Responsabilità del motore di ricerca nel caso di “caching”.

Nel maggio di quest’anno la Sezione proprietà industriale del Tribunale di Firenze si è vista a decidere su una questione molto interessante per tutti gli utenti del web. Il caso è facilmente riassumibile: Tizio, imprenditore, navigando sul web scopre un sito nel quale vengono riprodotte sue foto e viene diffamato il nome della propria azienda.

Dato dal sito non si riusciva a risalire al webmaster o al gestore del sito, decide di rivolgersi direttamente a Google Inc. (sede americana), chiedendo alla stessa
di rimuovere il collegamento dal motore di ricerca al sito contestato. A seguito del rifiuto di Google, Tizio decide di promuovere un’azione legale.

Il 12.5.2012, il Tribunale di Firenze, pronuncia una ordinanza con la quale esclude la responsabilità di Google per le seguenti ragioni:

  • l’attività dei motori di ricerca è una attività di mero caching, ex art. 15 del dlgs 70/2003;
  • il motore di ricerca è tenuto a rimuovere i collegamenti solo su ordine dell’organo competente.

Soffermandosi brevemente sul primo punto, si può rilevare che l’ordinanza è dell’avviso che quella dei motori di ricerca si soffermi ad essere una mera attività di caching, posto che è limitata “alla indicizzazione dei siti ed alla formazione di copie cache dei loro contenuti, con memorizzazione temporanea delle informazioni”. Gli operatori di internet, pertanto, risultano essere dei semplici intermediari e, in quanto tali, non possono essere considerati responsabili dei contenuti veicolati da terzi.

Quanto al secondo punto, l’ordinanza si concentra sugli obblighi dei motori di ricerca, qualora pervengano agli stessi  richieste di rimozione o di disattivazione dell’accesso a determinati contenuti. Il Tribunale su questo punto afferma che “la conoscenza effettiva della pretesa illiceità dei contenuti del sito de quo non possa essere desunta neppure dal contenuto delle diffide di parte, trattandosi di prospettazioni unilaterali.

Inoltre, circa la conoscibilità degli illeciti, questi non sono presumibili sulla base di meri reclami da parte degli utenti della rete, ma è necessario che un “organo competente abbia dichiarato che i dati sono illeciti, oppure abbia ordinato la rimozione o la disabilitazione dell’accesso agli stessi, ovvero che sia stata dichiarata l’esistenza di un danno” o, ancora, “che l’ISP stesso sia a conoscenza di una tale decisione dell’autorità competente.”

Questa decisione sembra sostituire il precedente orientamento giurisprudenziale che applicando in maniera estensiva il dlgs 70/2003, ha ritenuto bastevole che il soggetto comunicasse all’intermediario il link del sito contenente il presunto materiale illecito.

Orientamento, a parere di chi scrive, giustamente superato con l’ordinanza oggetto di esamina, che risulta, peraltro, essere molto importante nel settore, posto che vengono impartite direttive ben chiare e viene delineata in maniera ferma la responsabilità di figure giuridiche non ancora del tutto ben inquadrate.


I vitelloni

Diffamazione su facebook. Meglio stare attenti, che se poi l'auto finisce la benzina...

[:it]Facebook, spazio di grande interesse sia sociale che commerciale. Un nuovo modo di condividere i propri pensieri, idee e spunti lavorativi. Una nuova piazza multimediale.

Tale affermazione, che in un primo momento potrebbe sembrare una mera e semplice asserzione di carattere “para-sociopolitico” , si sta in realtà rilevando sempre più di interesse giuridico. Ci si chiede infatti, ma cosa può accadere se si pubblica sul proprio profilo un commento offensivo, falso o semplicemente volgare? Deve ritenersi che detto comportamento sia effettivamente posto in essere in un luogo pubblico o, addirittura, per mezzo stampa?

A tale domanda, che come si può capire, non è più di poco interesse, ha risposto il primo di ottobre il Tribunale di Livorno. La Corte su punto ha deciso la condanna di una donna per “diffamazione”, con l’aggravante “mezzo stampa”, poiché ha insultato il proprio ex datore di lavoro (che l'aveva licenziata) sul proprio profilo Facebook.

Il tribunale di Livorno, ha dato pertanto vita ad un nuovo orientamento nella giurisprudenza di merito, ponendosi in controtendenza con un orientamento giurisprudenziale della Cassazione, in base al quale “ai fini della configurabilità di una fattispecie criminosa come reato commesso con il mezzo della stampa, le definizioni che di stampa e stampati fornisce l’art. 1, l . n. 47 del 1948 non sono suscettibili d’interpretazione analogica e/o estensiva.

Sarà quindi necessario che ogni utente ponga sempre più attenzione ai commenti postati su FB, posto che questi oltre ad avere delle conseguenze prettamente sociali e relazionali, possono addirittura profilare una eventuale responsabilità civile e penale.

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Il diavolo veste prada

La catena di Sant’Antonio viene spezzata. A questo punto, il diavolo veste ancora Prada?

[:it]Qualche giorno fa, la Corte di Cassazione ha affrontato un tema che è ormai parte del linguaggio comune di tutti i giorni: lo spam. Tale attività, conosciuta anche come la “catena di Sant’Antonio“, è un veicolo utilizzato da molte società al fine di reclutare il maggior numero di soggetti per fini economici. Il classico esempio e la classica tecnica utilizzata è quella di invogliare i navigatori ad iscriversi ad un servizio in cambio di un
omaggio.

A tentare di fermare detta prassi si è inserita la Suprema Corte, la quale ha stabilito che il comportamento dei titolari di siti web che incentrano la propria attività sulla corresponsione di incentivi agli iscritti al solo fine di ottenere i dati di nuovi soggetti, sia da ritenersi di fatto illecito.

Nello specifico, la Corte ha affermato con sentenza n. 37049 del 2012, che “è illecito il comportamento del titolare di siti web incentrati sulla corresponsione di incentivi agli iscritti sulla base del mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che ricondurli alla attività di vendita di beni o servizi determinati”.

La base di questo ragionamento si incentra principalmente sul divieto delle “vendite piramidali”, di cui all’art. 5 della legge 173/2005. Detta prassi, infatti, si fonda sull’attività propagandistica di strutture di core business, focalizzate esclusivamente sull’aumento delle fila degli utenti e non sulla promozione di alcun servizio o prodotto.

Importante sottolineare che tale prassi è illecita anche qualora l’adesione sia volontaria, posto che, come recita la Corte, “la norma incriminatrice non richiede l’involontarietà dell’adesione quale presupposto per la sussistenza del reato”.

Interessante vedere come tale principio potrà e verrà applicato al nuovo mondo dei social-network, piattaforme sicuramente molto adatta per lo sviluppo di tali attività.

 

 

 

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Indovina chi viene a cena

Il contratto di hosting e i profili di responsabilità dell'hosting provider.

[:it]Negli ultimi anni, il sito internet non è più una semplice vetrina usata dalle società per dare delle generiche informazioni e indicazioni sulle attività di un’impresa, bensì un mezzo e uno strumento di lavoro e promozione.

Prima di affrontare la tipologia contrattuale di “creazione di sito web”, ritengo necessario andare ad analizzare molto brevemente quella che è la base di tutto questo rapporto contrattuale, il terreno su cui i web designer, di fatto svolgono la propria attività: il contratto di hosting web. Come per costruire un’immobile è necessario del terreno, allo stesso modo, per pubblicare un sito è necessario acquisire dello spazio web. Alla base di tutto questo vi si pone quindi il cosiddetto contratto di “hosting web”, che si potrebbe  definire come il contratto  mediante il quale un soggetto acquisisce dello spazio su uno o più server di titolarità di un hosting provider, dietro pagamento di un corrispettivo.

Il contratto di hosting web, rientra nella categoria dei contratti atipici, ossia di quei contratti che non sono regolati e disciplinati direttamente dal codice civile e consiste in definitiva in una prestazioni di servizi. L’hosting provider, più specificatamente, mette  a disposizione di un altro soggetto dello spazio su uno o più computer per ospitare pagine web.

Uno degli elementi giuridicamente più rilevanti in questa tipologia contrattuale, riguarda sicuramente la responsabilità del provider per i dati che vengono salvati sui propri server dai gestori dei siti con cui ha stipulato un contratto di hosting.

Tale profilo è regolato dall’art. 16 d.l. 70/2003 (decreto legislativo con cui il legislatore italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2000/31 CE). Ai sensi di tale articolo:

nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a)    non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione;

b)    non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso.

L’art. 17 del d.l. prevede inoltre, che

il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, ne ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino fa presenza di attività illecite.

A tal proposito si ricorda, una importante sentenza del Tribunale di Roma del 2009, con la quale la Corte ha cercato di chiarire e precisare la portata di suddetti disposti normativi, affermando che “sebbene l'internet provider non sia assoggettato ad un generale obbligo di sorveglianza sui contenuti memorizzati, in quanto ciò si risolverebbe in una inaccettabile responsabilità oggettiva, egli è tuttavia soggetto a responsabilità quando non si limiti a fornire accesso alla rete, ma eroghi servizi aggiuntivi (caching, hosting ) e/o predisponga un controllo delle informazioni e, soprattutto, quando, consapevole della presenza di materiale sospetto, si astenga dall'accertare la illiceità e dal rimuoverlo o se, consapevole dell'antigiuridicità, ometta di intervenire”.[1]

Il Tribunale, pertanto, posto che non sussiste in capo al provider un obbligo generale di sorveglianza, ha ritenuto necessario perché possa configurarsi una responsabilità civilistica in capo allo stesso, la conoscenza e conoscibilità da parte del provider di informazioni illecite ovvero di fatti e circostanze che rendono manifesta detta illiceità e la mancata rimozioni di dette informazioni non appena a conoscenza di tali fatti e su comunicazione delle autorità competenti. [2]

Il Tribunale con tale sentenza, riprende il concetto di responsabilità oggettiva in base al quale un soggetto può essere responsabile di un illecito, anche se questo non deriva direttamente da un suo comportamento e non è riconducibile a dolo o colpa del soggetto stesso. Tale situazione va a derogare il principio generale della responsabilità, in base al quale è necessario un preciso nesso di causalità tra il comportamento dell’individuo e l’illecito stesso.

Il presente articolo, ad ogni modo, deve considerarsi come un semplice e puro spunto di una tematica molto complessa, dettagliata e in continua evoluzione. Una specie di piccola spiegazione su quelli che sono i rapporti giuridici tra nuove tipologie di soggetti. Interessante, comunque, vedere come, seppure gli strumenti all’interno della società evolvono, le categorie e gli istituti giuridici del codice civile, rimangono sempre unica e vera base per disciplinare i rapporti commerciali e sociali.


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Per un pungo di dollari

Per un pungo di dollari. La nuova societa' ad 1 euro.

[:it]Parlando pochi giorni fa con dei giovani imprenditori, operanti nel settore delle start-up, ci si domandava quali fossero gli effettivi vantaggi che potrebbe apportare l’introduzione all’interno del nostro sistema giuridico la nuova società ad 1 Euro (SRLS – Società a Responsabilità Limitata Semplificata), introdotta in data 29.8.2012 dal Dm 138/2012.

Per avere un’idea più chiara delle caratteristiche apportate dal nuovo art. 2463-bis del Codice civile, si ricorda che:

  • la società può essere costituita da persone fisiche che non abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data della costituzione;
  • l'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard tipizzato;
  • il capitale sociale deve essere compreso tra 1 e 10.000 €, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione;
  • il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all'organo amministrativo;
  • gli amministratori devono essere scelti tra i soci;
  • l'atto costitutivo e l'iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili (si deve pertanto pagare l’imposta di registro di € 168 e la tassa annuale alla Camera di Commercio).

Leggendo il testo normativo e verificando anche i commenti dei vari blogs, riviste giuridiche e quotidiani, si può riscontrare che tale forma apporta effettivamente degli sgravi di spesa (non sono infatti dovuti oneri notarili), ma che di fatto non va a risolvere quelle che sono le vere problematiche degli imprenditori under 35, ovvero:

  • regimi di tassazione agevolati;
  • strumenti per facilitare un accesso a finanziamenti bancari o sussidi statali;

È necessario ricordare che il problema del capitale sociale è infatti relativo, basti pensare che i 10mila euro di capitale richiesti per la costituzione una Srl normale, non rimangono in banca congelati, ma possono essere utilizzati dai soci. Infatti, una volta costituita, la somma viene di fatto riversata sul conto della società e può essere utilizzata per comprare macchinari, computer, pagare stipendi e fornitori, registrare marchi e così via. Inoltre, se ci sono almeno due soci è sufficiente versare 2.500 euro, somma che può essere a sua volta utilizzata per gli adempimenti appena citati.

A questo si aggiunge che i costi per potere iniziare a mettere in moto una società dovranno essere sempre sostenuti dai giovani imprenditori, che, per quanto snella e leggera possa essere l’azienda, avranno comunque la necessità di investire qualche migliaia di euro per poterla azionarla (computer, macchinari, fornitori, etc.).

Da ultimo, si rileva che l’atto costitutivo, dovendo essere redatto in conformità al modello standard tipizzato, non è, secondo una prima lettura della norma, soggetto ad alcuna variazione. Tale caratteristica, che sicuramente permette di evitare le spese notarili, è di fatto limite per nulla trascurabile. Basti pensare, infatti, che tale standardizzazione comporterebbe l’impossibilità di attivare da parte dei soci amministratori della società ad 1 €, tutte le opzioni che la legge consente nello statuto di una Srl. Tra queste si possono ricordare:

la facoltà di attribuire ai soci particolari diritti;

  • la possibilità di pattuire clausole inerenti il trasferimento delle quote di partecipazione al capitale (quali l'intrasferibilità, la prelazione, il gradimento, la clausola che dispone della quota in caso di morte del socio, la clausola di covendita eccetera);
  • la possibilità di convenire cause di recesso ulteriori rispetto a quelle previste per legge;
  • la possibilità di pattuire cause di esclusione dalla società;
  • la previsione, in caso di più di amministratori, di forme di amministrazione diverse dal Cda;
  • la possibilità di prevedere un termine per l'approvazione del bilancio maggiore di quello di legge;
  • la possibilità di prevedere forme di decisioni dei soci diverse dalla riunione assembleare;
  • la possibilità di attribuire ai soci la competenza a decidere su materie diverse da quelle attribuite ai soci dalla legge;
  • la possibilità di prevedere quorum assembleari diversi da quelli prescritti dalla legge.

Sicuramente interessante vedere come sarà utilizzato questo strumento dai nuovi imprenditori e verificare se tale mezzo sia un effettivo incentivo allo slancio della nuova imprenditoria.

 

 

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Meta-tag

L’uso illecito del “meta-tag”. Fattispecie di contraffazione di marchio e concorrenza sleale?

[:it]Per meta-tag si fa riferimento a quelle parole chiave, codificate solitamente nel linguaggio HTML, che seppur non  riportate su video, vengono comunque utilizzate dai motori di ricerca al fine di indicizzare i vari siti. Attraverso un meta-tag, dunque, il gestore di un sito può inserire le parole chiave riguardanti la propria pagina web (c.d. keyword meta-tag) al fine di renderlo attraverso l'utilizzo dei motori di ricerca.

Potenzialmente, quindi, una gestore di un sito potrebbe inserire come parola chiave il nome di un marchio molto famoso, al fine di fare apparire il proprio sito tra i primi risultati ogni volta che un utente compia una ricerca utilizzando il nome del marchio noto oppure, inserisca il marchio di un proprio concorrente al fine di apparire tra i risultati ogni volta che venga fatta una ricerca dal consumatore che indica come parole chiave il marchio della società concorrente. (Es. la società XYZ S.R.L. che opera nel settore del mobilificio utilizza come meta-tag il marchio della società concorrente 123 S.P.A.)

Ci si domanda in dottrina e giurisprudenza se tale comportamento possa di per se configurare un illecito, posto che il nome o il marchio altrui, non viene posto esternamente nel sito, ma rimane visibile solamente ai motorio di ricerca.

Gli illeciti configurabili sono potenzialmente due: concorrenza sleale e contraffazione di marchio.

1.    Concorrenza sleale

Quanto alla concorrenza sleale, si è pronunciato il Tribunale di Milano, nel ormai noto caso “Solatube”, affermando che: “l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c., in quanto determinante il costante e indebito abbinamento nei risultati della ricerca sui vari motori di ricerca del web idoneo a determinare uno sviamento della clientela in violazione dei principi della correttezza commerciale.”[1]

2.    Contraffazione di marchio

La sentenza appena citata, che configura la sussistenza della violazione dell’art. 2598 n. 3 c.c., stabilisce che l’uso da parte di una società concorrente di un meta tag riproducente il macchio di un’altra società non costituisce contraffazione del marchio difettando in esso ogni funzione distintiva di servizi e prodotti proprie del marchio.

Contrariamente, secondo autorevole dottrina, qualora un soggetto utilizzi come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI (Codice della Proprietà Industriale). Tale violazione si estenderebbe, infatti, ai prodotti e servizi non affini, qualora venga utilizzato come parola chiave un marchio noto.[2] A sostegno di detta tesi, parte della dottrina ritiene appunto ragionevole riconoscere anche al meta-tag funzione pubblicitaria in senso lato.[3]

3.  Pubblicità subliminale

Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07, che prevede che la pubblicità debba essere chiaramente riconoscibile come tale.[4]

 

RISASSUMENDO

  • l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c
  • secondo autorevole dottrina, l’utilizzo di un  come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI
  • Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07

[1] Tribunale Milano, 20/02/2009, Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI)

[2]Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI); E. TOSI, Diritto privato dell’informatica, DNT, 12, 490 ss.; CASSANO, Orientamento dei motori di ricerca, concorrenza sleale e meta-tag, in Riv. dir. Ind., Milano 2009, 56

[3] Si veda quanto affermato dal il TOSI, nella nota alla sentenza del Tribunale di Milano del 20.2.2009: “a sostengo di quanto sopra affermato, l’ampio disposto dell’art. 2 lett. A) del d.lgs. 2 agosto 2005, n. 147 [..] stabilisce che per pubblicità deve intendersi qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività d’impresa allo scopo di promuovere la vendita di beni, la prestazione di opere o di servizio.”

[4] BONOMO, il nome a dominio e la relativa tutela. Tipologia delle pratiche confusorie in internet, 247 ss.; PEYRON, i meta-tags di internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giur. It., 1998, I, 739 ss.

 

 

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Diritto dell'internet II. Il marchio ed il TLD.

[:it]Il nome a dominio è costituito da un Top Level Domain (TLD) e da un Secondo Level Domain (SLD). IL TLD può essere essenzialmente di due tipi, generico (gTLD) (quando è atto a distinguere, in linea di massima, il settore di operatività - a titolo esemplificativo, .com per le attività commerciali e .org per le organizzazioni no profit) o geografico - country code Top Level Domain (ccTLD) (quando è atto a segnalare la localizzazione «virtuale» dell'elaboratore).

Si consideri, che non vi è nessuna garanzia che, in concreto, ad un dominio geografico, per esempio .it per l'Italia, .fr. per la Francia e così via, corrisponda effettivamente un elaboratore situato nel territorio evocato dal ccTLD.

L’assegnazione del nome a dominio viene svolta da organismi che hanno il compito di stabilire le procedure di iscrizione dei domini e di assegnare questi ai soggetti richiedenti contraddistinti dal Country code “.it”. Ogni stato ha i propri organi addetti a tali funzioni e ogni singolo paese opera in maniera indipendente essendo i diversi stati contraddistinti dai propri Country code (.de, .fr, .nl, .be). Sarà pertanto possibile che lo stesso domain name venga usato da soggetti distinti in diversi Stati e che gli indirizzi si diversifichino solamente  per il Country Code (p.e. “www.esempio.it” e www.esempio.de”). Sulla base di quanto sovresposto,  essendo internet una piattaforma mondiale, regolata da organi Statali indipendenti, è evidente che i rischi e le occasioni di confusione tra nomi a dominio utilizzati da titolari di marchi operanti in diversi parti del globo, saranno sempre più numerosi e frequenti.

Ci si chiede pertanto se il titolare di un marchio registrato in Italia possa agire al fine di impedire ad un terzo l’utilizzo di un nome a dominio contenente il marchio della propria impresa, qualora questo sia caratterizzato da un TLD differente (es. www.abcd.it ed www.abcd.fr).

Anche in tal caso bisogna fare una distinzione tra marchi rinomati e marchi non rinomati

 a)   casi di marchio rinomato

Secondo dottrina e giurisprudenza  nel caso di marchio di alta rinomanza, il problema del TLD non sembra neppure porsi, poiché la contraffazione del segno è anche in questo caso in re ipsa legata alla registrazione del nome a dominio, indipendentemente dal TLD che esso abbia e anche in assenza di un uso effettivo.[1]

b)   casi di marchio non rinomato

Nei casi di marchio per così dire sic et simpliciter, non pare sostenibile affermare che il titolare di un marchio registrato, non noto né tantomeno notorio, possa opporsi alla registrazione di un nome a dominio uguale o simile, ma con TLD differente (es. .it e .de).

Infatti, poiché la legge sui marchi trova applicazione solo in ambito nazionale, il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale e non può pertanto impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome a dominio uguale o simile al suddetto marchio, ma con il TLD differente.

Ad ogni modo si deve ritenere che qualora il terzo registri il domain name all’estero al fine di indirizzare gli utenti verso il proprio sito nel quale di fatto pubblicizza o vende determinati beni o servizi concorrenziali, in tal caso risulta irrilevante il territorio nel quale il segno cotraffattivo viene immesso in rete (es. formaggitaliani.it e formaggitaliani.com).

Atteso, infatti, il carattere globale del sistema di comunicazione Internet  ciascun utente, anche italiano potrà collegarsi al sito corrispondente al domain name in ipotesi confondibile con il marchio registrato.[2]

Si può quindi ritenere che “il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale, e non può impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome di dominio uguale o simile al suddetto marchio all’interno di un TLD geografico o tematico [differente], salvo che dall’uso che ne viene fatto per offrire in vendita o pubblicizzare beni o servizi, si determini una violazione del diritto”.[3]

Per concludere, quindi, si ritiene che il titolare di un Marchio italiano non può impedire ad un terzo l’utilizzo di un domain name confondibile con il suddetto marchio se riporta un TLD differente, almeno che tale registrazione abbia violato il diritto del titolare all’utilizzo del marchio, poiché atta ad indirizzare gli utenti ad un sito web nel quale vengono offerti o pubblicizzati beni o servizi identici, simili o affini.

Sulla base di quanto esposto, si ritiene comunque necessario, data la complessità e la specificità della disciplina, che tale parere venga utilizzato quale linea guida e che le singole fattispecie vengano analizzate in maniera specifica.

RIASSUMENDO
  • il TLD può essere essenzialmente di due tipi, generico (gTLD) (quando è atto a distinguere,  il settore di operatività (.com), le attività commerciali (.org) o geografico  (country code Top Level Domain ccTLD) quando è atto a segnalare la localizzazione «virtuale» dell'elaboratore (.it, .de)
  • ci si chiede pertanto se il titolare di un marchio registrato in Italia possa agire al fine di impedire ad un terzo l’utilizzo di un nome a dominio contenente il marchio della propria impresa, qualora questo sia caratterizzato da un TLD differente (es. www.abcd.it ed www.abcd.fr)
  • nei casi di marchio rinomato il problema del TLD non sembra neppure porsi, poiché la contraffazione del segno è anche in questo caso in re ipsa legata alla registrazione del nome a dominio, indipendentemente dal TLD che esso abbia e anche in assenza di un uso effettivo
  • nei casi di marchio non rinomato si può quindi ritenere che “il titolare del marchio registrato in Italia non è titolare di un diritto all’uso esclusivo del marchio fuori del territorio nazionale, e non può impedire ad un terzo di registrare all’estero un nome di dominio uguale o simile al suddetto marchio all’interno di un TLD geografico o tematico [differente], salvo che dall’uso che ne viene fatto per offrire in vendita o pubblicizzare beni o servizi, si determini una violazione del diritto”

[2] Tribunale di Reggio Emilia 30.5.2000 (ordinanza)

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Diritto dell'internet parte I: il marchio ed il nome a dominio.

[:it]Per riuscire ad entrare in questo argomento, si rende necessario esaminare in via propedeutica alcuni concetti che toccano sia il diritto industriale, che le regole consuetudinarie del mondo dell’internet.

Prima di tutto è necessario vedere come il nome a dominio viene inquadrato all’interno dell’ordinamento italiano. Il legislatore

ha disciplinato per la prima volta tale figura coll’art. 22 c.p.i. (codice della proprietà industriale), introducendo il divieto di adottare come “nome a dominio un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”.

Il nome a dominio, pertanto, può anche rilevare come segno distintivo perché alla luce della progressiva “commercializzazione” della rete Internet l’imprenditore non si avvale più di un  nome a dominio qualsiasi, ma richiede un determinato indirizzo Internet per rendere identificabili ai navigatori i prodotti o servizi offerti dal proprio sito commerciale.

La dottrina e giurisprudenza, anche anteriormente all’introduzione della suddetta definizione all’interno del c.p.i., ha riconosciuto la capacità distintiva del nome a dominio riconoscendo che: “non sembra fondatamente contestabile che il domain name nella specie assuma anche un carattere distintivo dell'utilizzatore del sito - atto a concorrere all'identificazione del medesimo e dei servizi commerciali da esso offerti al pubblico a mezzo della interconnessione di reti (Internet) - con qualche apparente affinità con la figura dell'insegna, in quanto luogo (virtuale) ove l'imprenditore contatta il cliente fino a concludere con esso il contratto”.[1]

Tale interpretazione viene nuovamente confermata anche a seguito dell’introduzione del suddetto art. 22 c.p.i. da una recente decisione del Tribunale di Milano del 20.2.2009 che conferma in via definitiva l’orientamento giurisprudenziale dominante favorevole al riconoscimento della natura distintiva del nome a dominio formatosi anteriormente al c.p.i.[2]

Alle norme sulla tutela dei marchi si affiancano anche le regole della rete. In internet vige, infatti il principio del “first come, first served”, in base al quale un nome a dominio viene assegnato al primo richiedente, indipendentemente dal fatto che sia in conflitto con altrui diritti di privativa. Gli enti preposti all’assegnazione dei domini non sono tenuti ad effettuare alcun controllo preventivo atto  a prevenire/evitare la registrazione -quale domain name - di segni o marchi confondibili con un marchio registrato da parte di un soggetto diverso dal titolare del segno distintivo. In altri termini, in base all’attuale metodo di assegnazione dei domain names, tutti i nomi non ancora registrati (come domain name) sono liberamente registrabili da chiunque sulla base delle priorità delle richieste, indipendentemente dal fatto che tali nomi corrispondano o meno a denominazioni o segni distintivi di terzi più o meno noti.

A tal punto si rende necessario andare ad analizzare l’effettivo metodo applicativo delle suddette norme e, per far ciò, si rende necessario suddividere i marchi in due macrogruppi, ossia i marchi non rinomati e quelli rinomati.

a)  casi di domani name di marchio non rinomato

Nel primo caso, qualora il domain name sia identico o simile a marchio altrui non rinomato occorre, perché questi possa inibire l’utilizzo del suddetto nome a dominio, la concorrenza di due requisiti:

-      l’identità o somiglianza del marchio con il domain name (es. il marchio registrato è ABCD s.r.l. ed il terzo utilizza un nome a dominio coincidente www.abcd.it);

-      l’identità o affinità dei prodotti o servizi offerti. (entrambi operano nello stessa branca del mercato);

In tal caso sarà applicabile il principio di specialità della tutela del marchio previsto e disciplinato dagli artt. 2569, comma 1. c.c.[3] e dall’art. 20 comma 1 c.p.i., lett. a) e b).

Ovviamente più i prodotti ed i servizi offerti sono vicini, tanto maggiore sarà la confusione del pubblico sulla effettiva provenienza degli stessi.

Pertanto, anche nel caso in cui non sussista alcuna identità tra i settori merceologici del marchio non rinomato e del domain name, qualora venga dimostrata la mala fede del titolare del nome a dominio, si ritiene tale attività essere idonea a precludere al titolare del marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo e pertanto censurabile ex art. 22 c.p.i. [4]

b)  casi di domani name di marchio rinomato

Nel caso di marchio notorio o di alta rinomanza, si ritiene indebito l’uso del domain name simile al marchio che anche nelle ipotesi di uso di segni per prodotti e servizi non affini se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.[5]

RIASSUMENDO

  • il legislatore, ha disciplinato per la prima volta tale il nome a dominio coll’art. 22 c.p.i. (codice della proprietà industriale)
  • l’orientamento giurisprudenziale dominante favorevole al riconoscimento della natura distintiva del nome a dominio
  • nei  casi di domain name di marchio non rinomato qualora il domain name sia identico o simile a marchio altrui occorrono, per inibire l’utilizzo del suddetto nome a dominio, che vi sia identità o somiglianza del marchio con il domain name e identità o affinità dei prodotti o servizi offerti
  • nei casi di domain name di marchio rinomato,  si ritiene indebito l’uso del domain name simile al marchio anche nelle ipotesi di uso di segni per prodotti e servizi non affini se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi

[1] Tribunale di Milano, ordinanza 10 giugno 1997 - Amadeus Marketing SA, Amadeus Marketing Italia s.r.l. c. Logica s.r.l.

[2] “Il domain name ha doppia natura, tecnica di indirizzo delle risorse logiche della rete Internet e distintiva. In quanto segno distintivo - costituito dalla parte caratterizzante il nome a dominio denominata Second Level Domain - può entrare in conflitto con altri segni in applicazione del principio dell’unitarietà dei segni distintivi statuito dall’art. 22 c.p.i.”. Tribunale Milano, 20.02.2009, Soc. Solatube Global Marketing Inc. e altro c. Soc. Solar Proiect e altro.

[3] art. 2569, comma 1. c.c.[3] “Chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato”.

[4] Tribunale di Milano, ordinanza 10 giugno 1997 “La pratica confusoria illecita nota come domain grabbing consiste nella registrazione, presso la Naming Authority, del marchio altrui come nome a dominio, al solo fine di appropriarsi della notorietà del segno, costituisce in sé e per sé atto di contraffazione - censurabile ai sensi degli art. 22 c.p.i. - anche in quanto attività idonea a precludere al titolare dei marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo”.

[5] Tribunale Milano, 20.02.2009 “La pratica confusoria illecita nota come domain grabbing consiste nella registrazione, presso la Naming Authority, del marchio altrui come nome a dominio, al solo fine di appropriarsi della notorietà del segno, costituisce in sé e per sé atto di contraffazione - censurabile ai sensi degli art. 22 c.p.i. - anche in quanto attività idonea a precludere al titolare dei marchio l’utilizzo in Internet come ulteriore segno distintivo”; Tribunale Modena, 18.10.2005L'assegnazione di un domain name (nome di sito web) corrispondente ad un marchio - anche solo di fatto, ma notorio - può costituire usurpazione del segno e concorrenza sleale in quanto comporta l'immediato vantaggio di ricollegare la propria attività a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorietà del segno e traendone indebito vantaggio. Inoltre, la violazione di un marchio - perpetrata mercé il suo impiego quale domain name di un sito Internet - non è esclusa dalla circostanza che tale utilizzo sia avvenuto previa autorizzazione dell'apposita autorità preposta alla registrazione dei nomi di dominio, né dal fatto che il titolare del marchio non abbia in precedenza registrato presso detta autorità il medesimo nome”.

 

 

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