indennità di fine rapporto

Concessione di vendita e indennità di fine rapporto. La nuova normativa del settore auto (e in Germania come funziona?)

L'indennità di fine rapporto per distributori o concessionari di vendita in Italia è stata oggetto di recenti sviluppi legislativi, che hanno determinato cambiamenti di notevole importanza.

La legge recentemente introdotta nel settore della distribuzione di autoveicoli stabilisce un diritto "innovativo" a un equo indennizzo per i distributori autorizzati e una durata contrattuale minima di cinque anni per i contratti a termine, così come un preavviso di ventiquattro mesi per i contratti a tempo indeterminato.

Nonostante l'interpretazione della norma e la determinazione dell'importo dell'indennità di fine rapporto presentino ancora significative complessità, in attesa di ulteriori sviluppi normativi e giurisprudenziali, il modello tedesco, che da anni la riconosce in tutti i settori commerciali, potrebbe fornire interessanti indicazioni.

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1. Introduzione. Risarcimento del danno e indennità.

Sino a pochi mesi fa, nel panorama giuridico italiano, l'indennità di fine rapporto nei contratti di concessione di vendita era privo di ogni regolamentazione normativa e la giurisprudenza è restata salda ed unanime nel ritenere che alcun indennità  debba essere riconosciuta al concessionario per la clientela da questi apportata, escludendo così un’applicazione analogica delle disposizioni in ambito di agenzia.

Nell'Ordinamento giuridico italiano, alla chiusura del rapporto contrattuale, gli interessi del concessionario sono erano principalmente tutelati nell'ambito di una valutazione della legittimità e/o congruità del recesso o dello scioglimento del contratto, tramite una stima degli utili che il concessionario avrebbe potuto ricevere se il contratto fosse stato adempiuto sino alla sua naturale scadenza. Lo strumento utilizzato è quello del risarcimento del danno, calcolato nella perdita dell'utile atteso e nell'assorbimento dei costi inerenti all'organizzazione e alla promozione delle vendite, nonché agli investimenti intrapresi confidando nella prosecuzione contrattuale.[1]

Il risarcimento non è invece inteso a ricompensare il concessionario per il lavoro svolto nel costruire una base di clienti, così come di fatto previsto nei rapporti di agenzia all’art. 1751 c.c.

Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

Così che, per i contratti a tempo determinato, è escluso il recesso unilaterale dal rapporto (salvo che questo non sia stato espressamente pattuito dalle parti) e la chiusura del contratto può realizzarsi unicamente in caso di grave inadempimento.[2]

Diversamente, per i contratti a tempo indeterminato, è consentito il recesso unilaterale, anche in assenza di un inadempimento, purché si fornisca un congruo preavviso.[3] Nel caso in cui le parti non avessero concordato un preavviso, lo stesso deve essere valutato facendo riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità; la giurisprudenza maggioritaria ritiene che questo termine anche se breve, debba essere rispettato, e che il giudice non debba valutare la sua adeguatezza.[6]

Si deve tuttavia citare un caso in cui la Corte di Cassazione, in una sentenza del 18 settembre 2009 proprio nel settore automotive,[7] ha affrontato una controversia tra un'associazione di ex concessionari di auto e Renault; in particolare, la casa produttrice era receduta dai contratti con i concessionari, riconoscendo il preavviso contrattuale, pari a dodici mesi. I concessionari hanno ritenuto il recesso abusivo e la corte ha accolto le domande dei ricorrenti, stabilendo che il giudice può valutare se il diritto di recesso è stato esercitato in buona fede o se ne è stato fatto un uso abusivo, basandosi sul criterio della buona fede oggettiva, considerata il riferimento fondamentale per la condotta delle parti.

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2. La novella in tema di distribuzione di autoveicoli.

In questo contesto, si inserisce la nuova normativa, introdotta per il settore della distribuzione automobilistica con la Legge n. 108 del 5 agosto 2022, poi aggiornata dalla Legge n. 6 del 13 gennaio 2023.

In particolare, l’art. 2 regolamenta specificamente la durata del contratto, prevedendo che:

  • se il rapporto è a tempo determinato, la durata minima dello contratto è pari a cinque anni, con obbligo di ciascuna parte di comunicare in forma scritta, almeno sei mesi prima della scadenza, l'intenzione  di  non procedere alla rinnovazione dell'accordo, a pena di inefficacia della comunicazione;
  • quanto ai rapporti a tempo indeterminato, il termine di preavviso scritto fra le parti per il recesso è di ventiquattro mesi.

Viene poi introdotto all’art. 3 della Legge, un obbligo in capo al costruttore o importatore di fornire al concessionario, prima della conclusione dell’accordo, nonché in caso di successive modifiche dello stesso, tutte le informazioni di cui sia in possesso, che risultino necessarie a valutare consapevolmente l’entità degli impegni da assumere e la sostenibilità degli stessi in termini economici, finanziari e patrimoniali, inclusa la stima dei ricavi marginali attesi dalla commercializzazione dei veicoli.

L’art. 4 poi introduce un “rivoluzionario” (almeno per il diritto italiano) obbligo del costruttore o importatore, che recede dall’accordo prima della scadenza contrattuale, di corrispondere al distributore autorizzato un equo indennizzo, che deve essere parametrato sulla base:

  1. degli investimenti che questo ha in buona fede effettuato ai fini dell'esecuzione dell'accordo e che non siano stati ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. dell'avviamento per le attività svolte nell'esecuzione degli accordi, commisurato al fatturato del distributore autorizzato negli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

L’indennizzo di cui al comma 4 non è dovuto nel caso di risoluzione per inadempimento o quando il recesso sia chiesto dal distributore autorizzato.

Da ultimo l’art. 5-bis della norma, dispone espressamente che le disposizioni di cui ai commi da 1 a 5 sono “inderogabili”.

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3.     Alcuni spunti sulla nuova normativa.

Ad oggi non si riscontrano precedenti giurisprudenziali che permettano di dare un’interpretazione del dettato normativo, che per ora resta molto generico e di difficile declinazione pratica.

In attesa di uno sviluppo giurisprudenziale, si sollevano brevemente quelle che sono le maggiori criticità che si rilevano anche da una semplice lettura del testo di legge, con particolare riguardo a due aspetti, ossia:

  • la durata del contratto e
  • la quantificazione dell’equo indennizzo.
3.1.  Durata del contratto e rinnovo automatico.

Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, sembrerebbe che lo stesso, in caso di mancata disdetta di una delle parti entro il termine di sei mesi dalla data di chiusura, si rinnovi automaticamente del medesimo periodo per cui era stato stipulato.

Si può giungere a questa “affrettata” conclusione, da una semplice lettura del testo che parla appunto di “rinnovo” e non tanto di trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, come invece previsto ad esempio nei rapporti di agenzia (cfr. art. 1750 c.c.). Chiaro trattarsi di una questione di rilevantissimo impatto pratico, posto che il rinnovo del contratto, se effettivamente automatico, comporta il prolungamento del rapporto per un periodo non inferiore a cinque anni, essendo questo il termine minimo fissato dalla normativa.

Tale elemento ha una rilevanza assai importante anche sull’eventuale diritto del concessionario all’equo indennizzo, che si ricorda non essere dovuto solamente nel caso di inadempimento del concessionario, ovvero di suo recesso. Se passa, come è più che verosimile aspettarsi, la teoria del rinnovo automatico del contratto, l’indennizzo sarà riconosciuto al concessionario anche nel caso in cui lo stesso dichiara di non volere rinnovare l’accordo prima della sua scadenza, non trattandosi tecnicamente di vero e proprio recesso. Parimenti, sarà verosimilmente dovuto l’indennizzo anche se le parti concordano di terminare il rapporto contrattuale.

Trattandosi poi di una norma inderogabile quella dell’indennizzo, si pone la problematica, così come in tema di agenzia, se una eventuale rinuncia prima dello scioglimento del rapporto possa essere ritenuta valida, oppure se la stessa sia efficace unicamente se concordata dalle parti una volta che il contratto è terminato.

Leggi anche: Quali rinunce e transazioni possono essere impugnate dall'agente di commercio.

3.2 Equo indennizzo.

Quanto alla quantificazione dell’equo indennizzo, come si è visto, la norma richiama due parametri molto generici, ossia:

  1. gli investimenti effettuati in buona fede da parte del concessionario e non ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. l'avviamento dell’attività commerciale, commisurato al fatturato sviluppato dal distributore nel corso degli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

In primo luogo, si fa presente che non sembra trattarsi di una applicazione analogica dei principi previsti in tema agenzia, posto che nessuno dei due requisiti fa riferimento alcuno alla clientela da questi apportata e agli affari sviluppati con quella già acquisita, così come disposto dallart. 1751 c.c.

La lettera a) dell’articolo 4 fa appunto riferimento ad investimenti effettuati in buona fede, in maniera del tutto staccata da quello che è stato l’apporto di clientela e lo sviluppo degli affari che il concessionario è riuscito a sviluppare nel corso del rapporto.

La scelta fatta dal legislatore, sembra volere dare più peso all’esecuzione del rapporto secondo buona fede, che impone da una parte al concedente di agire in modo da preservare gli interessi del concessionario e così non pretendere, o comunque spingere irragionevolmente, il concessionario ad effettuare degli investimenti sproporzionati alla tipologia e durata del contratto e, dall’altro lato, al concessionario di vedersi indennizzato solamente investimenti non ammortizzati, effettuati sulla base di un principio di buona fede.

Con riferimento invece al punto b) dell’art. 4, il legislatore fa un generico riferimento all’avviamento del concessionario, senza che venga data alcuna rilevanza, ancora una volta, ai vantaggi che il concessionario ha apportato al concedente e che lo stesso gode a seguito della chiusura del rapporto.

Inoltre, viene effettuato un generico richiamo al “fatturato del concessionario” nel corso degli ultimi cinque anni del rapporto; è chiaro trattarsi di un dato assai generico, di per sé staccato da quello che è il margine o il profitto del concessionario stesso e di per sé non necessariamente collegato ai clienti procurati dal concessionario durante la durata del contratto.

Il riferimento temporale di cinque anni, sembrerebbe richiamare il periodo di analisi applicato agli agenti di commercio, all’art. 1751 c.c., con l’unica (ma enorme) distinzione, che in tal caso si fa riferimento alla media provvigionale sviluppata dall’agente in tale intervallo.

3.3. Norme inderogabili e/o di applicazione necessaria?

Come si è avuto modo di vedere, l'art. 5-bis della nuova legge attribuisce espressamente alle nuove disposizione in tema di distribuzione automotive carattere inderogabile.

In tale ambito, sorge una questione rilevante, inerente l'applicazione del Regolamento Roma I (Regolamento CE n. 593/2008) alla nuova normativa. In particolare, ci si chiede se tali disposizioni possano essere considerate "norme di applicazione necessaria" ai sensi dell'articolo 9 del suddetto Regolamento, anche note come norme "internazionalmente imperative".

Secondo questa disposizione, le norme di applicazione necessaria sono norme giuridiche che un Paese ritiene cruciali per salvaguardare i propri interessi pubblici, come la sua organizzazione politica, sociale o economica. In determinati casi, i legislatori nazionali possono decidere di attribuire ad alcune delle loro norme imperative un carattere ancora più forte, disponendo che esse non possono essere derogate neppure sottoponendo il contratto ad una legge straniera.  Questo significa che, nonostante la scelta contrattuale di applicare una legge diversa, un tribunale potrebbe essere tenuto ad applicare tali disposizioni se ritiene essere per l’appunto di “applicazione necessaria”, in quanto cruciali per salvaguardare gli interessi pubblici dell'Italia.

Ci si deve quindi interrogare (in attesa di un adeguato sviluppo giurisprudenziale e legislativo), se le nuove disposizione sulla distribuzione automotive debbano ritenersi non solo inderogabili (ex art. 5-bis) a livello nazionale, ma anche internazionale, ex art. 9 del Regolamento Roma I.

Proprio in ambito di concessione di vendita, un esempio di norma di applicazione necessaria è rappresentato dalla legge belga del 27 luglio 1961, che all'articolo 4 impone l'applicazione internazionalmente inderogabile di tale norma in caso di controversie relative alla risoluzione di contratti di concessione eseguiti in Belgio, indipendentemente dalla legge contrattualmente scelta dalle parti. [7a]

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4. L'indennità del concessionario nel sistema tedesco.

Nell'attesa di uno sviluppo giurisprudenziale che affini e indirizzi gli operatori ad interpretare la nuova normativa, è interessante analizzare come funziona un sistema vicino al nostro, che riconosce tale indennità da diverse decine di anni; il tutto senza la pretesa di essere giuristi tedeschi, ma con la semplice intenzione di fornire al lettore una panoramica generale di suddetto modello.

4.1. I presupposti del diritto all'indennità del concessionario.

In Germania, la giurisprudenza da anni applica analogicamente i principi dell'indennità in materia di agenzia, regolati dal § 89b HGB (Handelsgesetzbuch), anche al concessionario. La disposizione in questione è il corrispettivo tedesco dell'articolo 1751 c.c., entrambi riformati per attuare la direttiva europea relativa all'agenzia commerciale del 1986.[8]

Affinché l'indennità possa essere riconosciuta, la giurisprudenza tedesca richiede il soddisfacimento dei seguenti presupposti:

  1. il contratto non deve essere sciolto dal preponente a causa di gravi inadempienze dell'agente, ovvero dall'agente senza giustificati motivi, oppure vi sia stata una cessione dei diritti e degli obblighi del contratto a un terzo;
  2. il concessionario deve essere integrato all'interno della rete di distribuzione del concedente;
  3. deve essere avvenuto un trasferimento della lista clienti.
4.1.1. Scioglimento del rapporto.

La giurisprudenza tedesca applica in via analogica i principi in tema di agenzia, per cui l'indennità ha lo scopo di compensare l'agente dei vantaggi che vengono trasferiti al preponente a seguito della chiusura del contratto, non potendo l'agente più beneficiare dei rapporti che ha stabilito o sviluppato con i propri clienti.

L'indennità, quindi, mira da un lato a compensare le perdite provvigionali subite dall’agente a causa della chiusura del rapporto, d'altro lato ha lo scopo di fornire all'agente un compenso per i vantaggi che derivano dai clienti acquisiti e/o sviluppati dall’agente. Prerequisito per la richiesta di indennità, staiblito dal comma 3 del § 89b HGB, è il fatto che il contratto non sia stato sciolto dal preponente per gravi inadempienze dell'agente, dall'agente senza giustificati motivi, ovvero per cessione dei diritti e obblighi del contratto a un terzo.

La giurisprudenza tedesca, seppure la legge non lo regolamenta espressamente, ha ritenuto che l'indennità sia dovuta in caso chiusura del rapporto per mutuo dissenso, indipendentemente da chi abbia per primo proposto la terminazione consensuale del rapporto.[9]

Questi criteri, vengono fedelmente applicati anche ai contratti di concessione di vendita, ivi incluso lo scioglimento consensuale del rapporto.[10] Pertanto, anche in caso di risoluzione consensuale del contratto, il rivenditore autorizzato avrà diritto a un'indennità, a condizione che siano soddisfatti gli altri requisiti, ossia l'integrazione nella rete di distribuzione del produttore e l'obbligo di trasferire la clientela.

4.1.2. Integrazione all’interno della rete.

Per quanto riguarda il requisito di integrazione all'interno della rete di distribuzione, è importante sottolineare che il rapporto commerciale non si limita a una semplice relazione tra un venditore e un cliente abituale, essendo necessaria una forma più approfondita di collaborazione che costituisca un vero e proprio accordo di distribuzione integrata.

Ciò implica che il rivenditore autorizzato sia coinvolto attivamente nel sistema di distribuzione del produttore, così che la richiesta di indennizzo è rivolta a compensare il concessionario non solo per la perdita dei vantaggi derivanti dai rapporti con i clienti, ma anche per il contributo attivo alla rete di distribuzione del produttore.

Leggi anche: Concessione di vendita, distributore o cliente abituale?

La giurisprudenza tedesca[11] nel tempo ha sviluppato alcuni esempi situazioni che possano determinare, o comunque portare a ritenere che vi sia una vera e propria integrazione nel sistema distributivo del concedente; qui di seguito se ne richiamano alcuni:

  • essere riconosciuto come rivenditore autorizzato;
  • conferire al produttore/concedente l'autorizzazione ad accedere ai locali commerciali e di stoccaggio in qualsiasi momento;
  • essere soggetto a obblighi di acquisto minimi dei prodotti contrattuali;
  • avere l'obbligo di stoccare le merci in magazzino;
  • creare e supervisionare officine autorizzate nel territorio del contratto;
  • fornire servizi di assistenza e riparazione ai clienti;
  • ricevere formazione da parte del produttore/concedente;
  • valorizzare, conservare e mantenere il marchio del produttore;
  • seguire le linee guida e le raccomandazioni del produttore per le vendite;
  • avere la possibilità di vendere i prodotti del produttore al di fuori del territorio contrattuale;
  • essere assegnato a un territorio contrattuale specifico, anche in assenza di esclusiva territoriale.
4.1.3. Il trasferimento dei clienti.

Un altro requisito fondamentale affinché il concessionario o il rivenditore abbia diritto all'indennità di fine rapporto è che vi sia stato un trasferimento dei dati dei clienti.

Secondo la giurisprudenza tedesca,[12] non è indispensabile che il trasferimento della lista clienti sia esplicitamente previsto nel contratto, ma può derivare implicitamente come un obbligo o essere una pratica adottata dalle parti (ad es. se il concessionario invia i nominativi dei clienti al produttore per la gestione delle garanzie o per altri scopi legati all'assistenza post-vendita).

Questo trasferimento della lista clienti è un elemento cruciale perché permette al produttore di mantenere e sviluppare la relazione con i clienti acquisiti dal concessionario anche dopo la chiusura del rapporto con il concessionario o rivenditore.

4.2. Il calcolo dell'indennità.

La quantificazione dell'indennità deve essere effettuata considerando i seguenti parametri:

  1. vantaggi per il produttore: occorre valutare se il concessionario ha acquisito nuovi clienti o consolidato quelli esistenti, come previsto dal § 89b HGB (e dall'art. 1751 c.c.), tramite un'analitica prognosi dei vantaggi derivanti dai clienti acquisiti. Spetta al concessionario fornire la prova degli sviluppi per ogni singolo cliente, non essendo sufficiente la produzione di una semplice lista dei clienti che il concessionario ha acquisto o sviluppato nel corso del rapporto.[13] La stima deve poi basarsi sui risultati degli ultimi cinque anni, in applicazione analogica del § 89b HGB;
  2. la quantificazione dei vantaggi deve avvenire in modo "equo", valutando le perdite subite dal concessionario a seguito della chiusura del rapporto. Applicando analogicamente la disciplina dell'agenzia commerciale, le perdite da considerare devono essere di natura "provvigionale". Benché, come è noto, il concessionario non viene retribuito tramite provvigioni, bensì marginalizza sulla scontistica che a questo è riconosciuta dal concedente, per potere applicare analogicamente i principi in tema di agenzia, bisogna calcolare quelle che sarebbero state le provvigioni che il produttore avrebbe pagato a un agente commerciale sulla base del fatturato effettuato dal concessionario, se la distribuzione fosse avvenuta tramite un'agenzia e le vendite fossero state realizzate in questo modo.

In questo contesto, per effettuare il calcolo delle indennità e per cerare di “provvigionalizzare” i ricavi del concessionario, bisogna detrarre dalla scontistica a questi riconosciuta, tutte quelle componenti remunerative tipiche del concessionario ed estranee all’agente. A titolo esemplificativo: le spese per il personale e le attrezzature dell'attività, per la pubblicità, la presentazione dei prodotti, l'assunzione dei rischi di vendita, di fluttuazione dei prezzi, di credito o del valore equivalente, etc.[14]

Il limite dell'indennità corrisponde alla media degli ultimi cinque anni.[15] È importante sottolineare che si tratta delle provvigioni che il concessionario avrebbe ottenuto, non del fatturato generato dal concessionario. Si tratta di un elemento particolarmente importante poiché sposta il focus d’analisi dal volume totale di affari del concessionario, per concentrarsi invece sulle effettive entrate nette.

Tale approccio tiene conto del reale vantaggio economico del concessionario, piuttosto che basarsi su una cifra generica che potrebbe non riflettere accuratamente la sua posizione commerciale. Questa distinzione assicura che l'indennità sia calcolata in modo più preciso e veritiero, riflettendo l'effettivo guadagno del concessionario piuttosto che l'ammontare totale delle vendite realizzate.

L'indennità viene poi calcolata sulla base di tali vantaggi, seguendo un approccio simile a quello utilizzato nell'agenzia.

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[1] Sul punto, cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, 2016, pag. 140, Giuffrè.

[2] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM; In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013.

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[6] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni); Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2022, pag. 659, Wolter Kluwer.

[7] Cass. Civ. 5.3.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[7a] Sul punto, Bortolotti, Il contratto internazionale, pag- 47, 2012, CEDAM.

[8] Direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.

[9] Sul punto confronta Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 599, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[10] BGH 23.7.1997 – VII ZR 130/96.

[11] BGH 8.5.2007 - KZR 14/04; BGH 22.10.2003 - VIII ZR 6/03; BGH 12.1.2000 – VII ZR 19/99; sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 600, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[12] BGH 12.1.2000 - VIII ZR 19/99.

[13] BGH 26.2.1997 – VII ZR 272/95.

[14] Sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 621, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[15] BGH 11.12.1996 – VII ZR 22/96.


La distribuzione selettiva online: il caso Amazon.it.

1. Distribuzione selettiva: il contesto normativo e giurisprudenziale.

Partendo dal presupposto che il fine di ogni produttore è quello di massimizzare il proprio profitto, vi sono casi in cui tale obbiettivo può essere raggiunto solo tramite una limitazione dell’accesso alla rete vendita ufficiale a distributori e rivenditori che possiedano particolari requisiti, così da proteggere l’immagine di eccellenza e qualità dei prodotti.

Ciò accade, tendenzialmente, per i prodotti tecnicamente complessi – per i quali l’assistenza alla clientela riveste particolare importanza – e il produttore ritiene che la certezze di un servizio adeguato possa influenzare positivamente le scelte dell’acquirente, ovvero nel caso di prodotti di bellezza o di moda, ove la tutela dell’immagine del prodotto o del suo prestigio può essere ritenuta essenziale al fine di non dissuadere il consumatore ad acquistare un prodotto che viene offerto insieme a beni di valore assai minore.[1]

Ecco l’interesse del produttore di creare un sistema di distribuzione selettiva all’interno del quale, ogni membro autorizzato, si impegna a vendere i beni o i servizi contrattuali unicamente a distributori selezionati sulla base di criteri predeterminati, al fine di salvaguardare, nella percezione del consumatore, l’aura di esclusività e prestigio dei prodotti, proprio grazie ad una presentazione al pubblico dei beni idonea a valorizzare la loro specificità estetica e funzionale.

Sebbene la distribuzione selettiva sia astrattamente idonea a limitare la concorrenza sul mercato (in contrasto quindi all’art. 101 par. 1 TFUE), essa è tuttavia considerata una modalità di vendita legittima (ex art. 101 par 3 TFUE) a condizione che:

  1. le caratteristiche dei prodotti richiedano effettivamente un sistema di distribuzione selettiva, in considerazione del loro elevato livello qualitativo e tecnologico, onde conservarne la qualità e garantirne l’uso corretto;
  2. la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa, stabiliti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali e applicati in modo non discriminatorio;
  3. il sistema si proponga un risultato idoneo a migliorare la concorrenza e quindi a controbilanciare le limitazioni alla concorrenza alla stessa;
  4. i criteri imposti non vadano oltre i limiti del necessario.[2]

In presenza di tali condizioni, quindi, un sistema di distribuzione selettiva è lecito.

Il primo e principale vantaggio (collegato in realtà alla vera essenza della distribuzione selettiva stessa) è il fatto che in tale sistema, il produttore può imporre ai soggetti appartenenti alla rete e, quindi, vincolati allo stesso da un rapporto contrattuale, di non promuovere vendite a soggetti (diversi dagli utilizzatori  finali) non appartenenti alla rete (art. 4 lett. b), iii)), fatto comunque salvo la possibilità delle vendite incrociate tra i membri autorizzati (art. 4 lett. d).[3] Pertanto, in caso di violazione degli obblighi contrattuali, il produttore avrà la possibilità di rivalersi sul membro inottemperante ricorrendo ai rimedi tipici dell’inadempimento contrattuale.

– Leggi anche:  La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: vantaggi e svantaggi.

Quanto invece ai rapporti con i soggetti estranei alla rete, con cui il produttore per definizione non ha alcun rapporto contrattuale, si può affermare ormai pacificamente che sussiste in capo allo stesso il diritto di esperire i rimedi inibitori nei confronti dei distributori paralleli, qualora e solo se le modalità di rivendita siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e prestigio – che il produttore cerca di difendere proprio attraverso l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva – o comunque che sussista un effetto confusorio circa l’esistenza di un legame commerciale tra il titolare del marchio e il rivenditore non autorizzato.

Come è noto, l’art. 5 c.p.i. – che al primo comma sancisce il c.d. principio di esaurimento, al secondo comma ne contempla una deroga, stabilendo che il titolare della privativa industriale può, sussistendone legittimi motivi, opporsi all’ulteriore commercializzazione dei propri prodotti già immessi sul mercato, in particolare quanto lo stato di questi sia modificato o alterato; è ormai indirizzo pacifico che la distribuzione selettiva rientri in tale eccezione.[4]

– Leggi anche:  Le vendite parallele nell’UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?

L’applicazione di tali principi alle vendite online, ha portato al consolidamento di un orientamento che ritiene illegittimo, in quanto costituisce grave restrizione della concorrenza, un contratto che impedisca in assoluto la vendita via web[5] e che una limitazione alla distribuzione online sarebbe lecita unicamente se volta a fare rispettare ai rivenditori autorizzati di un sistema selettivo, determinati standard qualitativi con il fine principe di salvaguardare l’immagine dei prodotti contrattuali.

Leggi anche: Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?

Posto che le vendite online sono state di fatto “sdoganate” da parte della giurisprudenza europea, seppure con le limitazioni qui sopra richiamate, è emersa un’ulteriore problematica, ossia se i distributori paralleli possano anche loro rivendicare il diritto di effettuare vendite via web. Una recente sentenza del Tribunale di Milano – applicando i principi già da tempo ben delineati nell’ambito delle vendite “tradizionali” – ha ritenuto che nei rapporti extracontrattuali, il titolare di diritti di privativa, possa bloccare la vendita a soggetti estranei alla rete di vendita selettiva, unicamente se sussista un effettivo pregiudizio all’immagine di lusso o di prestigio del marchio, affermando così che la mancata distinzione da parte di un maerketplace (in tal caso amazon.it)  tra i prodotti di lusso e quelli di livello inferiore può confondere il consumatore e creare un danno al prestigio del brand.[6]

2. Il caso Shiseido c. Amazon.

Con ordinanza del 19 ottobre 2020 (al momento oggetto di reclamo), il Tribunale di Milano ha nuovamente confermato il proprio orientamento, accogliendo il ricorso proposta dalle licenziatarie di marchi tra cui “Narciso Rodriguez” e “Dolce & Gabbana” per la fabbricazione e commercializzazione di prodotti di profumeria e cosmetica, inibendo ad “amazon.it” la promozione e offerta in vendita dei prodotti recanti i propri marchi, oggetto di accordi di distribuzione selettiva.

Il Tribunale di Milano, al fine di verificare la sussistenza del fumus boni iuris, ha accertato l’esistenza dei seguenti tre requisiti:

  1. se i prodotti in questione potessero qualificarsi come di lusso;
  2. se la distribuzione selettivadel ricorrente fosse legittima;
  • se la vendita fuori rete recasse un effettivo pregiudizio alla reputazione del marchio.
2.1. Accertamento della categoria “luxury” dei prodotti.

L’esame di tale requisito è stato effettuato, nel caso di specie, sulla base di indici di qualità, riscontrando, con riferimento ai marchi “D&D” e “Narciso Rodriquez”:

la ricerca di materiali di alta qualità, la cura del packaging […], la presentazione al pubblico promossa a livello pubblicitario da personalità dello spettacolo, l’ampio accreditamento nel settore di riferimento desumibile da […] premi conseguiti, il consolidato riconoscimento da parte della stampa specialistica”.

Il Tribunale ha, da un lato, ritenuto che tali indizi gravi, precisi e concordanti ex art. 2729 c.c., comprovassero l’appartenenza di tali fragranze alla categoria d’alta gamma (riservandosi una più approfondita indagine nella fase di merito) e dall’altro lato, sempre utilizzando i medesimi indici e parametri valutativi, ha dichiarato non fosse stata sufficientemente provata l’aurea di lusso con riferimento ai marchi “Iseey Miyake”, “Elie Sahh” e  “Zadig&Voltaire”, così da collocare tali fragranze nella categoria di alta gamma.

2.2. Verifica dei contratti di distribuzione selettiva.

Successivamente alla verifica dell’aurea di prestigio dei prodotti di cui trattasi, è stato necessario verificare l’effettiva sussistenza di una distribuzione selettiva.

In base alla giurisprudenza europea, per potere godere delle esenzioni di cui all’art. 101 comma 3 del Trattato, non è sufficiente il solo fatto che un produttore si sia impegnato in modo rilevante a fini promozionali in favore di prodotti di alta gamma, ma altresì la conclusione di accordi che impongono effettivamente ad altri operatori economici indipendenti obblighi che restringono la loro libertà di concorrenza, potendo, in caso contrario, ogni produttore giustificare il ricorso ad un sistema di distribuzione selettiva soltanto in base alle attività promozionali svolte, così che qualsiasi criterio di lesione restrittivo troverebbe una giustificazione nel fatto di essere stato necessario per tutelare la strategia di commercializzazione voluta dal produttore.[7]

Inoltre, verificata la sussistenza di un sistema di distribuzione selettivo, secondo un orientamento recente della Corte d’Appello di Milano, il produttore potrà fare valere i vantaggi da esso derivanti, e così derogare al principio di esaurimento, solamente se, in sede applicativa, si è verificata la sussistenza di un’effettiva vigilanza esercitata sul mercato da parte del produttore.[8]

Nel caso di specie, il Tribunale analizzando le clausole dei contratti ha verificato che gli obblighi imposti ai rivenditori autorizzati sembrano finalizzati unicamente a tutelare l’aurea di lusso dei marchi, essendo stati applicati “criteri oggettivi, qualitativi, non discriminatori e proporzionati al carattere di lusso dei prodotti distribuiti” e pertanto “confermi ai principi normativi e giurisprudenziali citati”.

In particolare, sono state ritenuti idonei limitazioni relative alle modalità di posizionamento del marchio e dell’insegna, al servizio di vendita e consulenza, alle modalità di vendita, all’utilizzo del materiale pubblicitario, alla qualificazione del personale addetto alla vendita e alla cura dei clienti.

I contratti prevendevano delle ulteriori limitazioni alle modalità di vendita via internet, essendo consentito svolgere tali attività unicamente ai rivenditori autorizzati che avessero la disponibilità di almeno tre punti vendita fisici e solamente a seguito di specifica autorizzazione da parte del licenziatario, i quali, attivata la procedura di ammissione, dovevano comunque impostare e gestire il sito seguendo gli standard impostigli contrattualmente (qualità grafica del sito, spazio di qualità dedicati ai prodotti di lusso concorrenti di pari livello, assenza di prodotti di diversi rispetto a quelli di profumerie o di bellezza).

Il Tribunale ha ritenuto che le limitazioni imposte dal Shiseido ai propri rivenditori autorizzati, incluso la subordinazione dell’utilizzo di un e-commerce alla disponibilità di almeno tre punti vendita fisici, non sembrano spingersi oltre il perimetro del necessario, tenuto conto del fatto che (con riferimento al requisito dei punti vendita fisici) la stessa è ammessa dalla stessa Commissione Europea al punto 54 delle Linee Guida del Regolamento di Esenzione.

2.3. Pregiudizio alla reputazione del marchio.

Ultimo elemento che è stato accertato da parte del Tribunale, necessario ai fini dell’accoglimento della domanda inibitoria, è la sussistenza di un pregiudizio in concreto in capo al titolare dei diritti di privativa, non essendo infatti sufficiente rilevare unicamente la circostanza che il venditore non autorizzato non rispetti gli standard imposti ai rivenditori autorizzati.

Si è infatti visto che la giurisprudenza richiede che le specifiche modalità di vendita debbano ledere in concreto il prestigio dei marchi, per consentire al titolare di inibire al rivenditore non autorizzato l’ulteriore rivendita.[9]

Ai fini dell’accertamento del pregiudizio, è stata contestata ad Amazon:

  • l’assenza di negozi fisici (rilevante per i prodotti in questione, ossia fragranze e cosmetici, anche per eventuali test di allergie ai prodotti),
  • la mancanza di un ideone servizio clienti analogo a quello assicurato nel punto vendita reali con la presenta di una persona capace,
  • l’accostamento dei profumi in questione ad altri prodotti eterogenei e non di lusso (carta igienica, insetticidi),
  • la presenza di materiale pubblicitario di prodotti di altri brand, anche di segmenti di mercato più bassi, nella stessa pagina internet in cui sono presenti i profumi in questione.

Elemento di particolare interesse è il fatto che il Tribunale abbia quindi ritenuto che non fosse tanto dirimente il fatto che all’interno di amazon venissero venduti altri prodotti anche non di lusso, quanto piuttosto che nello stesso spazio virtuale (pagina web), venissero presentati beni eterogenei, applicando così al “virtuale” un orientamento della giurisprudenza europea ormai consolidato.

In particolare, la Corte di Giustizia, aveva confermato la possibilità da parte di soggetti estranei alla rete, di vendere i prodotti contrattuali in negozi multimarca (nel caso di specie un ipermercato), purché l’insegna del dettagliante non ne svaluti l’immagine di lusso e la vendita venga effettuata in un reparto o in uno spazio riservato, al fine di valorizzare le qualità dei prodotti.[10]

Applicare questo principio al virtuale, significa, in pratica, dovere accertare non solo che il bene venga venduto in maniera “adeguata”, riservando allo stesso uno spazio virtuale consono alla sua allure di lusso, ma altresì che venga promosso e venduto su un marketplace o e-commerce la cui insegna non ne svaluti l’immagine.

3. Amazon è un hosting provider “attivo”

Un elemento di assoluto rilievo è rappresentato dal fatto che il Tribunale con tale ordinanza ha accertato la natura di Amazon quale “prestatore dei servizi della società dell’informazione” ai sensi della Direttiva n. 2000/31/CE (sul punto cfr. anche la natura giuridica delle piattaforme online: i casi Uber ed Airbnb) e, in particolare, riconoscendo a tale soggetto il ruolo di hosting provider “attivo” in relazione all’attività di gestione del proprio portale di vendita, anche laddove la stessa sia limitata alla fornitura di servizi di intermediazione, ovverosia non svolga attività di vendita attiva all’interno del sito, ma di fornitore di servizi a soggetti terzi utilizzano la piattaforma per promuovere le vendite.[11]

Il Tribunale, in particolare, ha accertato che il ruolo di Amazon di hosting provider “attivo”,[12] e in quanto tale non soggetto alle esenzioni di responsabilità delineate dagli art. 14, 15 e 16 della direttiva 2000/31/CE, tenuto conto del fatto che la piattaforma (i) “gestisce lo stoccaggio e la spedizione dei prodotti”, (ii) “gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi, che costituisce l’unico servizio di cui il cliente dispone per potersi interfacciare con il venditore”, (iii) “è responsabile di un’attività promozionale anche tramite inserzioni su siti internet di terzi” e (iv) “permette ai consumatori di inferire l’esistenza di un legame tra Amazon” e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla piattaforma.

Leggi anche – Il contratto di hosting e i profili di responsabilità dell’hosting provider.

4. Alcune riflessioni

La sentenza oggetto del presente breve commento, ormai si allinea ad un orientamento giurisprudenziale consolidato che, di fatto, rispecchia è la realtà del commercio di oggi, ossia un costantemente crescente assottigliamento tra esperienza di acquisto in negozio e online.

Si può comprendere come la distribuzione online di prodotti di lusso e di alta gamma, potrà sempre meno prescindere da una attenta e rigorosa cura delle modalità di vendita ed attenersi sempre più a rigorosi standard che all’interno dei negozi fisici sono dati ormai per assodati, non solo da un punto di vista giuridico, ma (soprattutto) da un punto di vista culturale.

Non sarebbe neppure pensabile, infatti, che in un negozio griffato possa essere venduto un abito di alta moda assieme ad un pacco di carta igienica, cosa che online regolarmente ancora accade, senza creare poi così scompiglio al consumatore, forse concentrato maggiormente sul prezzo e non sull’esperienza di acquisto online.

Tale elemento dovrà sempre più essere tenuto conto da parte dei produttori, nelle loro strategie di vendita

Probabilmente, una sentenza di questo genere, letta fra qualche anno farà sorridere, non potendosi un utente neppure immaginare che all’interno dello stesso negozio (virtuale) possano essere venduti nelle medesime modalità ed all’interno della medesima pagina un profumo di alta gamma, insieme a dell’idraulico liquido.

[1] Sul tema, Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’unione europea, pag. 405 e ss, 2018, UTET.

[2] Sul punto cfr. Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Galec c. Commissione CE, punto 16, Corte di Giustizia, 13 ottobre 2011, Pierre Fabre Dermo-Cosmetique, punto 41, Linee Guida Reg. UE 330/2010, par. 175.

[3] A tal proposito, si richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba I, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente – altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.

[4] Ordinanze del 19 novembre 2018 e 18 dicembre 2018 del Tribunale di Milano., con commento di Alice Fratti

[5] Caso Corte di Giustizia, Pierre Fabre C‑439/09.

[6] Tribunale di Milano, 3 luglio 2019, con commento di RIVA, E-commerce e accordi di distribuzione selettiva: il caso “Sisley c. Amazon”, in Il diritto Industriale, 1/2010, WoltersKluver.

[7] Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Groupement d’achat Eduard Leclerc contro Cmmissione, punto 111; v. anche Sentenza Vichy/Commisione.

[8] Corte d’Appello Milano, 25 novembre 2019, n. 5682.

[9] Corte di Giustizia, 4 novembre 1997, Dior c. Evora.

[10] Tribunale CE, 12 dicembre 1996, Groupement d’achat Eduard Leclerc contro Cmmissione.

[11] Sul punto Cfr. anche Traina Chiarini, Amazon è un hosting provider “attivo”, secondo il Tribunale delle imprese di Milano.

[12] Da contrapporsi al hosting provider passivo che, in base al considerando 42 della direttiva 31/2000/CE, deve qualificarsi come tale ogni prestatore di servizi che non esercitino l’”autorità o il controllo” e abbia un ruolo meramente “tecnico, automatico e passivo” ed onde che “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.


influencer e agente di commergio

L'influencer (o lo youtuber) è un agente di commercio: spunti di riflessione.

L'influencer spesso svolge un'attività di promozione delle vendite dietro retribuzione di un corrispettivo: questo fa di lui un agente di commercio?

Per potere inquadrare giuridicamente la figura dell’influencer, bisogna partire da una breve un’analisi dell’attività da questi svolta, cercando di darne una, seppur generica, definizione.  L’influencer, come dice la parola stessa, è un soggetto che è in grado di influenzare le opinioni e gli atteggiamenti di altre persone, in ragione della sua reputazione e autorevolezza rispetto a determinate tematiche o aree di interesse.[1]

In particolare, il marketing influencer è un esperto di settore (che può andare dal fashion, ai viaggi, dalla musica, alla tecnologia, etc.) che, con i propri post, permette di offrire maggiore visibilità a prodotti o servizi da lui promossi, avvalendosi dei canali web che ritiene più opportuni ed adeguati (Instagram, Youtube, Facebook, un blog personale, etc.).

L’influencer proprio per il ruolo determinante che svolge all’interno dei processi comunicativi, viene spesso incaricato dalle imprese del settore in cui esso opera, per pubblicizzare i loro prodotti, andando così a svolgere un’attività promozionale delle vendite, che viene retribuita tramite il pagamento di un compenso.

Proprio perché l’influencer spesso svolge un’attività di promozione delle vendite dietro retribuzione di un corrispettivo, tipica della ben più nota figura dell’agente di commercio, può sorgere la domanda se l’influencer (in alcune ipotesi), possa essere accumunato a tale figura contrattuale (cfr. sul punto Ma le piattaforme online sono agenti di commercio?)

Prima di procedere a tale analisi, è importante chiarire che, con il presente articolo, si vogliono dare alcuni spunti di riflessione, volti principalmente a cercare di meglio inquadrare le nuove modalità di intermediazione, con l’intento di “monitorare” lo sviluppo delle tecniche distribuzione, tramite l’ausilio delle nuove tecnologie.

Qualora il rapporto contrattuale tra azienda ed influencer sia regolato da un accordo scritto, il punto di riferimento dell’attività dell’interprete deve essere certamente in primo luogo il testo della dichiarazione negoziale.

Ad ogni modo, seppure il testo negoziale rappresenti il primo parametro interpretativo, per una corretta esegesi non ci si deve limitare “al testo letterale delle parole” (art. 1362 c.c.), ma occorre ricercare, attraverso un esame complessivo dell’atto, interpretando le clausole del negozio “le une per mezzo delle altre” (art. 1363 c.c.), quale sia stato il risultato perseguito con il compimento dell’accordo, ossia quale sia stata “la comune intenzione delle parti”, vale a dire il significato che entrambe attribuivano all’accordo[2].

Per risalire alla volontà delle parti bisognerà tenere conto di come si è sviluppato effettivamente il rapporto che lega l'influencer alla società produttrice, andando ad analizzare alcuni degli elementi contrattuali tipici dell’agenzia, ovvero se:

  1. sussiste o meno un’attività di consulenza, oltre a quella di promozione delle vendite;
  2. è previsto un obbligo di stabilità dell’incarico;
  3. l'azienda ha il potere di impartire le linee guida e le strategie di mercato dell’influencer;
  4. sussiste un divieto di non concorrenza contrattuale;
  5. è previsto un pagamento provvigionale, basato sulle vendite effettuate.

Non essendoci un unico e “risolutivo” elemento che permette di comprendere se un determinato rapporto possa essere qualificato come agenzia, dovranno essere considerati nel singolo caso di specie i differenti elementi tipici di tale figura contrattuale, tenendo presente che nessuno di essi permette da solo di inquadrare correttamente il rapporto, dovendosi piuttosto effettuare una valutazione complessiva dell’insieme degli stessi.[3]


1. Sussiste un’attività di consulenza, affiancata a quella di promozione?

Talvolta i rapporti contrattuali che legano gli influencer alle aziende vengono disciplinati da dei contratti di consulenza, retribuiti tramite il pagamento di un compenso fisso, talvolta affiancato ad un compenso variabile, calibrato sulle vendite generate dall’attività promozionale dell’influencer.

È infatti indubbio che spesso l’influencer svolge una e vera propria attività di consulenza, essendo questi un professionista che conosce il mercato dei social e l’azienda lo contatta, non solo per la sua notorietà, ma altresì per comprendere in che maniera pubblicizzare i prodotti tramite l’utilizzo di piattaforme digitali.

È anche vero che è tutt’altro che insolito che i post e i video pubblicati siano “accompagnati” da un link, che reindirizza il consumatore verso un determinato negozio online (che può essere sia del produttore, che di un soggetto terzo), ove è possibile acquistare il prodotto pubblicizzato dall’influencer.

L’eventuale acquisto da parte del consumatore tramite l’utilizzo di tale link viene tracciato, permettendo così alle parti di verificare le vendite effettivamente realizzate tramite l’attività promozionale dell’influencer, su cui eventualmente calcolare i compensi variabili.

In tal caso, ci si troverebbe di fronte ad un contratto c.d. “misto, costituito dalla fusione delle cause di due contratti: un contratto di intermediazione e un contratto d’appalto di servizi di consulenza. Secondo la giurisprudenza, nel caso le parti stipulino un contratto avente tale natura mista, lo stesso dovrà essere assoggettato alla disciplina unitaria del contratto prevalente. Si legge sul punto che:

“Il contratto misto, costituito da elementi di tipi contrattuali diversi, non solo è unico, ma ha causa unica ed inscindibile, nella quale si combinano gli elementi dei diversi tipi che lo costituiscono. Esso è soggetto alla disciplina del contratto prevalente e la prevalenza si determina in base ad indici economici od anche di tipo diverso, come la "forza" del tipo o l'interesse che ha mosso le parti, salvo che gli elementi del contratto non prevalente, regolabili con norme proprie, non siano incompatibili con quelli del contratto prevalente.[4]

Alla luce di quanto sopra, per comprendere a quale categoria assoggettare il rapporto di intermediazione/consulenza, bisognerà fare riferimento a come si è sviluppato effettivamente il rapporto nel corso degli anni e verificare se l’attività di consulenza abbia o meno prevalenza su quella di intermediazione, rilevando che, in caso affermativo, sarebbe più complesso considerare il rapporto come un contratto di agenzia (Differenze principali tra il contratto di agenzia e il contratto di distribuzione commerciale).


2. Assenza di un obbligo di stabilità dell’incarico

Per comprendere se il rapporto tra azienda ed influencer possa essere assoggettato alla disciplina dell’agenzia, è certamente essenziale accertare che l’attività di promozione delle vendite (e non unicamente del posizionamento del brand) venga effettuata con stabilità. Come si è già avuto modo di approfondire (cfr. Quale è la differenza fra contratto di agenzia e procacciatore di affari?)  è proprio l’obbligo di promuovere con stabilità le vendite uno degli elementi distintivi del contratto di agenzia.  Si legge in giurisprudenza che:

“mentre l'agente è la parte che assume stabilmente l'incaricodi promuovere per conto dell'altra (preponente o mandante), la conclusione di contratti in una zona determinata, il procacciatore d'affari è colui che raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole alla ditta da cui ha ricevuto l'incarico di procacciare tali commissioni, senza vincolo di stabilità (a differenza dell'agente) e in via del tutto occasionale […].

Quindi, mentre la prestazione dell'agente è stabile, avendo egli l'obbligo di svolgere l'attività di promozione dei contratti, la prestazione del procacciatore è occasionale, nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa.[5]

Se l’accertamento della stabilità dell’incarico è un’attività già complessa in caso di intermediazione “tradizionale”, lo è certamente ancora di più se l’attività di promozione viene effettuata online. Si pensi al (non raro) caso di un influencer che effettua la recensione di un prodotto su youtube. L’attività che questi pone in essere è creare un video e postarlo sulla piattaforma.

Gli effetti di tale attività promozionale, in ogni caso, perdurano nel tempo, a volte per mesi o addirittura anni (normalmente fino a che il prodotto recensito non viene superato da un nuovo prodotto lanciato dalla casa madre, oppure fino a quanto il video non viene cancellato dal web). In tale caso, bisognerebbe comprendere se tale attività di promozione che dispiega i suoi effetti nel tempo, possa o meno essere considerata come “stabile” ai sensi di un rapporto di agenzia.

Se a questa domanda non è certamente facile dare una risposta univoca, è certamente privo di dubbi consigliare di disciplinare contrattualmente le modalità di pagamento dei compensi sulle vendite veicolate da tale post realizzate successivamente la cessazione del rapporto di collaborazione tra influencer ed azienda.

(Sul tema, cfr. Le provvigioni dell’agente di commercio per gli affari conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del rapporto; …ma se l’agente di commercio ha procurato contratti di lunga durata e il rapporto si scioglie prima della loro scadenza…).


3. Obbligo del preponente di impartire le linee guida e strategie di mercato

Un secondo punto distintivo della figura dell’agente di commercio è sicuramente costituito dall’obbligo che lo stesso assume di seguire le istruzioni del preponente, il quale è il soggetto preposto a decidere le politiche di mercato e impartire le strategie commerciali alla rete distributiva. L’art. 1746, comma 1, c.c., dispone espressamente che l’agente deve:

adempiere l’incarico affidatogli in conformità delle istruzioni ricevute […]”.[6]

Nel rapporto di agenzia compete alla casa mandante l’elaborazione delle strategie di vendita e di marketing, strategie di cui, normalmente, gli agenti fanno parte e a cui gli stessi dovranno attenersi per lo svolgimento dei propri compiti, sempre entro i limiti prescritti dalla casa mandante.

Ne consegue che l’agente ha il dovere di seguire le istruzioni del preponente ed è obbligato ad operare conformemente alle sue prescrizioni, anche relativamente agli obiettivi da perseguire ed ai risultati da raggiungere, non potendosi esimere dall’adottare determinate modalità di vendita o tecniche di marketing messe a punto dal preponente.[7]

Ancora una volta, come si è già avuto modo di analizzare al punto 1 di tale articolo, bisognerà verificare con grande attenzione se l’influencer sia tenuto a seguire le direttive generali dell’azienda, oppure se sia lui stesso che indirizza l’azienda nelle scelte di strategia e marketing nel settore si sua competenza (in tema cfr. Il contratto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato: criteri distintivi e parametri valutativi.).


4. Assenza del divieto di concorrenza

L’art. 1742 c.c. dispone che:

Il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.

Secondo giurisprudenza costante il divieto di concorrenza costituisce elemento naturale, ma non essenziale del contratto di agenzia[8], con la conseguenza che le parti sono libere di regolare diversamente i loro rapporti sia con una pattuizione espressa, sia a mezzo di un comportamento concludente[9] (in tema cfr. anche L’esclusiva di zona nel contratto di agenzia e Contratto di agenzia, esclusiva e provvigioni indirette.).

Seppure un agente sia di norma libero di agire promuovendo più prodotti in concorrenza tra loro, tale modalità di promozione così “aperta” è certamente anomala e si riscontra in un numero più limitato di rapporti contrattuali.

Calando tale principio al caso di specie, si potrebbe affermare che se un influencer svolge la propria attività in favore di diverse aziende tra loro concorrenti, senza che nessuno dei soggetti intermediati sollevi qualsiasi contestazione su dette modalità di operare, tale elemento potrebbe essere un indizio che, seppure di per se non può assolutamente escludere che il rapporto possa essere inquadrato come agenzia, se congiunto a quelli già sopra analizzati, potrebbe essere una componente che può influire sulla sua classificazione


5. Pagamento delle provvigioni

Qualora il contratto preveda espressamente quale modalità di calcolo del corrispettivo dell’influencer il pagamento provigionale, questo non può da solo ritenersi un elemento sufficiente per potere identificare il rapporto come agenzia. Le parti, infatti, sia che intendano stipulare un contratto di intermediazione, sia che vogliano concludere un contratto di consulenza/appalto di servizi, possono liberamente (ex art. 1322 c.c.) definire le modalità retributive che ritengono essere le più adeguate ed idonee al caso di specie.  

Basti pensare che, nell’ipotesi in cui il rapporto dovesse essere inquadrato come un contratto atipico di fornitura di servizi, l’art. 1657 c.c. in tema di appalti, conferisce alle parti la piena libertà di decidere quali siano le modalità di pagamento e conteggio delle prestazioni, che pertanto può essere anche di natura provvigionale.

Ciò premesso, non si può comunque negare che il pagamento dell'attività tramite il riconoscimento di una provvigione sia tipico del rapporto di agenzia e non si deve pertanto escludere che di ciò debba esserne tenuto conto in caso di interpretazione del rapporto contrattuale.

Qualora, il rapporto venisse retribuito unicamente con un compenso in forma fissa, seppure la direttiva europea non esclude la conciliabilità di tale modalità retributiva con la figura dell’agente, la giurisprudenza italiana (criticata da parte della dottrina[10]) si è dichiarata contraria a tale tesi,[11] ritenendo che in tal caso l’intermediario non assumerebbe alcun rischio di impresa, caratteristica che contraddistingue la figura dell’agente.

Diversa cosa, invece, se il rapporto dovesse essere retribuito tramite il pagamento di una remunerazione mista, con le quali viene abbinata una componente fissa ad una componente variabile. Tale soluzione con cui all’agente viene assicurato un “minimo garantito” viene considerato lecito e compatibile con il rapporto di lavoro d’agenzia.[12]


Quelli sopra analizzati sono solamente alcuni elementi che permettono all’interprete, di capire come meglio inquadrare un rapporto contrattuale “dubbio”, che dovrà comunque essere attentamente analizzato nella sua interezza, verificando i singoli elmenti che caratterizzano tale figura contrattuale così complessa e versatile.


[1] https://www.glossariomarketing.it/significato/influencer/.

[2] TORRENTE – SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, § 311, GIUFFRE EDITORE.

[3] Bortolotti, Contratti di distribuzione, pag. 129, 2016, Wolters Kluwer.

[4] Cfr. Trib. Cagliari, 4. 5.2017; Trib. Firenze Decreto, 2.11.2016, Trib. Taranto Sez. I, 11.8.2016, Trib. Milano Sez. VII, 29/02/2012; Cass. civ. Sez. Unite, 12.5.2008, n. 11656.

[5] Tribunale di Firenze Sez. lavoro, 4.3.2014.

[6] Tale obbligo si riscontra altresì nell’art. 5, comma 2, AEC Industria 2014 ed nell’art. 3, comma 2, AEC commercio 2009.

[7] Sul punto cfr. anche Bortolotti, contratti di distribuzione, Wolters Kluwer, 2016, pag. 166 e ss.

[8] Cass. Civ. 2002 n. 5920, Cass. Civ. 1994 n. 2634, Cass. Civ. 1992 n. 5083.

[9] Cass. Civ. 2007 n. 21073, Cass. Civ. 1992 n. 5083.

[10] PERINA – BELLIGOLI, Il rapporto di agenzia, pag. 27, Giappichelli Editore; Saracini-Toffoletto, p. 327 ss.

[11] Cass. Civ. 1986 n. 3507; Cass. Civ. 1991 n. 10588; Cass. Civ. 2012 n. 12776. Tale ultima sentenza si è spinta ad ammettere che “nel rapporto di agenzia le parti possono prevedere forma di compenso delle prestazioni dell’agente diverse dalla provvigione determinata in misura percentuale sull’importo degli affari conclusi (come ad esempio una somma fissa per ogni contratto concluso”, ma senza spingersi a riconoscere che la remunerazione in forma provigionale possa essere del tutto sostituita da una retribuzione fissa.

[12] Cfr. sul punto Cass. Civ. 1975 n. 1346; Cass. Civ. 1980 n 34; Trib. Di Milano 9 settembre 2011.


piattaforme online La natura giuridica delle piattaforme online Uber ed Airbnb

La natura giuridica delle piattaforme online: i casi Uber ed Airbnb

Con le sentenze Airbnb ed Uber la Corte di giustizia si è espressa in merito alla qualificazione giuridica di due importantissime piattaforme online. Con il presente articolo si andrà a comprendere quanto una piattaforma online possa essere qualificata come "società dell'informazione" e quando no.

Uno dei principi fondanti il mercato interno dell’UE è rappresentato dalla libera circolazione dei beni e dei servizi. Dato che si è già avuto modo di trattare alcune delle problematiche che il Legislatore Europeo si è trovato a gestire nel tentare di trovare un equilibrio tra il principio del libero scambio delle merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive competitive (Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva), con il presente articolo si intende incentrare l’attenzione su come il principio della libera circolazione dei servizi si coordini con il funzionamento delle piattaforme online, che sempre più caratterizzano il tessuto economico del mercato interno.

Per fare ciò, bisogna probabilmente partire dalle origini del diritto europeo che, con l’introduzione del mercato interno (art. 26 del TFUE), ha inteso garantire ad ogni soggetto che opera in uno Stato membro di esercitare un’attività economica in un altro Stato membro (art. 54 – Libertà di stabilimento) ed ivi offrire i propri servizi (art. 56 – I servizi)[1].

Con la direttiva 2006/123/CE[2] (relativa
ai servizi nel mercato interno) l’Europa ha inteso rafforzare il principio della
libertà di prestazione di servizi[3], ritenendo
che il perseguimento di tale obbiettivo “mira a stabilire legami sempre più
stretti tra gli Stati ed i popoli europei e a garantire il progresso economico
e sociale
[4], nonché
ad eliminare “ostacoli nel mercato interno [che] impedisc[ono] ai
prestatori, in particolare alle piccole e medie imprese, di espandersi oltre i
confini nazionali e di sfruttare appieno il mercato unico
.”[5]

Per comprendere se i servizi offerti dalle piattaforme online, che sempre più spesso svolgono il ruolo di intermediatori con l'utente finale, rientrino nella definizione di “servizi” di cui agli artt. 56 del TFUE e 4 della direttiva 2006/123 e siano pertanto destinatari delle tutele garantite da tali norme, bisogna in primo luogo dare una definizione di "piattaforma online". Invero, se si ricerca all’interno della normativa europea la sola definizione che ci viene fornita è quella di “intermediazione online” di cui all’art. 2 del Regolamento 2019/1150[6]: tale norma qualifica detta attività come quella prestata dai “servizi della società dell’informazione”, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2015/1535[7], a sua volta ripresa dall’art. 2, lett. a) della  direttiva 2000/31[8] sul commercio elettronico.

È quindi al termine “servizio della società dell’informazione” che bisogna ricorrere per iniziare a dare una veste giuridica a tali soggetti; esso viene qualificato (dalle direttive qui sopra citate) come qualsiasi servizio “prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza[9], per via elettronica[10] e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

L’UE dopo avere definito, seppure genericamente, il concetto di società dell'informazione, con la direttiva 2000/31 ha ritenuto opportuno garantire che il libero mercato dei servizi venga assicurato anche ai soggetti che operano online e, al fine di indurre gli Stati membri ad eliminare le restrizioni alla circolazione transfrontaliera dei servizi resi dalle società dell’informazione, all’art. 2 ha previsto che gli Stati membri non possono adottare provvedimenti che limitano tale esercizio, a meno che non siano necessari per questioni di ordine pubblico, sanità, pubblica sicurezza e tutela dei consumatori (art. 3).

Inoltre ha disposto che lo Stato membro prima di adottare i provvedimenti in questione deve (salva la nullità del provvedimento)[11] avere precedentemente notificato alla Commissione e allo Stato membro sul cui territorio il fornitore del servizio in oggetto è stabilito, la sua intenzione di prendere i provvedimenti restrittivi in questione (art. 3, lett. b, secondo trattino).

Da ciò si evince che è di essenziale importanza comprendere se una piattaforma online possa o meno essere qualificata come società dell’informazione, posto che solo in tale ultimo caso il soggetto godrà delle sopra richiamate specifiche tutele riconosciute dal diritto europeo in tema di libera circolazione dei servizi.

Sul punto, si rileva come la Corte di Giustizia è stata recentemente interrogata proprio su tale questione, in relazione ai servizi di mediazione forniti dalle piattaforme digitali Uber Spagna, Uber Francia ed Airbnb Ireland.  Si vanno qui di seguito ad analizzare brevissimamente tali sentenze, al fine di cercare di comprendere quella che è la ratio che ha portato la Corte a prendere decisioni opposte, su situazioni (apparentemente) tra loro assai analoghe.

1. I casi Uber Spagna e Uber Francia.

Con due decisioni “gemelle”, Uber Spagna del 20.12.2017[12] e Uber Francia del 10.4.2018[13], la Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere se il servizio UberPop, che viene prestato tramite una piattaforma internazionale, debba essere valutato come servizio dei trasporti e in tal caso soggetto alla normativa nazionale che subordina lo svolgimento di tale attività all’ottenimento di una licenza da parte dei trasportatori, oppure un servizio della società dell’informazione, con conseguente obbligo di preventiva approvazione da parte della Commissione dei provvedimenti normativi nazionali che vietano tale attività.

La Corte di Giustizia Europea in prima analisi ha dato atto del fatto che:

un servizio di intermediazione, il quale consenta la trasmissione, mediante un’applicazione per smartphone, delle informazioni relative alla prenotazione di un servizio di trasporto tra il passeggero e il conducente non professionista, che usando il proprio veicolo, effettuerà il trasporto, soddisfa, in linea di principio, i criteri per essere qualificato come ‘servizio della società dell’informazione’.”[14]

In ogni caso, la
Corte continua il proprio ragionamento andando ad analizzare in maniera
dettagliata quelli che sono i servizi di intermediazione effettivamente
prestati tramite l’utilizzo dell’applicazione Uber, rilevando che la compagnia non
si limita unicamente a mettere in contatto (e quindi a intermediare) il
trasportatore ed il trasportato, ma altresì:

  • seleziona i conducenti non professionisti
    che utilizzando il proprio veicolo e tramite l’ausilio dell’app di Uber,
    forniscono un servizio di trasporto a persone che intendono effettuare uno
    spostamento nell’aerea urbana, che altrimenti non sarebbero potuti ricorrere
    a suddetti servizi;
  • fissa se non altro il prezzo
    massimo della corsa;
  • riceve il pagamento del cliente e successivamente
    lo versa al proprio conducente;
  • esercita un controllo sulla qualità dei
    veicoli e dei loro conducenti e sul loro comportamento;
  • in alcuni casi può esercitare nei confronti dei
    propri conducenti l’esclusione dal servizio.

La Corte, analizzato il rapporto nella sua interezza, è quindi giunta alla conclusione di ritenere che:

il servizio di intermediazione in
discussione [deve] essere considerato come parte integrante di un servizio
complessivo di cui l’elemento principale era un servizio di trasporto, e
dunque rispondente non alla qualificazione di “servizio della società dell’informazione”
[…] bensì a quella di servizio della “qualità dei trasporti”, ai sensi
dell’articolo 2 paragrafo 2, lettera d), della direttiva 2006/123.”[15]

Stante tale
inquadramento giuridico del servizio prestato da Uber, la Corte ha ritenuto
legittimi provvedimenti normativi che lo Stato spagnolo e francese avevano
emanato volti a vietare e reprimere l’esercizio di tale attività, tenuto conto
che i servizi di trasporto sono esplicitamente esclusi dall’ambito di
applicazione della direttiva 2006/123[16] (e pertanto
neppure soggetti all’obbligo di informazione alla Commissione di cui all’art. 3
della direttiva 2000/31).

2. Il caso Airbnb del 21.12.2019

La medesima procedura
argomentativa è stata seguita dalla Corte in un caso analogo,[17] ove si
è trovata impegnata a decidere in merito all’inquadramento giuridico del
servizio di intermediazione prestato dalla società Airbnb Ireland tramite la
propria piattaforma elettronica, con la quale vengono messi in contatto, dietro
retribuzione, potenziali locatari con locatori, professionisti o meno, che
offrono servizi di alloggio di breve durata.

La questione era sorta in quanto l’associazione francese per l’alloggio e il turismo professionale (AHTOP) aveva presentato una denuncia nei confronti di Airbnb Ireland, lamentando che la società di diritto irlandese svolgesse nel territorio francese un’attività di mediazione immobiliare, soggetta secondo le normative interne (legge Houget) ad un obbligo di licenza.

Airbnb Ireland, negando di esercitare attività di agente immobiliare, si è costituita in giudizio rivendicando il diritto di libertà di stabilimento e deducendo l’inapplicabilità nei suoi confronti della legge Houget a causa della sua incompatibilità con la direttiva 2000/31, asserendo di operare nel territorio francese unicamente in qualità di società dell'informazione.

La Corte riprendendo quanto deciso nelle precedenti sentenze Uber, ha nuovamente affermato il principio di diritto che per potere riconoscere la natura giuridica di società dell’informazione, non è sufficiente che vengano unicamente soddisfatte le quattro condizioni cumulative di cui all’art. 1, paragrafo 1, lett. b) della succitata direttiva 2015/1535, ma è altresì necessario verificare se risulti che:

detto
servizio di mediazione costituisce parte integrante di un servizio globale il
cui elemento principale è un servizio al quale va riconosciuta una diversa
qualificazione giuridica
”.

La Corte ha ritenuto che i servizi prestati dalla piattaforma relativi a presentare le offerte in maniera coordinata, con aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto con tali offerte, costituisce l’elemento principale del servizio e non possono quindi essere considerati semplicemente accessori di un servizio al quale va applicata la differente vesta giuridica di prestazione di alloggio.[18] Contrariamente, tutti questi servizi (analiticamente analizzati al considerando 19 della sentenza)[19] rappresentano il vero valore aggiunto della piattaforma elettronica che permettono di distinguerla dai propri concorrenti.[20]

Seguendo tale ragionamento, la Corte ha ritenuto che Airbnb Ireland non possa essere inquadrata agente immobiliare, posto che la sua attività non è mirata unicamente alla locazione di alloggio, bensì a fornire uno strumento che agevoli la conclusione di contratti vertenti su operazioni future. Si legge sul punto che:

un servizio come quello fornito dalla
Airbnb Ireland non risulta per nulla indispensabile alla realizzazione di
prestazioni di alloggio sia dal punto di vista dei locatari che dei locatori
che vi fanno ricorso, posto che entrambi dispongono di numerosi altri canali […].
La mera circostanza che la Airbnb Ireland entri in concorrenza diretta con
questi ultimi canali
, fornendo ai suoi utenti, ossia tanto ai locatori come
ai locatari, un servizio innovativo basato sulle particolarità di un’attività
commerciale della società dell’informazione non consente di ricavare da ciò
il carattere indispensabile ai fini della prestazione di un servizio di
alloggio.

Stante la natura giuridica di Airbnb Ireland di società dell’informazione, la Corte ha dichiarato che la stessa non è assoggettata all'obbligo di licenza imposto dalla normativa francese (legge Houget), in quanto limitativa della libera circolazione dei servizi, rilevando altresì che tale provvedimento normativo non era comunque stato notificato alla Commissione in conformità dell’art. 3 della direttiva 2000/31.

Molto interessante notare come la Corte sia giunta ad una diversa decisione rispetto al caso Uber, riconoscendo la natura di servizio della società dell’informazione, sul presupposto che Airbnb Ireland non esercita un’influenza decisiva sulle condizioni della prestazione dei servizi di alloggio ai quali si ricollega il proprio servizio di mediazione, tenuto conto che la stessa non determina né direttamente, né indirettamente i prezzi delle locazioni e non effettua tantomeno la selezione dei locatori o degli alloggi proposti in locazione sulla sua piattaforma.[21]

Dallo studio delle due sentenze, si può quindi rilevare che è l'indipendenza e il mancato controllo sul soggetto che si avvale della piattaforma elettronica per promuovere il proprio servizio, un elemento centrarle per comprendere se la piattaforma online eroghi o meno un servizio di intermediazione, inquadrabile come servizio della società dell'informazione e che tale aspetto deve essere valutato analizzando il rapporto nella sua interezza.

Le sentenze qui sopra riportate hanno certamente un peso assai rilevante non solo da un punto di vista giuridico, in quanto pongono le basi per inquadrare delle figure che occupano sempre più un ruolo fondamentale del nostro tessuto economico e sociale.


[1] Art. 56
TFRUE “Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera
prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei
cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello
del destinatario della prestazione
.”

[2] Direttiva
2006/123/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006,
relativa ai servizi nel mercato interno.

[3] Tale direttiva
definisce all’art. 4, paragrafo 1, come “‘servizio’: qualsiasi attività
economica non salariata di cui all’articolo 50 del trattato fornita normalmente
dietro retribuzione
.”

[4] Id.
Considerando n. 1.

[5] Id.
Considerando n. 2.

[6]
Regolamento del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli
utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, in vigore a decorrere
dal 12.7.2020.

[7]
Direttiva che ha abrogato e sostituito la precedente direttiva
98/34/CE
, che definiva i servizi

[8]
Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo relativa a taluni aspetti giuridici
dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio
elettronico, nel mercato interno (“direttiva sul commercio elettronico”)

[9] La
direttiva definisce: “a distanza: un servizio fornito senza la
presenza simultanea delle parti.

[10] La
direttiva definisce: “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine
e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento
(compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è
interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici
o altri mezzi elettromagnetici.

[11] Cfr.
sul punto Sentenza
del 19.12.2019
Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP).

[12] Sentenza
del 20 dicembre 2017
, Associación Profesional Elite Taxi vs. Uber Systems
SpainSL,

[13] Sentenza
del 10 aprile 2018
, Uber France s.a.s.

[14] Id. 19

[15] Id. 40.

[16] Cfr.
art. 2, paragrafo 2, lettera d) direttiva 2006/123

[17] Sentenza
del 19.12.2019
Airbnb Ireland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels.

[18] Sentenza
del 19.12.2019 Airbnb Irland UC vs. Association pour un hébergemen et un
tourisme professionnels (AHTOP), n. 54

[19] Id. Nel
considerando 19 elenca in maniera analitica i servizi effettivamente offerti da
Airbnb che sono “Oltre al servizio consistente nel mettere in contatto
locatori e locatari tramite la sua piattaforma elettronica di centralizzazione
delle offerte, la Airbnb Ireland propone ai locatori un certo numero di altre
prestazioni, quali uno schema che definisce il contenuto della loro offerta, in
opzione, un servizio di fotografia, parimenti in opzione, un’assicurazione per
la responsabilità civile nonché una garanzia per i danni fino a un importo pari
a EUR 800 000. In aggiunta, essa mette a loro disposizione un servizio
opzionale di stima del prezzo della loro locazione alla luce delle medie di
mercato ricavate da detta piattaforma. Peraltro, se un locatore accetta un
locatario, quest’ultimo trasferisce alla Airbnb Payments UK il prezzo della
locazione al quale va aggiunto un importo, che varia dal 6% al 12% di detto
ammontare, a titolo delle spese e del servizio a carico della Airbnb Ireland.
La Airbnb Payments UK custodisce i fondi per conto del locatore dopodiché, 24
ore dopo l’ingresso del locatario nell’alloggio, li trasmette al locatore
mediante bonifico, consentendo così al locatario di avere la sicurezza dell’esistenza
del bene e al locatore la garanzia del pagamento. Infine, la Airbnb Ireland ha
istituito un sistema mediante il quale il locatore e il locatario possono
formulare un giudizio mediante un voto che va da zero a cinque stelle, voto
consultabile sulla piattaforma elettronica in questione
.”

[20] Id. 64

[21] Id. 68


Vendita di beni, giurisdizione e incoterms

Vendita di beni, giurisdizione e Incoterms (Wx-Works, FCA, CTP e CIF) .

In che maniera l'inserimento di una clausola Inconterms (ex-works, FCA, CIF), può influire sulla giurisdizione in caso di vendita di beni mobili? Brevi cenni sulla normativa europea e sugli sviluppi giurisprudenziali della giurisprudenza italiana ed europea.

1. Giurisdizione, vendita e incoterms: brevi cenni sulla normativa europea

In caso di compravendita di beni in ambito europeo, le parti hanno la facoltà di concordare in anticipo quali giudici saranno competenti a decidere su eventuali controversie che possano insorgere tra loro. Tale principio, di deroga del foro, è disciplinato dall’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012,[1] che prevede come condizione di validità il fatto che l’accordo attributivo della giurisdizione sia stato:

  • concluso per iscritto o provato per iscritto;[2]
  •  in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o
  • nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato.

Qualora le parti non abbiano espressamente formulato tale scelta, la giurisdizione sarà principalmente regolata dai seguenti principi:

  • il principio generale del foro del convenuto (art. 4 del Regolamento) e
  • il principio dell'”esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio” (art. 7 del Regolamento).

Con specifico riguardo a tale secondo opzione, l’art. 7 del Regolamento, dispone che una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro:

  1. in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio;[3]
  2. ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al con­tratto.”[4]

Leggendo tale norma, non si comprende appieno cosa debba intendersi per “luogo di consegna”, ossia se si debba considerare tale luogo quello in cui è avvenuta la consegna materiale al venditore, oppure se possa ritenersi sufficiente il luogo di consegna al vettore.

Per sciogliere tale dilemma è venuta in soccorso la Corte di Giustizia,[5] affermando che:

L’art. 5, punto 1, lett. b), primo trattino, del regolamento n. 44/2001[6] deve essere interpretato nel senso che, in caso di vendita a distanza, il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto deve essere determinato sulla base delle disposizioni di tale contratto

Se non è possibile determinare il luogo di consegna su tale base, senza far riferimento al diritto sostanziale applicabile al contratto,[7] tale luogo è quello della consegna materiale dei beni mediante la quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe dovuto conseguire il potere di disporre effettivamente di tali beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita.”

2. Vendita di beni, giurisidizione ed incoterms: le pronuncie delle Sezioni Unite e della Corte di Giustizia.

A tale principio si è adeguata la giurisprudenza italiana: le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che in tema di vendita internazionale di beni mobili, qualora il contratto abbia ad oggetto merci da trasportare (se non diversamente concordato dalle parti), il “luogo di consegna” deve essere individuato nel luogo di recapito finale della merce, ossia ove i beni entrano nella disponibilità materiale e non soltanto giuridica dell’acquirente, con conseguente giurisdizione

del giudice del [luogo di recapito finale della merce] rispetto a tutte le controversie reciprocamente nascenti dal contratto, ivi compresa quella relativa al pagamento dei beni alienati.[8]

Fissato tale principio, nel 2011 alla Corte di Giustizia[9] è stato sottoposto un nuovo quesito, ossia se nel contesto dell’esame di un contratto, al fine di determinare il luogo di consegna, il giudice debba anche tenere conto degli Incoterms. La Corte si è così espressa:

“il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti di tale contratto che siano idonei a identificare con chiarezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale, quali gli Incoterms («International Commercial Terms»), elaborati dalla Camera di commercio internazionale, nella versione pubblicata nel 2000.

In particolare,

per quanto riguarda l’Incoterm «Ex-Works», […] tale clausola comprende […] anche le disposizioni dei punti A4 e B4, intitolati rispettivamente «Delivery» e «Taking delivery», che rinviano al medesimo luogo e consentono quindi di individuare il luogo di consegna dei beni.

La Corte UE ha quindi stabilito che gli Incoterms, possono essere un elemento che permette al giudice di comprendere se le parti abbiano o meno concordato un luogo di consegna differente rispetto al luogo di recapito finale. In particolare, con l’accettazione delle parti del termine “ex-works Iconterms”, le parti concordano che la consegna materiale della merce debba avvenire presso la sede del produttore e, pertanto, in caso di mancata deroga di competenza delle parti, il giudice competente a decidere sarà quello della sede del venditore.

La giurisprudenza nazionale ha recepito tale orientamento, precisando comunque che il principio generale della consegna materiale può essere derogato unicamente se ciò si evince sulla base di una “chiara ed esplicita” determinazione contrattuale. La Cassazione[10] ha quindi negato che possa “assumere valore la dicitura ex Works unilateralmente inserita nelle fatture emesse da parte venditrice, dovendo tale modalità di consegna essere stata concordata tra le parti.

La Corte di Cassazione, ha ritenuto che tali caratteristiche di chiarezza, non risultano da tutti i termini previsti negli Incoterms, posto che per essere valida anche ai fini della determinazione della giurisdizione e, quindi, assumere prevalenza, deve essere chiara, esplicita ed inequivocabile.

È stato quindi negato che le clausole CTP,[11] CIF[12] e FCA[13] palesino una chiara ed univoca volontà delle parti di stabilire il luogo di consegna della merce, in deroga al criterio fattuale del recapito finale, atteso che tali clausole sono piuttosto intese a regolamentare la ricaduto del rischio sul compratore.[14]


[1] Regolamento che ha sostituito il precedente Regolamento UE 44/2001.

[2] Con riferimento alla forma scritta, essa “comprende qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo della competenza” ex art. 25.2 del reg. La Corte di giustizia ha chiarito che le finalità di tale articolo è “quella di equiparare determinate forme di comunicazione elettronica alla forma per iscritto, in vista di semplificare la conclusione dei contratti con mezzi elettronici, poiché la comunicazione delle informazioni sono accessibili attraverso uno schermo.

Affinché la comunicazione elettronica possa offrire le stesse garanzie, in particolare in materia di prova, è sufficiente che sia ‘possibile’ salvare e stampare le informazioni prima della conclusione del contratto.” (CG UE 21.5.2015, CarsOnTheWeb.Deutschland GmbH). Le Sez. Un. della Cassazione 2009 n. 19447, hanno altresì affermato che la forma scritta di cui all’art. 23.2 del reg. 01/44 potesse essere integrata dalla registrazione delle fatture emesse dalla controparte sui sistemi elettronici interni della società.

[3] La giurisprudenza europea, ha affermato che, ove sussistano più obbligazioni derivanti dallo stesso contratto “il giudice adito, per determinare la propria competenza, si orienterà sul principio secondo il quale l’accessorio segue il principale; in altre parole sarà l’obbligazione principale, fra le varie in quesitone, quella che determinerà la competenza” CG UE 15.1.1987, Shenavai;  15.6.2017 Saale Kareda.

[4] Tale clausola, riprende parimenti quella di cui all’art. 5, 1, lett. b. del reg. 44/2001. In particolare, con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente, per i contratti di vendita, con la passata soluzione secondo cui il luogo di esecuzione era determinato, per ciascuna delle obbligazioni controverse, in conformità del diritto internazionale privato del giudice adito.

Designando il luogo di esecuzione, il legislatore comunitario ha voluto centralizzare la competenza giurisdizionale nel luogo di adempimento e determinare una competenza giurisdizionale unica per tutte le domande fondate sul contratto di vendita. In materia cfr. anche CG UE 3.5.2008, Color Drack. Sul punto cfr. Pirruccio, Contratti inutilizzabili se non esplicite le clausole Incoterms, Guida al Diritto, 35-36, 2019, Gruppo24Ore.)

[5] Sentenza Car. Trim GmbH C-381/08.

[6] Disposizione che è stata parimenti ripresa dall’art. 7, co. 1, lett. b) del reg. 1215/2012.

[7] Secondo la dottrina (Pirruccio, op. cit.) ai fini dell’individuazione del “luogo di consegna” dei beni non è possibile fare riferimento alle definizioni del diritto nazionale (quale l’art. 1510 c.c.) dalla cui applicazione rischierebbe di essere vanificata la finalità del Regolamento. Attenzione (!), tale ultima disposizione, può invece essere utilizzata (almeno come spunto difensivo) nel caso in cui la vendita abbia carattere extra UE e, quindi, non si applica il Regolamento: cfr. Cass. Civ. 1982 n. 7040.

[8] Cass. Civ. Sez. Un. 2009 n. 21191, Cass. Civ. 2014 n. 1134. Attenzione(!) in caso di mancata applicazione del diritto Europeo (ad es. per le vendite extra UE): contra Cass. Civ. sez. Un. 2011 n. 22883.

[9]Sentenza Electrosteel Europe SA – Causa
 C‐87/10.

[10] Cass. Civ. ordinanza n. 24279 del 2014.

[11] Tribunale di Padova, 3.5.2012.

[12] Cass. Civ. 2018 n. 32362.

[13] Cass. Civ. 2019 n. 17566.

[14] In materia cfr anche http://www.membrettilex.com/ruolo-degli-incoterms-2010-nella-determinazione-del-giudice-competente/.


Distribuzione selettiva ed esclusiva. Sistema misto

Distribuzione selettiva ed esclusiva: il sistema misto funziona?

Cosa succede se un produttore applica in ambito europeo un sistema misto (distribuzione selettiva ed esclusiva). Quali sono i principali vantaggi e svantaggi?

Come si è già avuto modo di rilevare, il Legislatore Europeo è da sempre
impegnato a trovare un bilanciamento tra il principio del libero scambio delle
merci e l’interesse dei produttori di creare delle reti distributive
competitive.

Il compromesso a cui è arrivato il Legislatore è oggi disciplinato dal Regolamento
330/2010
sulle vendite verticali, che stabilisce quali accordi tra imprese
appartenenti alla medesima rete distributiva siano soggetti al divieto di
intese imposto dall’art.
101, par. 1 del Trattato Europeo
e quali, invece, beneficino dell’esenzione
da tale divieto (ex art. 103, par. 3).

In sostanza, viene conferito al produttore di scegliere tra due modalità
di distribuzione: una generale utilizzabile da ogni tipologia di produttore (quella
esclusiva) e una particolare per specifiche situazioni (quella selettiva) (cfr.
sul punto La
distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi
e Clausole
di esclusiva e accordi economici verticali in ambito europeo: e-commerce ed
esclusiva territoriale
).

Con la distribuzione esclusiva, il fornitore divide i mercati in
cui opera attraverso la nomina di distributori esclusivi, i quali si impegnano
ad acquistare le merci e a promuoverne la vendita in maniera tendenzialmente
libera.

L’art. 4 lett. a) del Regolamento prevede, infatti, che il produttore non
può restringere, né direttamente, né indirettamente,[1] la
facoltà del distributore esclusivo di determinare il prezzo di rivendita,
fatta salva la possibilità di imporre un prezzo massimo o raccomandare un
prezzo di vendita.[2]

Il produttore, inoltre, non potrà impedire, ex art. 4 lett. a) del
Regolamento, che il distributore effettui
delle vendite attive
[3]
all’interno del territorio, salva la facoltà di riservare a sé dei clienti
direzionali e impedirgli la vendita al dettaglio, al fine mantenere tale
livello della catena commerciale, distinto da quello al dettaglio.[4]

Da ultimo il distributore avrà altresì il diritto di effettuare delle
vendite fuori dal territorio, a condizione che le stesse costituiscano risposta
ad ordini non sollecitati di singoli clienti che si trovano fuori dal
territorio (cd. vendite
passive
).[5]

È chiaro che tale libertà del distributore esclusivo è spesso incompatibile
con quelli che sono gli interessi di alcune tipologie di produttori, in
particolare di chi opera nel lusso o sviluppi prodotti tecnicamente molto
complessi
, che sarà maggiormente interessato, piuttosto che ad una
distribuzione capillare, al fatto che i propri prodotti vengano rivenduti
unicamente da rivenditori autorizzati.

Come
si è già avuto modo di trattare
, eccezionalmente per specifiche situazioni
è prevista la facoltà per il produttore di creare un sistema di distribuzione
selettiva
, che gli consente, ex art. 4 lett b), iii),  di vietare ai membri del sistema selettivo di
vendere a distributori non autorizzati nel territorio che il produttore ha
riservato a tale sistema: in un sistema selettivo i beni possono passare solo
dalle mani di un’impresa ammessa alla rete a quelle di un'altra, ovvero a
quelle dell’utilizzatore finale.[6]

In osservanza del principio del libero scambio delle merci, quale
contropartita del diritto del produttore di imporre tali limitazioni alla
libertà di rivendita dei membri del sistema, il Regolamento:

  • all’art. 4, lett b), iv), conferisce agli stessi, la libertà di effettuare le cd. vendite incrociate, che consistono nell’approvvigionarsi senza ostacoli presso “altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale”[7];
  • all’art. 4, lett. c) impedisce al produttore di limitare ai membri di un sistema distribuzione selettiva, operanti nel commercio al dettaglia, le vendite attive o passive agli utenti finali.[8]

Ciò premesso, molto spesso un produttore, per questioni pratiche, gestionali ed economiche, non è in grado di applicare per l’intero mercato europeo un unico sistema distributivo e riserva la distribuzione selettiva unicamente per i Paesi che sono per lui più strategici. In tale ambito, si pone la questione di comprendere, in primo luogo se tale sistema “misto” sia legittimo e, in secondo luogo, quali sono i rischi ad esso annessi.

1. Sistemi misti all’interno dello stesso territorio.

L’adozione di un sistema misto all’interno dello stesso territorio comporterebbe un conflitto di interessi tra il distributore esclusivo, che avrebbe il diritto di essere tutelato dalle vendite attive nel proprio territorio, e il distributore selettivo, che avrebbe il diritto di effettuare vendite attive e passive all’interno del territorio esclusivo, a norma del sopra richiamato art. 4, lett c) del Regolamento.

La Commissione si è domandata in merito alla legittimità di un sistema misto ed ha chiarito, tramite gli Orientamenti, che una siffatta combinazione non è ammissibileall’interno del territorio in cui il fornitore gestisce una distribuzione selettiva […] poiché renderebbe una restrizione delle venite attive o passive da parte dei rivenditori” incompatibile con l’art. 4, lett. c).[9]

2. Sistemi misti in territori differenti dell’UE.

Posto che il divieto degli Orientamenti di applicare un sistema misto si riferisce unicamente alla circostanza che lo stesso venga sviluppato all’interno dello stesso territorio, si desume implicitamente che il diritto antitrust non vieta al produttore di creare un sistema misto all’interno dei differenti Stati Membri.

Ciò non toglie che tale scelta, seppure legittima, possa comunque creare delle problematiche di non poco rilievo, consistenti principalmente nell’impossibilità del produttore di controllare:

  • le vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo;
  • le vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.

Si vanno qui di seguito ad analizzare, assai brevemente, le singole fattispecie.


a) Vendite provenienti dal territorio esclusivo, dirette al territorio selettivo.

Sul fatto che al distributore esclusivo non possa essere impedito di effettuare vendite passive al di fuori del territorio e, quindi, anche all’interno di un sistema distributivo selettivo che il produttore ha riservato per un altro territorio, risulta piuttosto pacifico.

Più controverso (e impattante da un punto di vista commerciale) è la
questione se il distributore esclusivo possa effettuare anche delle vendite
attive all’interno del territorio selettivo
e, quindi, effettuare anche delle
vere e proprie campagne commerciali all’interno di tale territorio. Da una lettura
rigorosa del Regolamento si evince che l’art. 4, lett. b), i), vieta ai
distributori esclusivi di effettuare vendite attive “nel territorio
esclusivo o alla clientela esclusiva riservati al fornitore o da questo
attribuiti ad un altro acquirente”
e non estende tale divieto anche al
sistema distributivo.

Sul punto ad oggi non risultano precedenti giurisprudenziali che abbiano chiarito tale questione che rimane ancora aperta. In ogni caso, si ritiene possa essere legittima una clausola contrattuale che imponga al distributore esclusivo di effettuare vendite attive nel sistema selettivo, che, per le modalità in cui vengono presentate al pubblico, non creino pregiudizio all’immagine di lusso e di prestigio dei prodotti del produttore (sul punto cfr. anche La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley.).


b) Vendite provenienti dal territorio selettivo, dirette al territorio esclusivo.

I problemi per il produttore esclusivo, in caso in cui il produttore crei
un mercato misto, sono essenzialmente collegati al fatto che:

  • in primo luogo, ex art. 4, lett. c) del
    Regolamento, il produttore non può vietare ai dettaglianti autorizzati di
    effettuare delle vendite passive ed attive all’interno dell’UE. Ci si chiede se
    tra queste debbano essere anche incluse le vendite all’interno del
    territorio esclusivo
    , oppure se l’esclusiva del distributore lo protegge da
    tali azioni di vendita;
  • in secondo luogo, il produttore può vietare, ex
    art. 4, lett. b, iii), le vendite dei membri del sistema selettivo a rivenditori
    non autorizzati all’interno del territorio che il produttore stesso ha
    riservato a tale sistema. Ne consegue che, da una lettura restrittiva della norma,
    tale divieto non parrebbe potere essere esteso anche alle vendite che i
    distributori selezionati effettuino al di fuori del sistema distributivo
    selettivo
    : se si seguisse tale interpretazione, i distributori autorizzati potrebbero
    vendere liberamente all’interno di un differente territorio riconosciuto in
    esclusiva ad un distributore nominato dal produttore.

Con riferimento ai punti qui sopra richiamati, si fa presente che gli
Orientamenti dispongono che “ai rivenditori di un sistema di distribuzione
selettiva […] non possono essere imposte restrizioni tranne per proteggere un
sistema di distribuzione esclusiva gestito altrove.
[10]

Ci si trova in una situazione di grave incertezza interpretativa,
posto che da una lettura del dettato normativo, si propende per ritenere che il
titolare di una esclusiva non abbia il diritto di essere tutelato dalle “invasioni
di zona” da parte dei distributori selettivi, mentre gli Orientamenti farebbero
propendere per la tesi opposta.[11]

Unica cosa che è certa è che i rischi di creare un sistema misto sono molto elevati e che se tale strategia distributiva viene adottata dal produttore, nel medio-lungo periodo comporterebbero grandissime difficoltà nella gestione, soprattutto delle vendite parallele e delle reciproche e continue invasioni di zona.


[1] L’art. 4 lett. a) prevede, infatti, che l’imposizione
di prezzi fissi, non può avvenire neppure indirettamente, per effetto di
pressioni esercitate o incentivi offerti da una delle parti. Gli Orientamenti,
n. 48 elencano numerosi esempi di misure del genere e, in particolare “accordi
che fissano il margine del distributore, o il livello massimo degli sconti che
il distributore può praticare a partire da un livello di prezzo prescritto; la
subordinazione di sconti o del rimborso dei costi promozionali da parte del
fornitore al rispetto di un dato livello di prezzo; il collegamento del prezzo
di rivendita imposto ai prezzi di rivendita dei concorrenti; minacce,
intimidazioni, avvertimenti, penalità, rinvii o sospensioni di consegne o
risoluzioni di contratti in relazione all’osservanza di un dato livello di
prezzo
” In giurisprudenza, si richiama la decisione della Commissione, Caso Yamaha, 16.7.2003, nella quale sono stata riconosciuta come imposizione
indiretta dei prezzi la seguente clausola: i premi/bonus “saranno
concessi solo ai rivenditori che abbiano applicato, nelle loro azioni
pubblicitarie, i margini normali” e che “le azioni pubblicitarie e
promozionali che prevedano sconti superiori al 15% non sarebbero da noi
considerate normali.”

[2] Importante sottolineare che gli Orientamenti, n. 225
giustificano tale scelta del Legislatore Europeo, ritenendo che “’l’imposizione
di prezzi di rivendita può […] ridurre il dinamismo e l’innovazione al livello
di distribuzione [e così] impedire a dettaglianti più efficienti di entrare sul
mercato e/o di acquisire dimensioni sufficienti con prezzi bassi.”
D’altro
canto, viene altresì dato atto del fatto che “A volte l’imposizione di
prezzi di rivendita non ha soltanto l’effetto di limitare la concorrenza ma può
condurre, in particolare se determinata dal fornitore, a incrementi di
efficienza, che verranno valutati ai sensi dell’articolo 101, paragrafo
3 […].
L’imposizione di prezzi di rivendita più evitare un fenomeno di parassitismo
[…].  
Secondo la migliore Dottrina
(Pappalardo, 356, op. cit.) in attesa di decisioni che consentono di verificare
con tale apertura della Commissione, certamente il fondamento dell’approccio
aperto e positivo della Commissione, è preferibile considerarlo come la
conferma dell’assenza, nel diritto della concorrenza dell’UE, di divieti
automatici.

[3] Cfr.
Orientamenti, n. 51.

[4] Sul punto cfr. anche Orientamenti, n. 55.

[5] Cfr. Orientamenti, n. 51.

[6] Cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza
dell’Unione Europea
pag. 363, 2018, UTET.

[7] Sul punto gli Orientamenti, n. 58, dispongono che “[…]
un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o
indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei
prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere
liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete,
operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale
.”

[8]

[9] N. 57.

[10] Orientamenti,
n. 56.

[11] Sul
punto cfr. Pappalardo, op. cit., 364.


geoblocking, diritto antitrust

Vendere online all'estero: legge applicabile, geoblocking e diritto antitrust.

Il presente articolo è volto a fornire al lettore degli spunti per strutturare una strategia di vendita online indirizzata ai mercati esteri, che tenga conto delle normative comunitarie sul geoblocking, delle normative dei Paesi in cui si intende esportare e, non da ultimo, del diritto antitrust.

1. Geoblocking: cos’è e quando si applica?

In primo luogo bisogna
analizzare la recente disciplina europea, introdotta con Reg.
28 febbraio 2018, n. 302/2018
, in vigore dal 3 settembre 2018, recante
misure volte a impedire i blocchi geografici ingiustificati (conosciuta anche
come “geoblocking”).

Il geoblocking è stato introdotto dall’UE con
il fine di assicurare che venga correttamente applicato anche al mercato
elettronico, uno dei principi fondanti dell’Unione Europea: la libera circolazione
delle merci.

Il nuovo Regolamento, si
propone dunque di impedire i blocchi geografici ingiustificati o altre forme di
discriminazione basate, direttamente o indirettamente, sulla nazionalità, sul luogo
di residenza o stabilimento dei clienti.

L’art. 3 di tale regolamento dispone
infatti che:

Un professionista [ossia un imprenditore/impresa]
non può bloccare o limitare attraverso l’uso di strumenti tecnologici o
in altro modo, l’accesso di un cliente alla sua interfaccia online per
motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento
del cliente.”

Tale articolo prosegue:

“Un professionista
non può per motivi legati alla nazionalità
, al luogo di residenza, o al
luogo di stabilimento di un cliente, reindirizzare tale cliente ad una versione
della sua interfaccia online diversa da quella cui il cliente desiderava
accedere inizialmente
, per via della sua struttura della lingua usata o di
altre caratteristiche che la rendono specificamente destinata ai clienti con
una particolare nazionalità, luogo di residenza o luogo di stabilimento, a
meno che il cliente non vi abbia esplicitamente acconsentito
.”

Da un punto di vista concreto, il
Regolamento vieta la pratica per la quale venga impedito ad un utente, ad
esempio francese, di comperare un prodotto su sito italiano, in quanto viene reindirizzato
automaticamente su altro sito designato a gestire i clienti francesi.

Attenzione, con ciò non si
intente che il professionista non possa usare diverse versioni della propria
interfaccia online, al fine di rivolgersi a clienti provenienti da
Stati membri diversi[1]
(ad esempio la versione in lingua tedesca, per il mercato tedesco, quella
francese per la Francia, etc.), ma impone che le diverse versioni pensate per i
differenti mercati, possano essere accessibili da tutti i paesi dell’UE (un
francese, può vedere il sito italiano e le condizioni di vendita ivi contenute).

Sul punto, l’art. 3, comma 2,
punto 2 del Regolamento chiarisce infatti che:

in caso di reindirizzamento con l’esplicito
consenso del cliente, la versione dell’interfaccia online del professionista
cui il cliente desiderava accedere inizialmente deve restare facilmente accessibile
al cliente in questione.”

Ne consegue che il professionista non solo sarà libero di utilizzare diverse versioni della propria interfaccia online per rivolgersi a clienti provenienti da Stati membri diversi, ma anche di reindirizzare automaticamente il cliente ad una determinata versione dell’interfaccia, qualora l’utente abbia espresso il proprio consenso esplicito[2] ed a condizione che l’utente sia comunque libero di accedere a tutte le altre versioni della stessa interfaccia.


2. Geoblocking significa che devo vendere ovunque?

Un punto va chiarito: il nuovo Regolamento
cancella il blocco, ma non obbliga a vendere fuori dal proprio Paese.

Il geoblocking non limita la possibilità di decidere
di commercializzare i propri prodotti online in determinati Paesi, bensì vieta
che se il sito prevede la consegna unicamente in determinati paesi (per
semplificare, in Italia), venga impedito al cliente di altro Paese comunitario (Germania)
di acquistare online quel prodotto, ove accetti la consegna in Italia.[3]

Inoltre, se si prevede la commercializzazione
in più Paesi è consentita una differenziazione di prezzi, per tener conto, ad esempio,
dei diversi costi da sostenere per la consegna della merce, purché la scelta
non avvenga in maniera discriminatoria.

Infatti, l’art. 4, comma 1 del Regolamento
dispone che il geoblocking:

non impedisce ai professionisti di offrire condizioni generali di accesso, ivi compresi prezzi di vendita netti, che siano diverse tra Stati membri o all’interno di uno Stato membro e che siano offerte a clienti in un territorio specifico o a gruppi specifici di clienti su base non discriminatoria.”


3. A chi rivolgo la vendita?

Posto che la proposta di
vendita inserita online sul proprio sito comporta che la stessa sia visibile
da parte di tutti gli utenti della rete, in assenza di precisazioni si
applicherebbe la disciplina generale che prevede che se il professionista dirige
la propria attività di vendita in un determinato Stato estero, implicitamente fa
ritenere che la vendita sia rivolta anche ai clienti domiciliati in quel determinato
Paese.

Ne consegue che se il sito è
tradotto in tedesco è implicito che la vendita venga rivolta nei confronti di Germania,
Austria, Lichtenstein e Lussemburgo, così come se è tradotto in inglese, che la
stessa venga promossa nei confronti di (quasi) tutto il mondo.

Seppure la scelta di “massima
apertura” possa sembrare commercialmente molto conveniente, si invita a valutarla
prudenzialmente, avendo la stessa notevoli ripercussioni giuridiche (principalmente
collegate alla legge applicabile ai singoli contratti di vendita ed alla
violazione di eventuali norme straniere), fiscali (in particolare con
riferimento alla soggezione della transazione all’IVA del Paese di domicilio dell’acquirente)
e doganali (in caso di vendita Extra UE).

Pertanto, affinché non vi siano dubbi, una volta che si è valutato in quali Paesi si intende dirigere effettivamente la propria attività di vendita, è consigliato indicarlo direttamente nel sito e nelle condizioni generali di vendita.


4. Da quale legge e disciplinata la vendita?

Se le vendite sono rivolte solamente
ad un mercato (ad es., per semplificare, l’Italia), con consegna della merce
nel territorio di tale Paese e l’acquirente è un consumatore domiciliato in un diverso
Paese (ad es. Germania), che richiede che la consegna della merce avvenga in
Italia, tale vendita sarà regolata dal diritto italiano, senza che ci si debba preoccupare
di prevedere nelle condizioni generali di vendita di rispettare eventuali norme
imperative previste dalla Germania. [4]

Diverso discorso, invece, nel caso in cui l’ordine parte dalla Germania e la consegna della merce avvenga in territorio tedesco, in tal caso, la legge applicabile al contratto di vendita sarà il diritto tedesco e, nel caso in cui l’utente finale è un consumatore, tale scelta non potrà essere derogata, neppure con il consenso scritto delle parti.[5]


5. Violazione degli obblighi di informazione e normative straniere.

Se il sito prevede la vendita
anche in Paesi diversi dall’Italia, sarà necessario organizzarlo assicurandosi
che:

  • le condizioni generali di vendita rispettino gli obblighi di
    informazione al consumatore, di cui all’art. 6 del comma 1 della Direttiva
    2011/83/UE;[6]
  • le condizioni generali di vendita rispettino eventuali norme imperative
    dei Paesi in cui si intende esportare, diverse e/o ulteriori rispetto a quelle
    previste dalla legge italiana;
  • siano inseriti sul sito le informazioni commerciali richieste dallo
    Stato in cui si esporta.

Con riferimento ai sopracitati
obblighi informativi, si evidenzia che:

  • la limitazione alla consegna della merce deve risultare con chiarezza
    dal sito, sin dall’inizio dell’iter che porta alla conclusione del contratto, ex art. 8, comma 3 della
    Direttiva 2011/83/UE;[7]
  • dovranno essere nella lingua del consumatore (l’art. 8 comma 1 della Direttiva
    prevede l’obbligo di “informare il consumatore con un linguaggio semplice e comprensibile”).[8]

La sanzione in caso di
violazione degli obblighi d’informazione al consumatore consiste nell’estensione
del diritto di recesso da quattordici giorni, a dodici mesi e quattordici
giorni.[9]

Oltre al rischio di tale sanzione, in alcuni Paesi europei vi è altresì quello di subire una diffida e, nei casi più gravi, un’azione inibitoria davanti al Tribunale competente: la legge tedesca, ad esempio, prevede che in caso di clausole inefficaci nelle condizioni generali di vendita e di violazione delle norme a tutela dei consumatori, la diffida e/o azione inibitoria possa essere esperibile non solo dal consumatore, ma addirittura da un concorrente, ovvero da un’associazione di tutela dei consumatori.[10]


6. Possono i distributori e rivenditori vendere online?

Nel caso in cui il produttore si avvalga anche di distributori e rivenditori terzi per la commercializzazione dei propri prodotti, è opportuno ricordare brevemente quelli che sono i poteri di controllo nei confronti di tali soggetti, rimandando, per maggiori approfondimenti, alla sezione antitrust di questo blog.

Il Regolamento 330/2010 sulle vendite verticali e recenti sentenze della Corte di Giustizia Europea[11] hanno previsto che un produttore non può vietare ad un proprio distributore/rivenditore di vendere i prodotti acquistati attraverso un proprio sito internet, né commercializzare per mezzo di piattaforme digitali di terzi soggetti.

L’unico modo per limitare tale possibilità da parte di soggetti terzi è (per i prodotti di alta gamma, di lusso e tecnicamente sviluppati) quello di creare una rete distributiva selettiva, in cui i distributori e rivenditori si impegnano a vendere i beni oggetto del contratto, solamente a distributori selezionati sulla base di criteri oggettivi di carattere qualitativo stabiliti indistintamente e non discriminatorio per tutti i soggetti appartenenti alla rete.

In tal caso, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia,[12], un produttore è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività di vendita online sia realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che venga in tal modo preservata l’aurea di lusso ed esclusività di questi prodotti (sul punto cfr. il Caso Amazon e Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).


[1] Confronta considerando n. 20
del Regolamento sul geoblocking.

[2] Il consenso una volta prestato, può essere ritenuto valido
anche per le visite successive dello stesso cliente alla stessa interfaccia
online, purché venga offerta la possibilità al cliente di revocarlo quando ritiene
opportuno. Sul punto cfr. considerando n. 20 del Regolamento sul geoblocking.

[3] Sul punto cfr. Stefano
Dindo, E-Wine, Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino
online, G. Giappichelli Editore, p. 41, 2018.

[4] In base all’art. 6, comma 1,
lett. a) e b) del Regolamento 593/2008.

[5] Cfr. nota precedente.

[6] Direttiva 2011/83/UE del
parlamento europeo e del consiglio del 25 ottobre 2011 sui diritti dei
consumatori. Importante, trattandosi di Direttiva (e non di Regolamento), la
stessa deve essere recepita con delle leggi nazionali, lasciando comunque i
Paesi membri liberi di scegliere la via normativa più consona per raggiungere gli
obiettivi ivi imposti; ne consegue che ogni Paese e libero di inserire degli
obblighi informativi ulteriori rispetto a quelli indicati nella direttiva stessa.

[7] Art. 3 Direttiva 2011/83/UE:
“I siti di commercio elettronico indicano in modo chiaro e leggibile, al più
tardi all’inizio del processo di ordinazione, se si applicano restrizioni
relative alla consegna e quali mezzi di pagamento sono accettati.”

[8] Attenzione! Tali parametri
di lingua devono essere inoltre rispettati anche per l’applicazione delle disposizioni
del GDPR. Sul punto cfr. Considerando n. 20 di tale Regolamento.

[9] Art. 10 comma 1 della Direttiva 2011/83.

[10] Cfr. Robert Budde, E-Wine,
Aspetti gius-economici della comunicazione e distribuzione del vino online, G.
Giappichelli Editore, p. 51 e ss., 2018.

[11] Cfr. sentenza Corte di
Giustizia nel caso Pierre Fabre C‑439/09.

[12] Sentenza del 6 dicembre 2017,  C-230/16 Coty Germany GmbH.


vendite parallele

Le vendite parallele nell'UE. Quando e fino a che punto può un produttore controllarle?

Quando si parla di vendite parallele, ci si riferisce alle importazioni che si affiancano a quelle effettuate da un importatore “ufficiale”, ossia territorialmente competente[1]: i commercianti paralleli entrano nel mercato riservato a distributori esclusivi, senza avere accesso diretto al fornitore, che appunto alimenta e fornisce unicamente i rivenditori autorizzati.

Il commercio parallelo, nel corso degli anni ha assunto forme assai diversificate e spesso ha permesso il sorgere di reti commerciali “alternative”, che si sono affiancate a quelle ufficiali impostate dal produttore; a volte sono alimentate dai distributori esclusivi stessi, che avendo acquistato la merce dal produttore, trovano più conveniente rivenderla a commercianti paralleli, con i quali hanno instaurato dei rapporti commerciali; altre volte i commercianti paralleli si procurano i beni presso rivenditori al dettaglio di un altro paese, ove i prezzi di mercato sono più bassi.[2]

1. È lecito un sistema di vendita esclusivo che blocca la distribuzione parallela?

La normativa comunitaria, si è sin dal principio confrontata con tale fenomeno ed ha dovuto cercare di trovare un bilanciamento tra, da un lato, il principio del libero scambio delle merci e, dall’all’altro lato, gli interessi commerciali dei singoli produttori di suddividere i diversi mercati europei tramite la nomina di concessionari esclusivi. L’impostazione della Commissione è stata da sempre, quella di permettere al produttore di creare delle reti tramite la nomina di concessionari esclusivi, affinché questi potesse gestire con maggiore facilità i diversi mercati europei. Il “compromesso” che è stato raggiunto, è stato quello di creare una netta linea di demarcazione tra le forme di distribuzione esclusiva “aperta”, considerate in linea di principio ammissibili, e le c.d. esclusive “chiuse”, ritenute quasi sempre non autorizzate[3].

Le prime forme si contraddistinguono dal fatto che il concessionario ottiene il diritto di essere l’unico soggetto a venire rifornito dal produttore in un determinato territorio. In ogni caso, la posizione che viene a questi garantita non è di “monopolio”, posto che gli importatori paralleli, nelle modalità e con i limiti che verranno di seguito descritti, potranno acquistare la merce da soggetti terzi (grossisti o concessionari di altre zone), per poi, eventualmente, rivenderli anche nel territorio esclusivo del concessionario.

Contrariamente, l’esclusiva “chiusa” è caratterizzata dal fatto che al concessionario viene garantita una protezione territoriale perfetta e ciò tramite l’imposizione a tutti i distributori della rete di non rivendere a soggetti al di fuori dalla loro zona e con l’ulteriore obbligo di imporre tale divieto anche ai loro acquirenti e così via.

Tale impostazione è stata assunta nella (ormai lontana) decisione Grundig[4], alla quale la Commissione non si è mai allontanata, ove è stato appunto ritenuto contrario ai principi del mercato unico europeo, la protezione assoluta dei concessionari e la creazione di distribuzioni esclusive chiuse, tramite, ad es[5]:

  • divieto di esportare imposto dai fornitori ai distributori;
  • approvvigionare commercianti noti per la loro attività di rivendita al di fuori delle zone stabilite;
  • differenziazione dei prezzi in funzione della destinazione;
  • riduzione o vera e propria soppressione degli sconti ai grossisti che avessero effettuato esportazioni indesiderate[6];
  • riduzione delle quantità abitualmente cedute ai grossisti, con l’intento di scoraggiare l’esportazione parallela.

La Corte ha quindi ritenuto, non solo che i contratti di distribuzione con protezione territoriale assoluta rientrano nel divieto dell’art. 101, § 1 TFUE, ma addirittura che tali accordi sono vietati unicamente sulla base del loro oggetto restrittivo, senza che sia necessario effettuare alcuna indagine di mercato, atta a verificare gli effetti che tali divieti abbiano effettivamente sul mercato.

2. Il Regolamento 330/2010: vendite attive e passive.

L’impostazione della Corte è stata confermata anche dal Regolamento 330/2010, sulle vendite verticali. Il Regolamento, da un lato, conferisce la facoltà di suddividere il mercato tramite la concessione di esclusive aperte[7], dall’altro lato, prevede all’art. 4, let. b) la validità di clausole contrattuali che impongono agli importatori il divieto di vendite attive [8] (e non passive[9]) nel territorio esclusivo o alla clientela esclusiva riservati ad altri distributori. Importante sottolineare il fatto che l’eccezione non si limita al divieto di vendite attive nel territorio esclusivo, ma copre anche il divieto di vendite alla clientela esclusiva, cioè quella che il fornitore si riserva, o che ha riservato ad un altro acquirente.

Il fornitore, pertanto, non può limitarsi a vietare al distributore di effettuare vendite fuori zona o ad un gruppo di clienti, posto che il divieto, per essere legittimo, deve riferirsi a vendite attive in una zona o a clienti riservati in esclusiva ad un differente distributore, ovvero al fornitore stesso.

Il concedente potrà, pertanto, impedire al proprio concessionario esclusivo di assumere iniziative miranti a conquistare parti di mercato in zone diverse da quelle loro assegnate; in ogni caso, il divieto di vendere fuori zona non può essere imposto, per le vendite passive, ossia la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti non appartenenti alla zona esclusiva.

3. Le vendite su internet e gli impatti sulle vendite parallele.

Il fenomeno della distribuzione parallela si è certamente sviluppato con l’avvento di Internet. Il web essendo una piattaforma che, per definizione, può essere visitata “worldwide”, ha aumentato sensibilmente le potenzialità dei singoli anelli della catena distributiva di essere visibili (e, quindi, vendere) in territori riservati in esclusiva ad altri soggetti (sul tema cfr. Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online? Vendite attive, vendite passive e geoblocking.).

Seppure ci siano delle sostanziali differenze tra vendite online e vendite offline, si può certamente affermare che i principi esposti al paragrafo precedente si applicano indifferentemente ad entrambe le tipologie di mercato.  I poteri  ed i limiti del produttore di vietare ed indirizzare le vendite dei propri concessionari sono i medesimi per il commercio tradizionale e quello elettronico: essenziale sarà pertanto comprendere, anche in tale contesto, la distinzione delle vendite attive, rispetto alle passive.

Secondo gli Orientamenti della Commissione, la mera esistenza di un sito Internet deve essere considerata, in linea di principio, come una forma di vendita passiva. Si legge infatti:

se un cliente visita il sito Internet di un distributore e lo contatta, e se tale contatto si conclude con una vendita, inclusa la consegna effettiva, ciò viene considerato come una vendita passiva. Lo stesso avviene se un cliente decide di essere informato (automaticamente) dal distributore e questo determina una vendita.” [10]

Contrariamente, deve considerarsi vendita attiva:

La pubblicità on-line specificamente indirizzata a determinati clienti [...]. I banner che mostrino un collegamento territoriale su siti Internet di terzi […] e, in linea generale, gli sforzi compiuti per essere reperiti specificamente in un determinato territorio o da un determinato gruppo di clienti costituisce una vendita attiva in tale territorio o a tale gruppo di clienti [ivi incluso] il pagamento di un compenso ad un motore di ricerca o ad un provider pubblicitario on-line affinché vengano presentate inserzioni pubblicitarie specificamente agli utenti situati in un particolare territorio.”

L’allargamento sensibile delle vendite tramite internet ha avuto l’effetto di aprire spazi considerevoli alla concorrenza intra-brand ed alla distribuzione parallela e ciò è stato certamente favorito anche dalla giurisprudenza europea, tendenzialmente favorevole all’utilizzo di tale strumento anche da parte dei concessionari ed intermediari del fornitore.

Invero, a seguito delle sentenze Pierre Fabre del 13.10.2011[11], un divieto assoluto ai distributori dell’utilizzo di internet per la distribuzione dei prodotti acquistati è da considerarsi sostanzialmente inammissibile. Un limite a tale potere dispositivo è stato imposto dalla sentenza del 6 dicembre 2017 Coty Germany GmbH[12], ove la Corte ha chiarito che in un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso, un produttore (in questo caso Coty) è autorizzato ad imporre al proprio distributore una clausola che consente di vendere i prodotti tramite internet, ma a condizione che tale attività sia realizzata in modo da preservare la connotazione lussuosa dei prodotti.

Da ultimo è intervenuta la più recente decisione Guess del dicembre 2018[13], con cui la Commissione ha condannato la casa madre ad una sanzione di 40 milioni di euro, per avere imposto ai dettaglianti un divieto di vendere prodotti contrattuali tramite internet o qualsiasi altro sistema elettronico o informatico, senza il previo consenso scritto di Guess stessa.

Sempre legata ad internet è la questione – che richiederebbe da sola un approfondimento molto più ampio – legata al fatto se un produttore può direttamente vendere su una piattaforma online prodotti a prezzi inferiori rispetto a quelli consigliati ai propri concessionari. Ci si domanda, infatti, se tale comportamento possa essere considerato contrario di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c. In merito non risulta che la giurisprudenza italiana si sia ancora espressa; ci si limita, per il momento, a consigliare di prevedere in maniera chiara e precisa tale fattispecie nel contratto di concessione, potendo, in caso contrario, tale comportamento dare adito a controversie molto complesse e gravose per entrambe le parti.[14]

4. Si può evitare la distribuzione parallela, creando un sistema di distribuzione selettiva?

Una modalità per evitare il crearsi di una distribuzione parallela potrebbe essere la creazione di una rete distributiva selettiva, posto che, in tale tipologia di distribuzione, il produttore può pretendere che i propri beni possano essere acquistati solamente da determinati intermediari, che rispettano i requisiti di forma e qualità  dallo stesso imposti (cfr. La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi). Ne consegue che, in un sistema di distribuzione selettiva senza falle, i prodotti non vengono in possesso di intermediari o rivenditori commerciali non ammessi alla rete. (cfr. Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

In ogni caso, anche tale sistema ha dei vantaggi, degli svantaggi e dei limiti; in primo luogo, può essere attuato solamente per i prodotti di alta qualità e tecnologicamente sviluppati.[15]

Inoltre, l’art. 4 d) del Regolamento, prevede comunque delle restrizioni al potere direttivo del produttore, il quale non potrà impedire le “forniture incrociate tra distributori all’interno di un sistema di distribuzione selettiva, ivi inclusi i distributori operanti a differenti livelli commerciali.” Tale libertà, per ogni membro appartenente alla rete selettiva, di approvvigionarsi senza alcun ostacolo presso gli altri membri, costituisce la necessaria contropartita dell’esclusione di reti distributive parallele. Gli Orientamenti prevedono al punto 58, che:

“un accordo o una pratica concordata non possono avere come oggetto diretto o indiretto quello di impedire o limitare le vendite attive o passive dei prodotti contrattuali fra i distributori selezionati, i quali devono rimanere liberi di acquistare detti prodotti da altri distributori designati della rete, operanti allo stesso livello o a un livello diverso della catena commerciale. La distribuzione selettiva non può pertanto essere combinata con restrizioni verticali volte ad obbligare i distributori ad acquistare i prodotti oggetto del contratto esclusivamente da una fonte determinata.

Da ultimo, ma non meno importante, si rileva che, seppure in una distribuzione selettiva, “il produttore può imporre l’obbligo di non vedere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla reteex art. 4 lett. b), iii), molto spesso, nella pratica, molti produttori distribuiscono in via "selettiva" soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo) alle altre zone. In tal caso, il produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite attive.

È comunque fatto salvo il diritto del produttore, che ha legittimamente adottato un sistema di distribuzione selettiva al fine di tutelare i prodotti contraddistinti dal marchio, di agire nei confronti dei distributori paralleli, le cui modalità di rivendita siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e prestigio -  che il produttore cerca di difendere proprio attraverso l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva - , o comunque che sussista un effetto confusorio circa l’esistenza di un legame commerciale tra il titolare del marchio e il rivenditore non autorizzato. In merito, si evidenziano due recenti ordinanze del Tribunale di Milano (cfr. La vendita online da parte di distributori non autorizzati. I casi Amazon, L’Oréal e Sisley). [16]

__________________________________

[1] Cfr. definizione da Dizionari Online Simone https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=736&dizionario=11

[2] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 403, 2018, UTET.

[3] Sul punto cfr. Bortolotti, I contratti di distribuzione, pag. 690, 2016, Wolters Kluwer.

[4] Decisione Grundig-Costen, 23.9.1964.

[5] Sul punto cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 383, 2018, UTET.

[6] In merito la Commissione si è espressa nel caso Distillers (1978), ove la Commissione ha sottolineato il fatto che gli sconti possono essere utilizzati per disciplinare, in via indiretta, i flussi di esportazione “stabilendo che nei confronti dei rivenditori britannici della DCL che esportano alcolici verso altri paesi della CEE il prezzo è diverso da quello che viene praticato quando gli alcolici sono rivenduti per il consumo nel mercato nazionale, e riservando inoltre gli sconti di prezzo unicamente alle vendite di alcolici destinati ad essere rivenduti e consumati nel Regno Unito, restringono la libertà dei suddetti clienti di rivendere i prodotti in questione in un altro Paese della CEE (…).

L’inapplicabilità degli sconti alle vendite di alcolici destinati all’esportazione e l’applicazione, nei confronti degli stessi clienti, di prezzi diversi per gli alcolici destinati all’esportazione e per quelli destinati al consumo nel Regno Unito, costituiscono un chiaro tentativo di impedire le importazioni parallele dal Regno Unito negli altri paesi della CEE ed equivalgono pertanto a un divieto espresso di esportazione (n. 2, p. 25).

[7] Importante comunque sottolineare il fatto, che il Regolamento 330/2010, contrariamente al precedente 2790/1990, non menziona la clausola di esclusiva “aperta”, ma la stessa risulta esentata “automaticamente” in base al principio della liceità di tutte le clausole non espressamente vietate, statuito all’art. 2 del Regolamento.

[8] Le Line Guida della Commissione (LGC o Orientamenti) al punto 51, definiscono vendite attive: “il contatto attivo con singoli clienti ad esempio per posta, compreso mediante l’invio di messaggi di posta elettronica non sollecitati, o mediante visite ai clienti; oppure il contatto attivo con uno specifico gruppo di clienti, o con clienti situati in uno specifico territorio attraverso inserzioni pubblicitarie sui media o via Internet o altre promozioni specificamente indirizzate a quel gruppo di clienti o a clienti in quel territorio. La pubblicità o le promozioni che sono interessanti per l’acquirente soltanto se raggiungono (anche) uno specifico gruppo di clienti o clienti in un territorio specifico, sono considerati vendite attive a tale gruppo di clienti o ai clienti in tale territorio.”

[9] Le LGC, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio. Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori

[10] LGC n. 52

[11] C-439/09, Pierre Fabre del 13.10.2011.

[12] C-230/16, Coty Germany del 6.12.2017.

[13] https://www.bbmpartners.com/news/La-decisione-Guess-della-Commissione-Europea-Una-prima-analisi

[14] Si rimanda in materia Dr. Thume “Paralleler Online-Vertrieb des Herstellers im Spannungsfeld seiner Dispositionsfreiheit und Treuepflicht”, Betriebs-Berater, 15.2018, pag. 770.

[15] Ciò significa che l’applicazione di tale sistema a tipologie di prodotti non “adeguate”, comporta il rischio, di una (seppure ipotetica) revoca dell’esenzione da parte della Commissione, ovvero dell’Autorità garante, per gli accordi che producano effetti esclusivamente sul mercato interno. Sul tema cfr. Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell'Unione Europea, 2018, pag. 405, UTET.

[16] Ordinanze del 19 novembre 2018 e 18 dicembre 2018 del Tribunale di Milano. https://sistemaproprietaintellettuale.it/notizie/angolo-del-professionista/13754-distribuzione-selettiva-di-cosmetici-di-lusso-il-tribunale-di-milano-chiarisce-i-presupposti-per-l-esclusione-del-principio-dell-esaurimento-del-marchio.html


distribuzione selettiva

La distribuzione selettiva. Una breve panoramica: rischi e vantaggi.

Determinati prodotti, in funzione delle loro caratteriste intrinseche (si pensi ad esempio al settore del lusso, ovvero a prodotti tecnicamente molto complessi), spesso necessitano di un sistema di rivendita più selezionato e curato rispetto ai prodotti di largo consumo.

In tali casi, il produttore è portato, non tanto a puntare sulla vastità e capillarità della propria rete vendita, quanto a prediligere una limitazione dei canali commerciali, preferendo affidare i propri prodotti ad un ristretto numero di rivenditori specializzati, scelti in funzione di determinati criteri oggettivi dettati dalla natura dei prodotti: competenza professionale (per quanto riguarda gli aspiranti distributori),[1] qualità del servizio offerto, ovvero prestigio e cura dei locali nei quali i rivenditori dovranno svolgere la loro attività.[2]

1. Definizione e breve panoramica.

Per distribuzione selettiva si intende appunto un sistema di distribuzione in cui i prodotti passano esclusivamente dalle mani del produttore a quelle dei rivenditori autorizzati, ossia a quegli intermediari che rispettano i requisiti di forma e qualità richiesti dal produttore stesso. Il Regolamento UE 330/2010 sugli accordi verticali definisce, a tal fine, la distribuzione selettiva come:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulle base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema.”

Secondo la Corte, una distribuzione selettiva è conforme all’art. 101 § 3 del Trattato (e non ricade nel divieto generale fissato dal § 1 di suddetto articolo), essenzialmente se sussistono tre principi fondamentali:

  • la scelta dei rivenditori avvenga secondo criteri oggettivi di indole qualitativa, riguardanti la qualificazione professionale del rivenditore del suo personale e dei suoi impianti”,
  • che “questi requisiti siano richiesti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali”,
  • e che “vengano valutati in modo non discriminatorio”.[3]

In determinati casi, il produttore può aggiungere un’ulteriore barriera nella selezione dei soggetti che possono aderire alla propria rete selettiva, potendo questi valutare di imporre una supplementare restrizione di carattere quantitativo, optando così per non ammettere automaticamente alla rete tutti i rivenditori che presentano gli standards richiesti, ma effettuando altresì delle limitazioni nel numero dei soggetti riconosciuti, spesso calibrate tenendo conto delle potenzialità economiche dei differenti mercati in qui vengono venduti i prodotti contrattuali.[4]

La Giurisprudenza Europea ha concesso l’esenzione per sistemi di distribuzione selettiva quantitativa, riconoscendo che la restrizione presenta il carattere dell’indispensabilità richiesto dall’art. 101 § 3 del Trattato, in forza di un principio prevalentemente economico: ha ritenuto tale sistema distributivo legittimo, ogni volta che l’ammissione al sistema selettivo di tutti i rivenditori qualificati abbia un impatto negativo sulla redditività della rete vendita, posto che “ridurrebbe ad alcune unità l’anno le possibilità di vendita di ognuno di questi.”[5] Si richiama qui brevemente il Caso Vichy,[6] in cui il produttore aveva riservato i prodotti alle sole farmacie di determinati prodotti cosmetici.

La Commissione ha ritento che si trattasse di un sistema distributivo quantitativo, in ragione del fatto che in alcuni Paesi l’accesso alla professione di farmacista era soggetto ad un numero chiuso. Ancora gli Orientamenti sulle restrizioni verticali (n. 175)[7], fanno ricadere nella restrizione quantitativa, l’imposizione al fornitore di realizzare un fatturato minimo, stabilito dal fornitore, limitando così in via indiretta di accedere alla rete tutti i soggetti che non riescono a raggiungere la soglia di fatturato fissata.

Con riferimento alla tipologia di prodotti per i quali può essere giustificato il ricorso ad un sistema selettivo, il Regolamento 330/2010 non fa alcun cenno in merito, poiché si limita a dare una definizione di tale sistema. In ogni caso, una risposta si ritrova all’interno degli Orientamenti della Commissione, ove al n. 176, viene affermato che:

se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva […], tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio. Se si verificano effetti anticoncorrenziali sensibili, è probabile che il beneficio dell’esenzione per categoria venga revocato”.

Si può, quindi, affermare che la distribuzione selettiva è riservata solamente a prodotti di alta qualità e tecnologicamente sviluppati; ciò significa che l’applicazione di tale sistema a tipologie di prodotti non “adeguate”, comporta il rischio, di una (seppure ipotetica) revoca dell’esenzione da parte della Commissione, ovvero dell’Autorità garante, per gli accordi che producano effetti esclusivamente sul mercato interno.[8]

Andiamo qui di seguito ad analizzare brevemente quelle che sono le peculiarità di un sistema distributivo selettivo.

2. Distribuzione selettiva e divieto di vendere a soggetti esterni alla rete.

Il primo elemento è quello collegato è sicuramente al fatto che in un sistema distributivo, il produttore può imporre l’obbligo di non vendere a soggetti (diversi dagli utilizzatori finali) non appartenenti alla rete (art. 4 lett. b), iii)).[9]

Tale vantaggio, ad ogni modo, è controbilanciato dal divieto imposto al fornitore dall’art. 4 lett. c), di limitare la libertà di effettuare “vendite attive e passive agli utenti finali da parte dei membri di un sistema di distribuzione selettiva operante nel commercio al dettaglio.”

Tale divieto si discosta da quanto normalmente previsto, ex art. 4 lett. b) i), per i sistemi di distribuzione non selettiva, che permette al fornitore di vietare ai propri rivenditori unicamente vendite attive in territori o a gruppi riservati in esclusiva ad altri intermediari.

Ciò premesso, si fa presente che molto spesso, nella pratica, molti produttori distribuiscono in via "selettiva" soltanto nei mercati più importanti, riservando, contrariamente, un sistema “classico” (ossia tramite un importatore esclusivo) alle altre zone. In tal caso, il produttore non può imporre il divieto di effettuare vendite passive, nei confronti dei rivenditori appartenenti alle zone in cui non esiste il sistema selettivo, ma unicamente vietare allo stesso, ex art. 4 let. b) i), le vendite attive (sul punto cfr. Il sistema misto: quando il produttore sceglie di adottare sia la distribuzione esclusiva, che selettiva).

3. La vendita su internet e distribuzione selettiva.

La conseguenza che nel sistema selettivo non si possa impedire ad un dettagliante, appartenente alla rete, di promuovere i prodotti ed effettuare pubblicità, al di fuori della propria zona, verso gli utilizzatori finali, ha certamente un effetto dirompente, soprattutto se associato alle vendite online (in tema cfr. anche “Un produttore può impedire ai suoi distributori di vendere online?”): è chiaro che, stante la trasversalità di internet, concedere la facoltà ad un dettagliante di effettuare vendite anche al di fuori del proprio territorio, ha un impatto assai importante (si pensi solamente alla complessità di gestire una politica dei prezzi). Se ciò viene associato al fatto che con il nuovo regolamento 302/2018 sul cd. Geoblocking, l'UE ha impedito i blocchi geografici ingiustificati basati sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell’ambito del mercato interno. [10]

Ciò ha spinto molti produttori a vietare ai membri della rete l’utilizzo di internet. Sulla legittimità del produttore di impedire ai propri rivenditori/dettaglianti di vendere online, si è sviluppata una corrente giurisprudenziale europea piuttosto articolata ed assai complessa, la cui analisi richiederebbe uno studio molto approfondito. Al fine di consentire al lettore di avere una panoramica più ampia su tale tematica, si riprendono qui brevemente quelle che sono le pronunce più importanti degli ultimi anni.

La prima della “serie” è stata la sentenza del 2011 della Corte, nel Caso Pierre Fabre, ove è stato affermato che un divieto assoluto di vendere su Internet, nel caso in cui non sia oggettivamente giustificato, costituisce una restrizione per oggetto che esclude l’applicazione del Regolamento di esenzione per categoria n. 330/2010.[11]

È seguita la sentenza del 2017, nel caso Coty Germany, in cui è stata (anche) sancita la compatibilità con l’articolo 101, di una clausola contrattuale

“che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso finalizzato, primariamente, a salvaguardare l’immagine di lusso di tali prodotti di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo Internet dei prodotti oggetto del contratto, qualora tale clausola sia diretta a salvaguardare l’immagine di lusso di detti prodotti, sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio, e sia proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.[12]

Da ultimo è intervenuta la più recente decisione Guess del dicembre 2018, con cui la Commissione ha condannato la casa madre ad una sanzione di 40 milioni di Euro, per avere imposto ai dettaglianti un divieto di vendere prodotti contrattuali tramite internet o qualsiasi altro sistema elettronico o informatico, senza il previo consenso scritto di Guess stessa.[13]

4. Le vendite incrociate all’interno della rete di distribuzione selettiva.

L’art. 4 lett. d) del Regolamento vieta “la restrizione delle forniture incrociate tra  distributori all’interno di un sistema di distribuzione selettiva, ivi inclusi i distributori operanti a differenti livelli commerciali”.

Tale disposizione conferisce ai membri della rete distributiva la libertà di vendere ad altri membri della rete; ciò al fine di permettere almeno all’interno di un sistema “chiuso”, la massima libertà di circolazione.

_______________________________

[1] Si pensi alla decisione Grundig approvata nel 1985 dalla Commissione, in cui si richiedeva la presenza “di personale qualificato e di un servizio esterno con la competenza tecnica necessaria per assistere e consigliare la clientela”, nonché “l’organizzazione tecnica necessaria per l’immagazzinamento e il tempestivo rifornimento degli acquirenti”; “presentare ed esporre i prodotti Grundig in maniera rappresentativa in locali appositi, separati dagli altri reparti, e il cui aspetto rispecchi l’immagine di mercato di Grundig”.

[2] Sul punto cfr. PAPPALARDO, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, pag. 409, UTET, 2018.

[3] Sentenza Metro I, 25.10.1977 e causa C-31/80, L’Oréal/ PVBA. Tale orientamento è stato confermato anche dagli Orientamenti della Commissione al n. 175, che dispongono che “In genere, si ritiene che la distribuzione selettiva basata su criteri puramente qualitativi non rientri nell’ambito dell’articolo 101, paragrafo 1, in quanto non provoca effetti anticoncorrenziali, purché vengano soddisfatte tre condizioni. In primo luogo la natura del prodotto in questione deve rendere necessario un sistema di distribuzione selettiva nel senso che un tale sistema deve rappresentare un requisito legittimo, in considerazione delle caratteristiche del prodotto in questione, per conservarne la qualità e garantirne un utilizzo corretto. In secondo luogo, la scelta dei rivenditori deve avvenire secondo criteri oggettivi d’indole qualitativa stabiliti indistintamente e resi disponibili per tutti i rivenditori potenziali e applicati in modo non discriminatorio. In terzo luogo i criteri stabiliti non devono andare oltre il necessario

[4] Sul punto cfr. caso Omega, decisione della Commissione del 28.10.1970 e caso BMW del 23.12.1977.

[5] Caso Omega, decisione della Commissione del 28.10.1970

[6]  Caso Vichy, decisione della Commissione del 27.2.1992

[7]La distribuzione selettiva quantitativa aggiunge ulteriori criteri di selezione che limitano in maniera più diretta il numero potenziale di rivenditori, imponendo per esempio un livello minimo o massimo di acquisti, fissando il numero di rivenditori, ecc.

[8] Sul punto cfr. Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 720, Wolters Kluwer; Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell'Unione Europea, 2018, pag. 405, Wolters Kluwer.

[9] A tal proposito, si richiama quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Metro-Saba I, sentenza del 25.10.1977, al par. 27 “Qualsiasi sistema di vendita fondato sulla selezione dei punti distribuzione implica inevitabilmente – altrimenti non avrebbe senso – l’obbligo per i grossisti che fanno parte della rete, di rifornire solo i rivenditori autorizzati”.

[10] Con il nuovo regolamento 302/2018 sul cd. geoblocking, recante misure volte a impedire i blocchi geografici ingiustificati e altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell’ambito del mercato interno. Tale regolamento (si accenna qui solo brevemente), si propone di impedire i blocchi geografici ingiustificati o altre forme di discriminazione basate direttamente o indirettamente sulla nazionalità, sul luogo di residenza o stabilimento dei clienti: il regolamento cancella infatti il blocco, ma non obbliga a vendere fuori dal proprio paese o ad avere prezzi uguali per tutta l’Europa.

[11] Caso Pierre Fabre, sentenza del 13.10.2011

[12] Caso Coty Germany, sentenza del 6.12.2017.

[13] https://www.bbmpartners.com/news/La-decisione-Guess-della-Commissione-Europea-Una-prima-analisi


contratto di agenzia

Agente di commercio e normativa antitrust: quando il contratto di agenzia è considerato un accordo verticale.

Con il presente articolo si vuole cercare di comprendere se il contratto di agenzia possa essere considerato accordo verticale ai sensi del regolamento europeo 330/2010 sugli accordi verticali e, in quanto tale, essere soggetto al divieto ex art. 101 § 1, TFUE e alla normativa antitrust.

Come si è già avuto modo di analizzare (cfr. clausole di esclusiva ed accordi economici verticali), il regolamento n. 330/2010 dispone che, negli accordi verticali tra imprese, non possono essere raggiunte intese che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare la concorrenza all’interno del mercato comune e che tali intese, ove previste, sono nulle in base all’art. 101, § 1, TFUE.

In tale blog, si è già brevemente trattata la tematica relativa all'applicabilità del regolamento ai distributori esclusivi ed ai rivenditori che utilizzano l'e-commerce per distribuire i prodotti contrattuali. Con il presente articolo si vuole analizzare (seppur sommariamente) un tema altrettanto complesso ed interessante, ossia se i contratti di agenzia possano essere considerati accordi verticali ai sensi del regolamento e, in quanto tali, essere soggetti al divieto ex art. 101 § 1, TFUE; tale questione è di particolare rilevanza, posto che gli accordi di agenzia normalmente contengono una serie di pattuizioni restrittive della concorrenza quali limitazioni sulla determinazione del prezzo, del territorio e della clientela.

Suddette restrizioni rientrano espressamente tra quelle definite fondamentali dall'art. 4 del regolamento e la cui presenza comporta che l'accordo nella sua totalità perda il beneficio dell’esenzione per categoria previsto dal regolamento stesso[1]. Le restrizioni verticali che avrebbero maggiore impatto su un contratto di agenzia, sarebbero sicuramente quelle relative al divieto di:

  1. determinazione da parte dell’acquirente del prezzo di rivendita;
  2. determinazione da parte dell’acquirente del territorio o dei clienti ai quali l’acquirente può vendere i beni o i servizi oggetto del contratto;
  3. restrizione delle vendite (attive o passive) agli utenti finali;

Di qui l'importanza di comprendere quando un contratto di agenzia debba essere considerato (ai sensi della normativa antitrust) come vero e quando falso: nel caso in cui il contratto di intermediazione dovesse essere considerato (ai sensi della normativa antitrust) un contratto di agenzia falso, lo stesso ricadrebbe sotto il divieto dell’art. 101, con il conseguente impossibilità del preponente di imporre all'agente limiti in merito alla determinazione del prezzo (od almeno riservargli la facoltà di concedere degli sconti sulla propria provvigione), del territorio, dei clienti ed inibire allo stesso le vendite passive a clienti non appartenenti alla propria zona. [11]

La prima valutazione in merito alla soggezione degli accordi aventi ad oggetto la rappresentanza commerciale al divieto ex art 101, § 1, risale alla “Comunicazione di Natale” del 1962[2]; la Commissione aveva escluso, in linea di massima a tale divieto, il rappresentante di commercio, a condizione che non assumesse “nello svolgimento delle sue funzioni (…) nessun altro rischio contrattuale, ad eccezione dell’usuale garanzia dello star del credere.”[3] La Commissione, ha ritenuto che gli accordi di rappresentanza commerciale,

non hanno né per oggetto né per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza”, poiché il rappresentante svolge sul mercato “unicamente una funzione ausiliaria [agendo] in conformità delle istruzioni e nell’interesse dell’impresa per conto della quale esercita la sua attività”

Nel corso degli anni, si sono affermati orientamenti giurisprudenziali[4] in base ai quali si può sostanzialmente affermare[5] che il principio di cui all’art. 101, §1, non si applica ai contratti di intermediazione commerciale nel caso in cui:

  • l’agente non si assuma i rischi commerciali e finanziari tipici di un distributore/rivenditore;
  • l’agente sia integrato all’interno della struttura distributiva del preponente;
  • il contratto di agenzia non rientra in un quadro più ampio di contratti rientranti sotto l’art. 101.

Parimenti, anche negli Orientamenti sulle restrizioni verticali,[6] l’elemento caratterizzante, per potere comprendere se un contratto di agenzia sia o meno soggetto al divieto, è caratterizzato dai rischi assunti dalla parte qualificata (correttamente o meno) come agente:[7] se i rischi gravano sostanzialmente sul preponente, siamo in presenza di un vero accordo di agenzia, in caso contrario, di un accordo suscettibile di incorrere nel divieto ex art. 101, § 1.

Gli stessi Orientamenti al punto 16 dispongono che:

un accordo verrà considerato in genere […] di agenzia […] se la proprietà dei beni oggetto del contratto […] non passa all’agente o se l’agente non fornisce egli stesso i servizi oggetto del contratto.”

Negli Orientamenti vengono quindi enumerati diversi esempi di rischi che esulano dalla tipica attività dell’agente (in senso stretto), che si verificano quando l'agente:

  1. acquista la proprietà dei beni oggetto del contratto[8];
  2. concorre alle spese connesse alla fornitura/acquisto di beni oggetto del contratto;
  3. mantiene a proprio costo o rischio, scorte dei beni oggetto del contratto;
  4. assume responsabilità nei confronti di terzi per eventuali danni;
  5. assume responsabilità per l’inadempimento del contratto da parte dei clienti;
  6. è obbligato ad effettuare investimenti nella promozione delle vendite;
  7. effettua investimenti in attrezzature, locali o formazione del personale;
  8. svolge altre attività del medesimo mercato del prodotto richiesto dal preponente.

La migliore dottrina[9] (alla quale ci si richiama per uno studio più approfondito della tematica qui brevemente riportata) rileva che le considerazioni svolte dalla Commissione negli Orientamenti riguardo ai criteri distintivi tra agenti veri e falsi sono spesso "fuorvianti"; ciò è in parte dovuto al fatto che i criteri generali indicati negli Orientamenti sono stati ripresi (prevalentemente) da una serie di precedenti giurisprudenziale della Corte di Giustizia Europea di carattere molto particolare e ciò non ha permesso alla Commissione di “considerare il modo di operare degli agenti ‘normali’, di cui [la Commissione] non ha avuto modo di prendere conoscenza […]; la Commissione ha individuato una sere di criteri difficilmente applicabili alla realtà dei ‘normali’ rapporti di agenzia transfrontalieri”. [10] 

Da ciò deriva una situazione di grave incertezza: i criteri distintivi indicati negli Orientamenti possono indurre in errore il lettore (ad es. giudici e autorità nazionali della concorrenza) che vi faccia affidamento, portando lo stesso a qualificare come falsi agenti, intermediatori che di fatto (almeno da un punto di vista civilistico) svolgono una attività tipica di agenzia.

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[1] Il regolamento definisce delle categorie di accordi per i quali, anche qualora vi fosse una restrizione della concorrenza ai sensi dell’art. 101, § 1, si può presumere che siano esenti da una sua applicazione.

[2] GUCE, n. 139, 24.12.1962, p. 2912 ss.

[3] Id. p. 2922.

[4] Caso Zucchero, decisione della Commissione del 2.1.1973, caso Vlaamse Reisbureaus decisione della Corte di Giustizia del 1.10.1987, caso Vag Leasing decisione della Corte di Giustizia del 24.10.1995.

[5] Cfr. sul punto Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 674., Wolters Kluwer, 2016

[6] Punto 13) degli Orientamenti: “Il fattore determinate per definire un accordo di agenzia commerciale ai fini dell’applicazione dell’articolo 101, § 1, è il rischio finanziario o commerciale assunto dall’agente in relazione alle attività per le quali è stato nominato come agente dal preponente.

[7] Cfr. sul punto Pappalardo, Il diritto della concorrenza dell’unione europea, p. 321 ss. UTET, 2018.

[8] Sul punto cfr. il caso Mercedes Benz deciso dalla commissione con decisione 10.10.2001, in cui il Tribunale di primo grado ha ritenuto che l’acquisto di vetture da dimostrazione ed dei pezzi di ricambio non fosse un elemento sufficiente per considerare l’agente un distributore in proprio.

[9] Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 675 ss., Wolters Kluwer, 2016

[10] Id. p. 675

[11] Gli Orientamenti, punto 51, definiscono vendite passive: “la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti. Sono vendite passive le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio.

Le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale sono considerate un modo ragionevole per raggiungere tali clienti se è interessante per l’acquirente attuare tali investimenti anche se non raggiungono clienti all’interno del territorio (esclusivo) o del gruppo di clienti (esclusivo) di altri distributori”.