ad opera del preponente, tale danno corrisponderà, in linea di massima, alle provvigioni che l'agente avrebbe presumibilmente percepito nel periodo rimanente del rapporto. [2]

Si discute se tale indennità di preavviso sia dovuta solamente nel caso di recesso (ingiustificato) del preponente o anche nel caso di recesso per giusta causa dell'agente. Secondo la prevalente giurisprudenza si ritene che debba essere riconosciuta anche in questo caso all'agente il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso [3], oltre all'eventuale risarcimento del danno[4].

La giurisprudenza ritiene, inoltre, che il recesso dell'agente per giusta causa si converte, ove si accerti l'insussistenza di quest'ultima e salvo che non emerga una diversa volontà dell'agente medesimo, in un recesso senza preavviso, con conseguente diritto del preponente percepire l'indennità di mancato preavviso.[5]

Da ultimo, secondo autorevole dottrina (Bortolotti) e giurisprudenza,[6] sembrerebbe non potersi escludere a priori il diritto della parte di chi subisce il recesso in tronco di pretendere il "pieno" risarcimento del danno, ove dimostri che questo ammonta ad una somma superiore all'indennità di preavviso.

Importante comunque sottolineare che l’indennità sostitutiva del preavviso ha carattere inderogabile e non può essere esclusa né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali.[2]

RIASSUMENDO

  • il contratto a tempo determinato che viene continuato ad essere eseguito a seguito della sua scadenza  si trasforma in contratto a tempo indeterminato
  • le parti possono prevedere un periodo di preavviso superiore, ma mai inferiore rispetto a quello previsto dalla legge
  • se si recede senza preavviso, è previsto comunque un indennità sostitutiva del predetto preavviso da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso
  • si ritene che anche nel caso in cui il recesso per giusta causa venga effettuato dal preponente, questi avrà diritto all'indennità di mancato preavviso
  • sembrerebbe non potersi escludere a priori il diritto della parte di chi subisce il recesso in tronco di pretendere il "pieno" risarcimento del danno, ove dimostri che questo ammonta ad una somma superiore all'indennità di preavviso

[:de]L’art. 1750 del codice civile disciplina la durata del contratto di agenzia e il suo recesso.

Il primo comma prevede che "il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti anche  successivamente  alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato."

Il secondo comma dell'art. 1750 c.c., inoltre dispone che il "contratto di agenzia a tempo indeterminato può essere risolto dalle parti solamente se viene dato preavviso, che non può essere inferiore a":

- 1 mese per il 1° anno
- 2 mesi per il 2° anno
- 3 mesi per il 3° anno
- 4 mesi per il 4° anno
- 5 mesi per il 5° anno
- 6 mesi per il 6° anno e per gli anni successivi

Le parti possono prevedere un termine di preavviso superiore, ma mai inferiore a quello dettato dalle norme codicistiche.

Ci si chiede, dunque, che cosa succede se il termine di preavviso non venga rispettato: il proponente deve all’agente un’indennità per il periodo di preavviso non rispettato?

Es. L’agente X ha lavorato per 6 anni per il proponente Y. Il proponente Y decide di non volere proseguire la collaborazione con l’agente, decisione supportata da mere e semplici ragioni personali e senza la sussistenza di una giusta causa. Recede dal contratto senza alcun preavviso e liquida le provvigioni dovute fino alla data del recesso.
Il legale del proponente Y, venuto a conoscenza dell’accaduto contatta il preponente avvisandolo che, sulla base di un costante indirizzo giurisprudenziale, in caso di mancato preavviso nel recesso da parte del preponente l’agente ha comunque diritto a percepire una indennità sostitutiva del predetto preavviso (in questo caso 6 mesi) da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso[1].

Importante sottolineare che l’indennità sostitutiva del preavviso ha carattere inderogabile e non può essere esclusa né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali.[2]

RIASSUMENDO

  • il contratto a tempo determinato che viene continuato ad essere eseguito a seguito della sua scadenza  si trasforma in contratto a tempo indeterminato;
  • le parti possono prevedere un periodo di preavviso superiore, ma mai inferiore rispetto a quello previsto dalla legge;
  • se si recede senza preavviso, è previsto comunque un indennità sostitutiva del predetto preavviso da calcolarsi sulla media delle provvigioni maturate nell’anno antecedente al recesso

[:en]Article 1750 of the Italian Civil Code governs the duration of the agency agreement and its termination.
The first paragraph provides that "the agency agreement for an fixed-term contract, which continues to be performed by the parties even after the expiry of the term turns into a open-ended contract."

The second paragraph of art. 1750 cc, it also provides that the "agency agreement for an indefinite period may be terminated by the parties only if it is given notice, which may not be less than"

  • 1 month for the 1 year
  • 2 months for the 2nd year
  • 3 months for the 3rd year
  • 4 months for the 4th year
  • 5 months for the 5th year
  • 6 months for the 6th year and for subsequent years

The parties may stipulate a longer period of notice, but not shorter than that dictated by above mentioned terms.

One wonders, therefore, what happens if the notice period is not met: the principal must pay to the agent compensation for the notice period is not respected?

For example: The Agent Caio has worked for six years for the principal Tizio. Tizio chooses not to continue working with the agent, a decision supported by mere and simple personal reasons and without the existence of a just cause. He terminates the contract without notice and pays the commission due to the date of recission.

The lawyer of Tizio, aware of what happened contacts the principal warning him that, based on a constant italian case-law, in the event the principal teminates the contract without notice the agent is still entitled to receive the payment of the notice period (in this case six months) to be calculated on the average of commissions earned in the year prior to the termination.

Important! The compensation in lieu of notice is mandatory and can not be excluded nor by collective bargaining or individual contracts.

IN SUMMARY
the fixed-term contract which is continued to be executed after its expiry turns into permanent contracts;
the parties may provide for a notice period higher, but never lower than that provided by law;
in case of termination without notice and cause, the agent has right to a compensation in lieu of notice, to be calculated on the average of commissions earned in the year prior to withdrawal[:]