indennità di fine rapporto

Concessione di vendita e indennità di fine rapporto. La nuova normativa del settore auto (e in Germania come funziona?)

L'indennità di fine rapporto per distributori o concessionari di vendita in Italia è stata oggetto di recenti sviluppi legislativi, che hanno determinato cambiamenti di notevole importanza.

La legge recentemente introdotta nel settore della distribuzione di autoveicoli stabilisce un diritto "innovativo" a un equo indennizzo per i distributori autorizzati e una durata contrattuale minima di cinque anni per i contratti a termine, così come un preavviso di ventiquattro mesi per i contratti a tempo indeterminato.

Nonostante l'interpretazione della norma e la determinazione dell'importo dell'indennità di fine rapporto presentino ancora significative complessità, in attesa di ulteriori sviluppi normativi e giurisprudenziali, il modello tedesco, che da anni la riconosce in tutti i settori commerciali, potrebbe fornire interessanti indicazioni.

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1. Introduzione. Risarcimento del danno e indennità.

Sino a pochi mesi fa, nel panorama giuridico italiano, l'indennità di fine rapporto nei contratti di concessione di vendita era privo di ogni regolamentazione normativa e la giurisprudenza è restata salda ed unanime nel ritenere che alcun indennità  debba essere riconosciuta al concessionario per la clientela da questi apportata, escludendo così un’applicazione analogica delle disposizioni in ambito di agenzia.

Nell'Ordinamento giuridico italiano, alla chiusura del rapporto contrattuale, gli interessi del concessionario sono erano principalmente tutelati nell'ambito di una valutazione della legittimità e/o congruità del recesso o dello scioglimento del contratto, tramite una stima degli utili che il concessionario avrebbe potuto ricevere se il contratto fosse stato adempiuto sino alla sua naturale scadenza. Lo strumento utilizzato è quello del risarcimento del danno, calcolato nella perdita dell'utile atteso e nell'assorbimento dei costi inerenti all'organizzazione e alla promozione delle vendite, nonché agli investimenti intrapresi confidando nella prosecuzione contrattuale.[1]

Il risarcimento non è invece inteso a ricompensare il concessionario per il lavoro svolto nel costruire una base di clienti, così come di fatto previsto nei rapporti di agenzia all’art. 1751 c.c.

Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

Così che, per i contratti a tempo determinato, è escluso il recesso unilaterale dal rapporto (salvo che questo non sia stato espressamente pattuito dalle parti) e la chiusura del contratto può realizzarsi unicamente in caso di grave inadempimento.[2]

Diversamente, per i contratti a tempo indeterminato, è consentito il recesso unilaterale, anche in assenza di un inadempimento, purché si fornisca un congruo preavviso.[3] Nel caso in cui le parti non avessero concordato un preavviso, lo stesso deve essere valutato facendo riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità; la giurisprudenza maggioritaria ritiene che questo termine anche se breve, debba essere rispettato, e che il giudice non debba valutare la sua adeguatezza.[6]

Si deve tuttavia citare un caso in cui la Corte di Cassazione, in una sentenza del 18 settembre 2009 proprio nel settore automotive,[7] ha affrontato una controversia tra un'associazione di ex concessionari di auto e Renault; in particolare, la casa produttrice era receduta dai contratti con i concessionari, riconoscendo il preavviso contrattuale, pari a dodici mesi. I concessionari hanno ritenuto il recesso abusivo e la corte ha accolto le domande dei ricorrenti, stabilendo che il giudice può valutare se il diritto di recesso è stato esercitato in buona fede o se ne è stato fatto un uso abusivo, basandosi sul criterio della buona fede oggettiva, considerata il riferimento fondamentale per la condotta delle parti.

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2. La novella in tema di distribuzione di autoveicoli.

In questo contesto, si inserisce la nuova normativa, introdotta per il settore della distribuzione automobilistica con la Legge n. 108 del 5 agosto 2022, poi aggiornata dalla Legge n. 6 del 13 gennaio 2023.

In particolare, l’art. 2 regolamenta specificamente la durata del contratto, prevedendo che:

  • se il rapporto è a tempo determinato, la durata minima dello contratto è pari a cinque anni, con obbligo di ciascuna parte di comunicare in forma scritta, almeno sei mesi prima della scadenza, l'intenzione  di  non procedere alla rinnovazione dell'accordo, a pena di inefficacia della comunicazione;
  • quanto ai rapporti a tempo indeterminato, il termine di preavviso scritto fra le parti per il recesso è di ventiquattro mesi.

Viene poi introdotto all’art. 3 della Legge, un obbligo in capo al costruttore o importatore di fornire al concessionario, prima della conclusione dell’accordo, nonché in caso di successive modifiche dello stesso, tutte le informazioni di cui sia in possesso, che risultino necessarie a valutare consapevolmente l’entità degli impegni da assumere e la sostenibilità degli stessi in termini economici, finanziari e patrimoniali, inclusa la stima dei ricavi marginali attesi dalla commercializzazione dei veicoli.

L’art. 4 poi introduce un “rivoluzionario” (almeno per il diritto italiano) obbligo del costruttore o importatore, che recede dall’accordo prima della scadenza contrattuale, di corrispondere al distributore autorizzato un equo indennizzo, che deve essere parametrato sulla base:

  1. degli investimenti che questo ha in buona fede effettuato ai fini dell'esecuzione dell'accordo e che non siano stati ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. dell'avviamento per le attività svolte nell'esecuzione degli accordi, commisurato al fatturato del distributore autorizzato negli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

L’indennizzo di cui al comma 4 non è dovuto nel caso di risoluzione per inadempimento o quando il recesso sia chiesto dal distributore autorizzato.

Da ultimo l’art. 5-bis della norma, dispone espressamente che le disposizioni di cui ai commi da 1 a 5 sono “inderogabili”.

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3.     Alcuni spunti sulla nuova normativa.

Ad oggi non si riscontrano precedenti giurisprudenziali che permettano di dare un’interpretazione del dettato normativo, che per ora resta molto generico e di difficile declinazione pratica.

In attesa di uno sviluppo giurisprudenziale, si sollevano brevemente quelle che sono le maggiori criticità che si rilevano anche da una semplice lettura del testo di legge, con particolare riguardo a due aspetti, ossia:

  • la durata del contratto e
  • la quantificazione dell’equo indennizzo.
3.1.  Durata del contratto e rinnovo automatico.

Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, sembrerebbe che lo stesso, in caso di mancata disdetta di una delle parti entro il termine di sei mesi dalla data di chiusura, si rinnovi automaticamente del medesimo periodo per cui era stato stipulato.

Si può giungere a questa “affrettata” conclusione, da una semplice lettura del testo che parla appunto di “rinnovo” e non tanto di trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, come invece previsto ad esempio nei rapporti di agenzia (cfr. art. 1750 c.c.). Chiaro trattarsi di una questione di rilevantissimo impatto pratico, posto che il rinnovo del contratto, se effettivamente automatico, comporta il prolungamento del rapporto per un periodo non inferiore a cinque anni, essendo questo il termine minimo fissato dalla normativa.

Tale elemento ha una rilevanza assai importante anche sull’eventuale diritto del concessionario all’equo indennizzo, che si ricorda non essere dovuto solamente nel caso di inadempimento del concessionario, ovvero di suo recesso. Se passa, come è più che verosimile aspettarsi, la teoria del rinnovo automatico del contratto, l’indennizzo sarà riconosciuto al concessionario anche nel caso in cui lo stesso dichiara di non volere rinnovare l’accordo prima della sua scadenza, non trattandosi tecnicamente di vero e proprio recesso. Parimenti, sarà verosimilmente dovuto l’indennizzo anche se le parti concordano di terminare il rapporto contrattuale.

Trattandosi poi di una norma inderogabile quella dell’indennizzo, si pone la problematica, così come in tema di agenzia, se una eventuale rinuncia prima dello scioglimento del rapporto possa essere ritenuta valida, oppure se la stessa sia efficace unicamente se concordata dalle parti una volta che il contratto è terminato.

Leggi anche: Quali rinunce e transazioni possono essere impugnate dall'agente di commercio.

3.2 Equo indennizzo.

Quanto alla quantificazione dell’equo indennizzo, come si è visto, la norma richiama due parametri molto generici, ossia:

  1. gli investimenti effettuati in buona fede da parte del concessionario e non ammortizzati alla data di cessazione dell'accordo;
  2. l'avviamento dell’attività commerciale, commisurato al fatturato sviluppato dal distributore nel corso degli ultimi cinque anni di vigenza dell'accordo.

In primo luogo, si fa presente che non sembra trattarsi di una applicazione analogica dei principi previsti in tema agenzia, posto che nessuno dei due requisiti fa riferimento alcuno alla clientela da questi apportata e agli affari sviluppati con quella già acquisita, così come disposto dallart. 1751 c.c.

La lettera a) dell’articolo 4 fa appunto riferimento ad investimenti effettuati in buona fede, in maniera del tutto staccata da quello che è stato l’apporto di clientela e lo sviluppo degli affari che il concessionario è riuscito a sviluppare nel corso del rapporto.

La scelta fatta dal legislatore, sembra volere dare più peso all’esecuzione del rapporto secondo buona fede, che impone da una parte al concedente di agire in modo da preservare gli interessi del concessionario e così non pretendere, o comunque spingere irragionevolmente, il concessionario ad effettuare degli investimenti sproporzionati alla tipologia e durata del contratto e, dall’altro lato, al concessionario di vedersi indennizzato solamente investimenti non ammortizzati, effettuati sulla base di un principio di buona fede.

Con riferimento invece al punto b) dell’art. 4, il legislatore fa un generico riferimento all’avviamento del concessionario, senza che venga data alcuna rilevanza, ancora una volta, ai vantaggi che il concessionario ha apportato al concedente e che lo stesso gode a seguito della chiusura del rapporto.

Inoltre, viene effettuato un generico richiamo al “fatturato del concessionario” nel corso degli ultimi cinque anni del rapporto; è chiaro trattarsi di un dato assai generico, di per sé staccato da quello che è il margine o il profitto del concessionario stesso e di per sé non necessariamente collegato ai clienti procurati dal concessionario durante la durata del contratto.

Il riferimento temporale di cinque anni, sembrerebbe richiamare il periodo di analisi applicato agli agenti di commercio, all’art. 1751 c.c., con l’unica (ma enorme) distinzione, che in tal caso si fa riferimento alla media provvigionale sviluppata dall’agente in tale intervallo.

3.3. Norme inderogabili e/o di applicazione necessaria?

Come si è avuto modo di vedere, l'art. 5-bis della nuova legge attribuisce espressamente alle nuove disposizione in tema di distribuzione automotive carattere inderogabile.

In tale ambito, sorge una questione rilevante, inerente l'applicazione del Regolamento Roma I (Regolamento CE n. 593/2008) alla nuova normativa. In particolare, ci si chiede se tali disposizioni possano essere considerate "norme di applicazione necessaria" ai sensi dell'articolo 9 del suddetto Regolamento, anche note come norme "internazionalmente imperative".

Secondo questa disposizione, le norme di applicazione necessaria sono norme giuridiche che un Paese ritiene cruciali per salvaguardare i propri interessi pubblici, come la sua organizzazione politica, sociale o economica. In determinati casi, i legislatori nazionali possono decidere di attribuire ad alcune delle loro norme imperative un carattere ancora più forte, disponendo che esse non possono essere derogate neppure sottoponendo il contratto ad una legge straniera.  Questo significa che, nonostante la scelta contrattuale di applicare una legge diversa, un tribunale potrebbe essere tenuto ad applicare tali disposizioni se ritiene essere per l’appunto di “applicazione necessaria”, in quanto cruciali per salvaguardare gli interessi pubblici dell'Italia.

Ci si deve quindi interrogare (in attesa di un adeguato sviluppo giurisprudenziale e legislativo), se le nuove disposizione sulla distribuzione automotive debbano ritenersi non solo inderogabili (ex art. 5-bis) a livello nazionale, ma anche internazionale, ex art. 9 del Regolamento Roma I.

Proprio in ambito di concessione di vendita, un esempio di norma di applicazione necessaria è rappresentato dalla legge belga del 27 luglio 1961, che all'articolo 4 impone l'applicazione internazionalmente inderogabile di tale norma in caso di controversie relative alla risoluzione di contratti di concessione eseguiti in Belgio, indipendentemente dalla legge contrattualmente scelta dalle parti. [7a]

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4. L'indennità del concessionario nel sistema tedesco.

Nell'attesa di uno sviluppo giurisprudenziale che affini e indirizzi gli operatori ad interpretare la nuova normativa, è interessante analizzare come funziona un sistema vicino al nostro, che riconosce tale indennità da diverse decine di anni; il tutto senza la pretesa di essere giuristi tedeschi, ma con la semplice intenzione di fornire al lettore una panoramica generale di suddetto modello.

4.1. I presupposti del diritto all'indennità del concessionario.

In Germania, la giurisprudenza da anni applica analogicamente i principi dell'indennità in materia di agenzia, regolati dal § 89b HGB (Handelsgesetzbuch), anche al concessionario. La disposizione in questione è il corrispettivo tedesco dell'articolo 1751 c.c., entrambi riformati per attuare la direttiva europea relativa all'agenzia commerciale del 1986.[8]

Affinché l'indennità possa essere riconosciuta, la giurisprudenza tedesca richiede il soddisfacimento dei seguenti presupposti:

  1. il contratto non deve essere sciolto dal preponente a causa di gravi inadempienze dell'agente, ovvero dall'agente senza giustificati motivi, oppure vi sia stata una cessione dei diritti e degli obblighi del contratto a un terzo;
  2. il concessionario deve essere integrato all'interno della rete di distribuzione del concedente;
  3. deve essere avvenuto un trasferimento della lista clienti.
4.1.1. Scioglimento del rapporto.

La giurisprudenza tedesca applica in via analogica i principi in tema di agenzia, per cui l'indennità ha lo scopo di compensare l'agente dei vantaggi che vengono trasferiti al preponente a seguito della chiusura del contratto, non potendo l'agente più beneficiare dei rapporti che ha stabilito o sviluppato con i propri clienti.

L'indennità, quindi, mira da un lato a compensare le perdite provvigionali subite dall’agente a causa della chiusura del rapporto, d'altro lato ha lo scopo di fornire all'agente un compenso per i vantaggi che derivano dai clienti acquisiti e/o sviluppati dall’agente. Prerequisito per la richiesta di indennità, staiblito dal comma 3 del § 89b HGB, è il fatto che il contratto non sia stato sciolto dal preponente per gravi inadempienze dell'agente, dall'agente senza giustificati motivi, ovvero per cessione dei diritti e obblighi del contratto a un terzo.

La giurisprudenza tedesca, seppure la legge non lo regolamenta espressamente, ha ritenuto che l'indennità sia dovuta in caso chiusura del rapporto per mutuo dissenso, indipendentemente da chi abbia per primo proposto la terminazione consensuale del rapporto.[9]

Questi criteri, vengono fedelmente applicati anche ai contratti di concessione di vendita, ivi incluso lo scioglimento consensuale del rapporto.[10] Pertanto, anche in caso di risoluzione consensuale del contratto, il rivenditore autorizzato avrà diritto a un'indennità, a condizione che siano soddisfatti gli altri requisiti, ossia l'integrazione nella rete di distribuzione del produttore e l'obbligo di trasferire la clientela.

4.1.2. Integrazione all’interno della rete.

Per quanto riguarda il requisito di integrazione all'interno della rete di distribuzione, è importante sottolineare che il rapporto commerciale non si limita a una semplice relazione tra un venditore e un cliente abituale, essendo necessaria una forma più approfondita di collaborazione che costituisca un vero e proprio accordo di distribuzione integrata.

Ciò implica che il rivenditore autorizzato sia coinvolto attivamente nel sistema di distribuzione del produttore, così che la richiesta di indennizzo è rivolta a compensare il concessionario non solo per la perdita dei vantaggi derivanti dai rapporti con i clienti, ma anche per il contributo attivo alla rete di distribuzione del produttore.

Leggi anche: Concessione di vendita, distributore o cliente abituale?

La giurisprudenza tedesca[11] nel tempo ha sviluppato alcuni esempi situazioni che possano determinare, o comunque portare a ritenere che vi sia una vera e propria integrazione nel sistema distributivo del concedente; qui di seguito se ne richiamano alcuni:

  • essere riconosciuto come rivenditore autorizzato;
  • conferire al produttore/concedente l'autorizzazione ad accedere ai locali commerciali e di stoccaggio in qualsiasi momento;
  • essere soggetto a obblighi di acquisto minimi dei prodotti contrattuali;
  • avere l'obbligo di stoccare le merci in magazzino;
  • creare e supervisionare officine autorizzate nel territorio del contratto;
  • fornire servizi di assistenza e riparazione ai clienti;
  • ricevere formazione da parte del produttore/concedente;
  • valorizzare, conservare e mantenere il marchio del produttore;
  • seguire le linee guida e le raccomandazioni del produttore per le vendite;
  • avere la possibilità di vendere i prodotti del produttore al di fuori del territorio contrattuale;
  • essere assegnato a un territorio contrattuale specifico, anche in assenza di esclusiva territoriale.
4.1.3. Il trasferimento dei clienti.

Un altro requisito fondamentale affinché il concessionario o il rivenditore abbia diritto all'indennità di fine rapporto è che vi sia stato un trasferimento dei dati dei clienti.

Secondo la giurisprudenza tedesca,[12] non è indispensabile che il trasferimento della lista clienti sia esplicitamente previsto nel contratto, ma può derivare implicitamente come un obbligo o essere una pratica adottata dalle parti (ad es. se il concessionario invia i nominativi dei clienti al produttore per la gestione delle garanzie o per altri scopi legati all'assistenza post-vendita).

Questo trasferimento della lista clienti è un elemento cruciale perché permette al produttore di mantenere e sviluppare la relazione con i clienti acquisiti dal concessionario anche dopo la chiusura del rapporto con il concessionario o rivenditore.

4.2. Il calcolo dell'indennità.

La quantificazione dell'indennità deve essere effettuata considerando i seguenti parametri:

  1. vantaggi per il produttore: occorre valutare se il concessionario ha acquisito nuovi clienti o consolidato quelli esistenti, come previsto dal § 89b HGB (e dall'art. 1751 c.c.), tramite un'analitica prognosi dei vantaggi derivanti dai clienti acquisiti. Spetta al concessionario fornire la prova degli sviluppi per ogni singolo cliente, non essendo sufficiente la produzione di una semplice lista dei clienti che il concessionario ha acquisto o sviluppato nel corso del rapporto.[13] La stima deve poi basarsi sui risultati degli ultimi cinque anni, in applicazione analogica del § 89b HGB;
  2. la quantificazione dei vantaggi deve avvenire in modo "equo", valutando le perdite subite dal concessionario a seguito della chiusura del rapporto. Applicando analogicamente la disciplina dell'agenzia commerciale, le perdite da considerare devono essere di natura "provvigionale". Benché, come è noto, il concessionario non viene retribuito tramite provvigioni, bensì marginalizza sulla scontistica che a questo è riconosciuta dal concedente, per potere applicare analogicamente i principi in tema di agenzia, bisogna calcolare quelle che sarebbero state le provvigioni che il produttore avrebbe pagato a un agente commerciale sulla base del fatturato effettuato dal concessionario, se la distribuzione fosse avvenuta tramite un'agenzia e le vendite fossero state realizzate in questo modo.

In questo contesto, per effettuare il calcolo delle indennità e per cerare di “provvigionalizzare” i ricavi del concessionario, bisogna detrarre dalla scontistica a questi riconosciuta, tutte quelle componenti remunerative tipiche del concessionario ed estranee all’agente. A titolo esemplificativo: le spese per il personale e le attrezzature dell'attività, per la pubblicità, la presentazione dei prodotti, l'assunzione dei rischi di vendita, di fluttuazione dei prezzi, di credito o del valore equivalente, etc.[14]

Il limite dell'indennità corrisponde alla media degli ultimi cinque anni.[15] È importante sottolineare che si tratta delle provvigioni che il concessionario avrebbe ottenuto, non del fatturato generato dal concessionario. Si tratta di un elemento particolarmente importante poiché sposta il focus d’analisi dal volume totale di affari del concessionario, per concentrarsi invece sulle effettive entrate nette.

Tale approccio tiene conto del reale vantaggio economico del concessionario, piuttosto che basarsi su una cifra generica che potrebbe non riflettere accuratamente la sua posizione commerciale. Questa distinzione assicura che l'indennità sia calcolata in modo più preciso e veritiero, riflettendo l'effettivo guadagno del concessionario piuttosto che l'ammontare totale delle vendite realizzate.

L'indennità viene poi calcolata sulla base di tali vantaggi, seguendo un approccio simile a quello utilizzato nell'agenzia.

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[1] Sul punto, cfr. Venezia, Il contratto di agenzia, 2016, pag. 140, Giuffrè.

[2] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM; In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013.

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET.

[6] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni); Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2022, pag. 659, Wolter Kluwer.

[7] Cass. Civ. 5.3.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[7a] Sul punto, Bortolotti, Il contratto internazionale, pag- 47, 2012, CEDAM.

[8] Direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.

[9] Sul punto confronta Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 599, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[10] BGH 23.7.1997 – VII ZR 130/96.

[11] BGH 8.5.2007 - KZR 14/04; BGH 22.10.2003 - VIII ZR 6/03; BGH 12.1.2000 – VII ZR 19/99; sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 600, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[12] BGH 12.1.2000 - VIII ZR 19/99.

[13] BGH 26.2.1997 – VII ZR 272/95.

[14] Sul punto confronta anche Van Der Moolen, Handbuch des Vertriebsrechts, pag. 621, 4 edizione, 2016, C.H. Beck.

[15] BGH 11.12.1996 – VII ZR 22/96.


coronavirus contratti di distribuzione contratti di agenzia

Gli effetti del coronavirus sui contratti di agenzia e di distribuzione.

Le misure restrittive che il governo ha adottato contro il coronavirus tramite il DCPM del 11.3.2020,[1] hanno portato alla sospensione di un gran numero di attività commerciali, con grave incidenza sui rapporti contrattuali in essere. Con questo articolo si cercherà di focalizzare l’attenzione sui contratti di agenzia e di distribuzione, cercando di comprendere quelli che sono i rimedi che vengono forniti dal nostro ordinamento per gestire le problematiche che più verosimilmente potranno insorgere tra le parti.

In materia contrattuale, a seguito del succitato provvedimento ministeriale, il legislatore non è intervenuto con provvedimenti ad hoc (si riscontrano unicamente in tema di agenzia alcuni provvedimenti di carattere prevalentemente tributario e contributivo),[2] limitandosi a disporre all’art. 91 Decreto Legge 18 marzo 2020, meglio conosciuto come “Cura-Italia”, in tema di “disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento”,quanto segue:

“il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”

Il senso di tale provvedimento normativo sembrerebbe demandare al giudice una valutazione più accurata e prudenziale di un eventuale inadempimento colpevole (art. 1218 c.c.) causato dal “rispetto delle misure di contenimento” della pandemia, anche ai fini della quantificazione del danno (art. 1223 c.c.), elevando il rispetto di tali misure a parametro di valutazione dell’imputabilità e dell'importanza dell’inadempimento (art. 1455 c.c.).

1. La disciplina civilistica.

Come è noto, l’art. 1218 c.c. fissa i criteri per determinare la responsabilità del debitore che non adempie la propria obbligazione, prevedendone l’esonero di una sua responsabilità per danni (art. 1223 c.c.) ogni qualvolta l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile (ex art. 1256 c.c.).[3]

L’art. 1256 c.c. prevede altresì che l’impossibilità sopravvenuta possa portare all’estinzione dell’obbligazione, dovendosi comunque distinguere tra la fattispecie di impossibilità definitiva e impossibilità temporanea. Mentre la prima, essendo irreversibile, estingue l’obbligazione automaticamente (ex art. 1256, 1 comma c.c.), la seconda determina l’estinzione dell’obbligazione solo se perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione, il debitore non può più essere tenuto obbligato ad eseguire la prestazione, ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.[4]

Posto che nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità di eseguire un’obbligazione, non sempre comporta automaticamente l’impossibilità di adempiere la controprestazione (ad es. se il venditore non può consegnare un prodotto, il compratore potrà essere ancora in grado di pagare il prezzo della cosa venduta)[5] il legislatore ha inteso tutelare la parte che ha subito l’inadempimento, disponendo all’art. 1460 c.c. che ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che non sia diversamente pattuito contrattualmente (quindi il venditore può rifiutare di provvedere al pagamento, se il produttore non consegna la merce).

Tale eccezione potrà comunque essere sollevata solamente se vi è proporzionalità tra le due prestazioni, tenuto conto della loro rispettiva incidenza sull'equilibrio del rapporto.[6]

Al fine di evitare che il rapporto contrattuale si trasformi in un “limbo” in cui entrambe le parti si limitino unicamente a dichiarare di non volere adempiere alle loro rispettive obbligazioni, qualora l’inadempimento (nel nostro caso del venditore) dipende da fattori esterni sopravvenuti (ad es. le misure sospensive del covid-19) il legislatore (riprendendo i principi generali dettati in tema di risolubilità del contratto per inadempimento, di cui all’art. 1453 c.c.), conferisce alla parti alcuni rimedi, per i casi in cui l’impossibilità sia totale, oppure solamente parziale.

L’art. 1463 c.c. (impossibilità totale) prevede che la parte che è stata liberata dalla propria obbligazione a causa della sopravvenuta impossibilità di adempiere alla stessa (ad es. il venditore che a causa del covid-19 non può più consegnare la frutta che è deperita, in quanto non è stato possibile effettuare la raccolta durante la pandemia), non può pretendere la controprestazione (quindi pagamento del prezzo) e deve altresì restituire ciò che ha eventuamente già ricevuto (ad esempio un anticipo).

L’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale) dispone invece che quando la prestazione di una parte è divenuta parzialmente impossibile (ad esempio consegna del 50% della merce venduta), l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta (pagamento del 50% della merce consegnata), ovvero può sciogliere il contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Quindi, mentre nel caso di impossibilità totale l’estinzione del rapporto contrattuale opera di diritto, in quella parziale la parte che subisce l’inadempimento può optare tra un adempimento parzialmente proporzionato, ovvero (se vi è un interesse apprezzabile) alla risoluzione del rapporto contrattuale.

Ancora differente è la fattispecie disciplinata dagli art. 1467 c.c. ss., relativa ai rapporti a prestazione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, ove a causa di fattori esterni l’adempimento della prestazione di una delle parti richieda degli sforzi che sono eccessivi e sproporzionati, rispetto a quelli che erano richiedibili una volta che il rapporto era stato stipulato. Anche in tal caso, la parte che subisce l’eccessiva onerosità della prestazione, potrà domandare la risoluzione del rapporto contrattuale, qualora si venga a creare un grave squilibrio economico tra prestazione e controprestazione.

In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (ex art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.

È assai importante sottolineare quindi che l’ordinamento non prevede un obbligo delle parti a rinegoziare e riprogrammare il rapporto medesimo, potendosi riscontrare tale fattispecie unicamente nell’ipotesi qui sopra richiamata. A parere di chi scrive, tale obbligo non si può neppure ricavare da un’applicazione estensiva del principio di buona fede di cui all’art. 1374 c.c., che ha ad oggetto la differente fattispecie di “integrazione del contratto”, nei casi di incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (e non di modifica dei termini pattizi, in caso di variazioni della posizione di equilibrio del rapporto contrattuale per fatti non imputabili alle parti).[7]

Tenuto conto che questi sono gli strumenti offerti dall’ordinamento, andiamo qui di seguito a cercare di rispondere ad alcune di quelle che sono le problematiche che potranno emergere nell’ambito della distribuzione commerciale, tenuto conto che il richiamo del legislatore agli istituti di cui agli art. 1218 c.c. e 1223 c.c., fa pensare che la preoccupazione del legislatore fosse soprattutto di mantenere in vita i rapporti contrattuali, laddove possibile e rispondente all’interesse delle parti.[8]


2. Effetti sui contratti di distribuzione
2.1. Cosa succede se il produttore non può più rifornire i propri distributori e/o clienti a causa del coronavirus?

In linea di massima, qualora il produttore non possa rifornire i propri distributori a causa di un blocco e/o rallentamento della produzione dovuta all’attuazione delle misure restrittive governative, questi non potrà essere ritenuto responsabile per tali ritardi se l'impossibilità era originaria (quindi non conosciuta al momento in cui era sorta l'obbligazione) e si sia verificata dopo la mora del debitore (art. 1219 c.c.), trovandosi il contratto in uno stato di “quiescenza”.

Se per la consegna della merce era stato previsto (espressamente o implicitamente)[9] un termine essenziale (art. 1457 c.c.), il rapporto si risolverà di diritto una volta scaduto il termine.

Qualora invece il termine della consegna della merce non sia essenziale, il rapporto contrattuale si estingue se l’impossibilità perdura fino a quanto questi non può più essere ritenuto obbligato a eseguirla, ovvero qualora nelle more venga meno l’interesse dell’acquirente a ottenere la prestazione.[10] È fatto comunque salvo il diritto dell’acquirente di non sciogliere il rapporto e chiedere unicamente una riduzione del prezzo, qualora la prestazione venga/possa essere eseguita solamente parzialmente (consegna ad es. di un solo lotto della merce acquistata).

2.2. L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli della pandemia?

La tematica dello scioglimento del rapporto di distribuzione è stata già trattata in questo blog e si richiama tale articolo per eventuali approfondimenti.

Il recesso dal contratto di concessione di vendita (o di distribuzione che dir si voglia…).

Come si è avuto di spiegare (brevemente) nella parte introduttiva dell’articolo, la parte che “subisce” l’inadempimento temporaneo, può risolvere il rapporto se non ha interesse alla continuazione parziale della prestazione. Pertanto, posto che a causa del covid-19 il rapporto di distribuzione viene interrotto per un termine che può essere più o meno prolungato, l’interesse alla continuazione del contratto di distribuzione deve essere certamente calibrato tenuto conto principalmente di due fattori: la durata effettiva dell'evento (in questo caso la pandemia) e la durata residua del contratto.

In linea di massima, si può affermare che tanto più prolungati saranno gli effetti del blocco e tanto più prossima sarà la data di scadenza naturale del rapporto, tanto maggiori saranno le possibilità di risolvere il rapporto obbligatorio. Certamente in tale valutazione, si dovrà altresì tenere conto di quelli che sono gli effetti indiretti delle misure restrittive, collegati ad una ragionevole aspettativa di una delle parti del perpetuarsi di un calo assai importante del commercio anche a seguito del venir meno del blocco.

Inoltre, qualora una delle parti sia contrattualmente tenuta a sostenere costi elevati per il mantenimento del rapporto di distribuzione (locazione, dipendenti, collaboratori, showroom, etc.) che rendono la collaborazione di fatto non più sostenibile, questi potrà valutare di risolvere il rapporto per eccessiva onerosità ex. art. 1467 c.c.

In questo caso, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo (art. 1467, comma 3 c.c.) di modificare equamente le condizioni del contratto fino a ricondurre il rapporto tra le prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto.

2.3. Le parti possono non rispettare il patto di non concorrenza?

Il patto di concorrenza nei rapporti di distribuzione (e di agenzia) può essere pattuito in duplice modo, ossia:

  • il produttore si impegna a rifornire solamente il distributore in un determinato territorio;
  • il distributore si impegna ad acquistare determinati prodotti solamente dal produttore.

Se a causa del covid-19 il produttore non può più rifornire il proprio distributore perché gli è stato imposto il blocco della produzione, ovvero il distributore non può più eseguire la propria prestazione a causa del blocco, nonostante il produttore abbia la possibilità di rifornirlo (ad es. perché aveva in stock il materiale), ci si chiede se la parte che non ha più interesse a mantenere l’obbligo di non concorrenza per fatto imputabile all'altro contraente, possa decidere di non adempiere ai propri obblighi utilizzando gli strumenti giuridici qui sopra richiamati.

Partendo dal presupposto che l’ordinamento non prevede alcun obbligo delle parti di rinegoziare l’originario assetto contrattuale,[11] non si ritiene possa desumersi l’esistenza di un principio che autorizzi una parte a obbligare l’altra a modifica il contratto in funzione di un riequilibrio.

Ne consegue che una sospensione temporanea della clausola di non concorrenza (a parere di chi scrive) non è giuridicamente fondata, se ciò non deriva da un accordo di entrambe le parti. Contrariamente, qualora il divieto di svolgere attività “in concorrenza” per il periodo in questione crei delle condizioni non sostenibili, si può eventualmente considerare l’ipotesi di risolvere il rapporto contrattuale per impossibilità sopravvenuta, oppure per eccessiva onerosità.

2.4. I budget pubblicitari devono essere forniti e spesi come concordato anche se la distribuzione non è possibile a causa della pandemia?

Qualora una delle parti sia contrattualmente tenuto a sostenere dei costi fissi per attività di marketing e pubblicitaria, potrebbe trovarsi nella posizione di decidere di non affrontare tali spese ritenendo che le stesse non siano necessarie a causa del blocco della produzione.

Per comprendere se (e quali) attività di marketing possano essere bloccate, bisogna analizzare la natura delle singole attività di pubblicità/azioni di marketing. Tendenzialmente si può affermare che tutte quelle attività “generali” che servono a mantenere il posizionamento del marchio all’interno del mercato, devono essere eseguite anche in caso di blocco della distribuzione, essendo di fatto necessarie propedeutiche alla riapertura.

Un ragionamento diverso bisognerebbe fare sulle attività di marketing relative alle azioni di vendita che non possono essere eseguite durante la pandemia. In tal caso, il problema non è tanto che tali prestazioni non possono essere eseguite (e quindi permettano di invocare l’impossibilità sopravvenuta), quanto piuttosto il fatto che le stesse non portano alcun vantaggio commerciale al soggetto che le promuove; inoltre molto spesso tali spese non graveranno economicamente così tanto sul soggetto tenuto a sostenerle, da potere sostenere la rottura dell’equilibrio contrattuale e, quindi, permettere di invocare l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.

In tal caso, qualora le parti non trovino un accordo, la parte tenuta a svolgere l’attività promozionale, potrebbe avere come unica arma (assai spuntata) quella di decidere di non adempiere e quindi di non svolgere tali attività, puntando essenzialmente sul fatto che l’inadempimento possa essere ritenuto dal giudice (tenuto conto anche dell’art. 91 Decreto Cura Italia sopra richiamato)  di scarsa importanza (art. 1455 c.c.), tenuto conto che la prestazione, non avrebbe comunque portato alcun vantaggio commerciale alle parti.


3. Effetti sui contratti di agenzia
3.1. Il preponente deve ancora pagare un fisso provvigionale/rimborso spese, se concordato contrattualmente?

Soprattutto nei contratti di agenzia, è spesso previsto che l'imprenditore paghi un fisso mensile (a titolo di rimborso spese, oppure come provvigione fissa) a cui normalmente si aggiunge una parte variabile.

In questo periodo, dato che l’attività di promozione è stata di fatto in gran parte bloccata, ci si chiede se il preponente possa decidere di togliere (almeno tale fase) questa parte fissa.

Come si è avuto modo di rilevare, seppure l’ordinamento non prevede uno strumento che legittima una parte a modificare unilateralmente il contratto, non è per nulla atipico riscontrare nei contratti di agenzia delle clausole contrattuali che conferiscono al preponente il diritto potestativo di modificare unilateralmente le provvigioni, il territorio e/o i clienti dell’agente.

Cfr. Le modifiche unilaterali del contratto di agenzia da parte del preponente.

Secondo l’orientamento prevalente della Corte, l’attribuzione al preponente di tale potere deve “essere giustificata dalla necessità di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il corso del tempo”.[12] Si può quindi ritenere che l’adeguamento del compenso provvigionale a causa del covid-19, possa essere attuato legittimamente, solamente se vi sia una clausola contrattuale che preveda tale facoltà in capo al preponente, il quale sarà comunque tenuto ad avvalersene in maniera ragionevole ed adeguata.

Diverso discorso, invece, se al contratto di agenzia si applicano gli AEC, i quali conferiscono sì da un lato la possibilità del preponente di modificare le provvigioni dell’agente, ma dall’altro lato il diritto dell’agente di rifiutare le modifiche e chiudere il rapporto per giusta causa se tali modifiche siano significative (sul tema cfr. modifiche provvigioni in base agli AEC). Si ritiene che tale norma non possa essere alterata a favore del preponente neppure tenuto conto dell'impatto che il covid-19 ha avuto sulla rete vendita del preponente, il quale dovrà essere consapevole che una eventuale modifica delle provvigioni, potrà condurre a uno scioglimento del rapporto per giusta causa da parte del proprio agente.

3.2. Cosa devono fare gli agenti se non possono visitare i propri clienti?

È chiaro che se l’agente che non può più andare a visitare i propri clienti, non potrà essere costretto a svolgere tali adempimenti; inoltre, se prima della pandemia questi non svolgeva alcuna attività di promozione online e non era contrattualmente obbligato a fare ciò, il preponente non potrà certamente imporre al proprio agente degli sforzi sproporzionati, richiedendo a questi di iniziare una attività di promozione “telematica”, tramite l’utilizzo di nuovi strumenti informatici.

3.3. Quali sono le conseguenze del mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19?

Negli ultimi anni, si sta sempre più affermando l’orientamento giurisprudenziale[13] che, seppure conferma la pacifica applicabilità della norma generale di cui all’art. 1456 c.c.  in tema di clausola risolutiva espressa, ha tuttavia precisato che al fine di azionare legittimamente il relativo meccanismo risolutorio, il giudice deve comunque accertare la sussistenza di un grave inadempimento, integrante gli estremi della giusta causa.[14]

Cfr. La clausola di “minimi di fatturato” nel contratto di agenzia.

Seguendo tale orientamento, il mancato raggiungimento dei minimi di fatturato a causa del covid-19, non potrà essere considerato di per sé inadempimento tale da legittimare uno scioglimento del rapporto per fatto imputabile all’agente, dovendo comunque il giudice valutare caso per caso l'effettiva imputabilità e colpevolezza di tale inottemperanza.

3.4. L'agente commerciale conserva il diritto alla provvigione se il cliente scioglie il contratto con il preponente a causa del coronavirus?

Se il cliente risolve il contratto con il preponente a causa del coronavirus (ad esempio perché il suo negozio ha dovuto chiudere o i suoi trasportatori si sono fermati), si pone la questione se l'agente commerciale perda il diritto alla provvigione ai sensi dell’art. 1748 c.c.

L'attuale art. 1748, 6 comma c.c. prevede che l'agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse nella sola ipotesi in cui il contratto tra preponente e terzo non è stato eseguito per cause non imputabili al preponente (norma tra l'altro inderogabile dalle parti).

La nozione di causa imputabile al preponente è stata intesa come qualsiasi comportamento doloso o colposo del preponente che abbia determinato la mancata esecuzione del contratto.[15]

Posto che l'inadempimento contrattuale del cliente per impossibilità e/o eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (a causa del coronavirus) non è un fatto imputabile al preponente, l’agente non avrà diritto a percepire la provvigione su tale affare e sarà tenuto a restituirla al nel caso in cui questa fosse stata già integralmente o parzialmente versata.

3.5. Le ripercussioni sulle indennità di mancato preavviso e fine rapporto.

Come è noto le parti hanno il diritto di chiudere il rapporto riconoscendo all’altra parte un preavviso. L’agente a seguito dello scioglimento del contratto ha diritto ad un’indennità di fine rapporto, salvo il fatto che:

  • il preponente risolve il contratto, per un fatto imputabile all’agente;
  • l’agente recede dal contratto, per fatto imputabile all’agente.

Tenuto conto di quanto sopra esposto, si può ragionevolmente sostenere che i ragionamenti fatti al precedente paragrafo "L'accordo di distribuzione può essere risolto a causa degli effetti della pandemia di Corona?” possano essere in linea di massima validi anche per il contratto di agenzia, dovendo comunque essere consapevoli che è comunque necessario operare con massima attenzione e consapevolezza prima di procedere alla chiusura del rapporto contrattuale, valutando prudenzialmente caso per caso.

Una cosa comunque è certa, che tale pandemia avrà un rilevante effetto sui calcoli dell’indennità di fine rapporto e di mancato preavviso per tutte le cessazioni dei contratti che avvengono in prossimità dell’arrivo della pandemia.

Se tali indennità dovessero venire eccessivamente distorte a causa del quadro economico collegato al covid-19, ci si chiede se l'agente possa integrarle avvalendosi del diritto garantito dall'art. 1751, comma 4 c.c., che riconosce all'agente il diritto di richiedere un risarcimento del danno ulteriore rispetto a suddette indennità.

L’orientamento prevalente sostiene che i danni che l'agente può richiedere in aggiunta all'indennità siano unicamente quelli da inadempimento o fatto illecito.[16] Ne consegue che sarà assai complesso per l’agente richiedere ulteriori somme, oltre quelle a questi riconosciute a titolo di indennità di fine rapporto, tenuto conto che il calo di fatturato (che ha comportato la diminuzione delle indennità), difficilmente potrà essere imputabile ad una colpa del preponente.


[1] Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale.

[2] Limatola, Novità in materia di contratti di agenzia nel mese di aprile 2020.

[3] Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, § 310, CEDAM.

[4] Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, §210, Giuffrè Editore.

[5] In tal caso non rileveranno in ogni caso le difficoltà finanziare del debitore, sul punto Cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane.

[6] Cass. Civ. 2016, n. 22626.

[7] Sul punto, cfr. Vertucci, L’inadempimento delle obbligazioni al tempo del coronavirus: prime riflessioni, ilcaso.it

[8] Vertucci, op. cit.

[9] Cfr. Cass. Civ. Cass. del 2013, n. 3710: l’essenzialità è una caratteristica che deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto.

[10] Cfr. sul punto Studio Chiomenti, Incidenza del Covid-19 sui contratti.

[11] Cfr. sul punto Vertucci, op. cit.

[12] Cfr. Cass. Civ. 2000, n. 5467.

[13] Cass. Civ. 2011, n. 10934, Cass. Civ. 2012, n. 8295.

[14] Venezia, Il recesso, la giusta causa e la clausola risolutiva espressa nel contratto di agenzia, marzo 2020, La consulenza del lavoro, Eutekne.

[15] Toffoletto, Il contratto di agenzia, Giuffrè.

[16] Bortolotti, Indennità di cessazione e risarcimento di danni ulteriori, www.mglobale.it


esclusiva non concorrenza contratto concessione di vendita

L’obbligo di esclusiva e il patto di non concorrenza nel contratto di concessione di vendita.

L'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.

Il concedente non può impedire che i concessionari esclusivi di zona eseguano vendite passive al di fuori del territorio loro affidata.

1. Concessione di vendita ed esclusiva

In un rapporto di concessione di vendita, per "esclusiva", deve intendersi l’obbligo da parte del concedente di rifornire unicamente il concessionario determinati prodotti nella zona affidatagli.

Seppure tale obbligazione rientra tra le pattuizioni più spesso utilizzate, essa non costituisce una parte essenziale dell'accordo e, pertanto, non è necessaria affinché il rapporto tra concessionario e concedente possa essere considerato valido.[1]

Pertanto, se le parti non l'hanno espressamente pattuita nel contratto, non  si può né dedurre che essa sussista per il solo motivo che sia stato stipulato un contratto di concessione di vendita, né, tantomeno, per il fatto che al concessionario sia stata affidata una zona (non è per nulla insolito, infatti, che un concessionario agisca in una determinata zona affidatagli, ma senza esclusiva).[2] Sul punto, si legge in Giurisprudenza che:

l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario, costituendo un elemento accidentale e non essenziale del contratto, non può ricavarsi implicitamente dalla predeterminazione di una "zona" al concessionario medesimo, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva.”

Ad ogni modo, non è escluso che le parti possano comunque dimostrare che tale obbligo sussista anche in assenza di un contratto scritto e provare per testi che, ad esempio, tale obbligazione derivi da un accordo verbale, oppure la stessa si evinca dallo sviluppo effettivo del rapporto (cfr. in tema di agenziaonere della prova nei contratti di agenzia). Sul punto una sentenza del 2007 della Corte d’Appello di Cagliari ha ritenuto che:

Nella concessione di vendita l'attribuzione del diritto di esclusiva al concessionario costituisce un elemento accidentale e non essenziale del contratto, ma la sua esistenza, qualora il contratto non rivesta la forma scritta, può essere provata per testimoni e con ogni altro mezzo idoneo (nel caso di specie l'esistenza della clausola di esclusiva è stata desunta, tra l'altro, dalla circostanza che la casa madre rifiutasse rapporti diretti con i terzi indirizzandoli verso il concessionario, dalla pubblicità sulle pagine gialle e dalla mancanza di altri concessionari nella zona).

Nel caso le parti non avessero indicato l’ambito di applicazione dell’esclusiva, essa deve ragionevolmente intendersi estesa all’intera zona affidata al concessionario; quanto ai prodotti, invece, la stessa dovrà riferirsi ai prodotti contrattuali.[3]

2. Vendite passive fuori dal territorio.

Ciò premesso, ci si domanda se il concedente, che si è impegnato a vendere in esclusiva determinati prodotto ad un concessionario esclusivo di zona (ad es. Lombardia e Piemonte), possa vendere gli stessi prodotti a soggetti fuori dal territorio, sapendo che gli stessi (potenzialmente) potrebbero rivenderli nel territorio del concessionario stesso. La Cassazione, in un orientamento più “datato” ha ritenuto che:

il patto di esclusiva comporta, con riferimento alla zona contemplata e per la durata del contratto, il divieto di compiere, non solo direttamente, ma anche indirettamente, prestazione della stessa natura di quelle formanti oggetto del contratto. […] Il divieto di commerciare […] gli stessi prodotti nella zona riservata, […] imponeva al concedente – in conformità al dovere di correttezza che costituisce il limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva contrattualmente attribuita – di astenersi da ogni comportamento idoneo ad incidere sul risultato perseguito.

Tale orientamento deve essere comunque aggiornato e “calato” in un nuovo assetto normativo, in linea con le disposizione di cui al regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione europea, in tema di accordi tra imprese che operano a livelli differenti della catena di produzione e distribuzione (accordi verticali).

In particolare, l’art. 4 del Regolamento, sancisce che non è considerato illecito impedire all’acquirente di effettuare vendite attive in territori o gruppi di clienti che il fornitore riserva a se stesso, ovvero attribuisce in esclusiva ad un altro acquirente, purché la restrizione non limiti anche le vendite da parte dei clienti dell’acquirente.

Per meglio comprendere detta norma, è importare effettuare una breve distinzione tra vendite attive e vendite passive: semplificando, una vendita passiva, può essere definita come un “acquisto”, in quanto l’iniziativa viene presa dall’acquirente;[4] la vendita attiva, invece, è una conseguenza di una strategia imprenditoriale e di azioni di marketing mirate.

Alla luce delle previsioni qui sopra brevemente riportate, un concedente può certamente creare una rete esclusiva, definendo i territori in cui i propri concessionario possono promuovere e commerciare i propri prodotti, ma limitando tali restrizioni unicamente alle vendite attive. Il concedente non può, pertanto, impedire che i concessionari esclusivi di zona non accettino ed eseguano vendite passive nei confronti di soggetti estranei alla zona a loro affidata; ciò che invece è possibile escludere e impedire è che il concessionario di zona, effettui delle vendite attive, che sono il risultato di campagne marketing o strategie commerciali eseguite al di fuori del proprio territorio.

Il concedente ha comunque un obbligo di controllo sulla rete dei propri concessionari (salvo che tale obbligo non sia contrattualmente escluso[5]) , potendo ritenersi responsabile di eventuali violazioni di esclusiva all’interno della sua rete di distribuzione e, in alcuni casi, addirittura “intervenire per contrastare il comportamento degli altri concessionari.[6]

Da ultimo, si sottolinea che la violazione del diritto di esclusiva:

si configura come comportamento contrario ai doveri di correttezza e buona fede e costituisce grave inadempimento contrattuale da cui consegue la risoluzione del contratto.

3. Concessione di vendita e obbligo di non concorrenza

Quanto, invece, all'obbligo di non concorrenza da parte del concessionario, anch'esso non costituisce un elemento naturale del contratto e, quindi, in assenza di previsione espressa, il concessionario sarà libero di trattare prodotti concorrenti.[7] Come per il patto di esclusiva, le parti possono comunque dimostrare per testimoni la sussistenza di tale obbligo.

Resta comunque fermo l’obbligo del concessionario di svolgere la propria attività in linea con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potendo svolgere attività che possa danneggiare il mercato, il marchio e il commercio del concedente.

Circa la durata del patto di non concorrenza del concessionario, essa non è sottoposta ai limiti (cinque anni) imposti dall’art. 2596 c.c., in quanto non applicabile alla disciplina in esame.[8]

_____________________________

[1] Appello Cagliari, 11/04/2007; Cass. Civ. 2004 n. 13079; sul punto cfr. Baldi – Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, 2014, pag. 135, GIUFFRÈ.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 13079; Cass. Civ. 1994, n. 6819; Bortolotti, Contratti di distribuzione, 2016, pag. 552, WOLTERS KLUWER.

[3] BORTOLOTTI, pag. 553, op. cit.

[4] http://www.impresapratica.com/internet-marketing/vendita-attiva-o-passiva/

[5] Trib. Bologna 4.5.2012.

[6] Cass. Civ. 2003 n. 18743.

[7] BORTOLOTTI, pag. 557, op. cit.

[8] Cass. Civ. 2000, n. 1238.


Il recesso dal contratto di concessione di vendita e/o distribuzione. Breve analisi.

"Il contratto di concessione di vendita non è regolato dalla legge italiana e segue le norme generali sui contratti, con applicazione di alcuni principi in tema di mandato e somministrazione. Se il contratto è stato stipulato a tempo determinato, non può essere sciolto in anticipo salvo gravi inadempienze; se a tempo indeterminato, può essere sciolto unilateralmente con congruo preavviso. Il termine di preavviso, se non pattuito, viene determinato in base alla durata del contratto e agli investimenti effettuati; qualora le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso si discute se il giudicante possa svolgere valutazioni sulla sua congruità.

Posto che il contratto di concessione di vendita non è espressamente regolato dal nostro ordinamento, si applicano allo stesso i principi generali previsti in materia di contratti, ponendo comunque particolare attenzione alle disposizioni previste per il contratto di somministrazione (1559 e ss. c.c.) e di mandato (1703 e ss. c.c.), tipologie negoziali molto vicine a quella in esame.

Qualora il contratto di concessione sia stato stipulato a tempo determinato, esso durerà fino alla naturale scadenza non potendo quindi essere sciolto anticipatamente in via unilaterale da una delle parti, salvo il caso di (grave) inadempimento.[1]

Contrariamente, qualora il contratto di concessione di vendita abbia durata indeterminata, esso potrà essere sciolto unilateralmente, senza la necessità di invocare una giusta causa, ma previa concessione di un congruo preavviso. Dottrina e giurisprudenza giungono a tale conclusione, sia in applicazione analogica dei principi dettati in tema di somministrazione (art. 1569 c.c.)[2] e mandato (art. 1725 c.c.),[3] ma altresì poggiandosi alle disposizioni generali dell’ordinamento in ambito di recesso unilaterale ed in applicazione dei principi di buona fede ex art. 1375 c.c.

Un rilevante problema si apre in merito all’individuazione della durata del preavviso, in tutti quei casi in cui le parti non lo abbiano pattuito contrattualmente; tale evenienza può riscontrarsi non solamente qualora i contraenti non abbiano pensato di regolamentare tale questione in sede di redazione del contratto quadro, ma anche nella ben più complessa situazione, in cui il rapporto tra le parti, partito come rapporto di semplice acquirente venditore, si è di fatto nel tempo “trasformato” in un contratto di vera e propria distribuzione (sul punto, confronta l’articolo Concessione di vendita, distributore o cliente abituale? Differenze, elementi caratterizzanti e criteri interpretativi).

Per comprendere cosa si intenda per congruo preavviso e, quindi, per dare un valore temporale a questo termine, bisogna fare riferimento agli interessi del soggetto che “subisce” il recesso, dovendo il recedente concedere un termine che possa permettere di prevenire, almeno parzialmente, gli effetti negativi derivanti dall’interruzione del rapporto;[4] pertanto il concessionario dovrà avere la possibilità di recuperare una parte degli investimenti compiuti (ad es. lo smaltimento delle rimanenze di magazzino), mentre il concedente avere tempo sufficiente per potere riacquistare le merci ancora giacenti presso il concessionario, così da poterle reinserire nel circuito distributivo.[5]

Per dare un taglio più pratico a tale tematica, si elencano qui sotto alcuni casi decisi dalla giurisprudenza, ove è stato ritenuto come:[6]

  • congruo un termine di 18 mesi, con riferimento ad un contratto durato 25 anni circa;[7]
  • non congruo un termine di 6 mesi (sostituito poi con uno di 12 mesi), per un contratto di 10 anni di durata;[8]
  • congruo un preavviso di 3 mesi in relazione ad un contratto di 26 mesi.[9]

In altre situazioni la giurisprudenza ha applicato quale parametro di riferimento il periodo di preavviso previsto dalle disposizioni in ambito di agenzia.[10]

Qualora invece le parti avessero pattuito e quantificato contrattualmente il termine di preavviso, la giurisprudenza maggioritaria è concorde nel ritenere che si debba comunque fare riferimento a tale termine, anche se molto breve, ritenendo che il Giudicante non possa svolgere alcuna valutazione sulla congruità del preavviso concordato dalle parti.[11]

Con riferimento a tale specifica questione, ossia in ordine alla sindacabilità del termine di preavviso concordato dalle parti, è sicuramente importante tenere presente una rilevante pronuncia della Cassazione del 18 settembre 2009,[12] che ha sancito una serie di interessanti principi. Nel merito, la controversia è stata promossa da una associazione creata da diversi ex concessionari d’auto, nei confronti della casa madre Renault, la quale aveva risolto i rapporti contrattuali con detti concessionari concedendo come termine di preavviso il periodo di 1 anno, in conformità delle disposizioni contrattuali; i concessionari chiedevano la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto. Tale procedimento è stato respinto in primo e secondo grado, ma accolto in ultima istanza da parte della Corte, la quale ha ritenuto che non si possa escludere la possibilità del giudicante di valutare se il diritto di recesso ad nutum sia stato esercitato secondo buona fede, ovvero, contrariamente, possa essere configurabile un esercizio abusivo di tale diritto. La Cassazione è giunta a tale conclusione tramite l’utilizzo del criterio della buona fede oggettiva, che deve considerarsi quale “canone generale cui ancorare la condotta delle parti.[13]

Suddetto orientamento è stato contestato da parte dalla dottrina,[14] che ha ritenuto debba essere considerato con la massima prudenza”. A conferma di ciò il fatto stesso che:

“anche dopo tale sentenza non ci risultano essere stati casi di applicazione concreta di tale principio da parte della giurisprudenza; è auspicabile, che la nozione di abuso del diritto continui ad essere applicata solo in casi estremi e giustificati.”

Contrariamente, non ci sono dubbi sulla validità del recesso in tronco, e quindi senza la concessione di un preavviso, in caso di giusta causa.[15]

Quanto all’apposizione nel contratto di distribuzione di una clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la stessa possa essere validamente inserita nell’accordo (contrariamente a quelle che sono gli orientamenti in tema di contratto di agenzia).

Qualora il rapporto venga sciolto in tronco senza giusta causa, la parte che ha provveduto a terminare il rapporto è tenuta a risarcire il danno al soggetto che ha subito tale iniziativa. Al fine del calcolo del danno, bisognerà tenere conto dei guadagni che il concessionario avrebbe presumibilmente ottenuto nella parte residua del contratto (sulla base dello storico del fatturato) ovvero delle spese sostenuto dal concessionario per l’organizzazione e la promozione delle vendite in previsione della maggiore durata del rapporto.

La giurisprudenza è invece unanime nel ritenere che l’indennità di risoluzione del rapporto in favore del concessionario debba essere esclusa e non possono applicarsi a tale tipologia contrattuale le disposizioni in ambito di agenzia.[16]

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[1] Cass. Civ. 1968 n. 1541.; in dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 139, CEDAM. 

[2] È convinzione unanime in dottrina che alla fattispecie possa applicarsi analogicamente l’art. 1569 c.c., relativo appunto al contratto di somministrazione, secondo cui ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza che sia necessario invocare al riguardo una giusta causa (cfr. sul punto I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET)

[3] Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, Vol. II, Bortolotti, 2007, pag. 42, CEDAM.

[4] In dottrina Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 140, CEDAM; In giurisprudenza Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013;

[5] I contratti di somministrazione di distribuzione, Bocchini e Gambino, 2011, pag. 669, UTET

[6] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 564, Wolters Kluver.

[7] Trib. Treviso 20 novembre 2015 in Leggi d’Italia.

[8] Trib. Napoli 14 settembre 2009 in Leggi d’Italia.

[9] Trib. Bologna 21 settembre 2011 in Leggi d’Italia.

[10] Trib. Bergamo 5 agosto 2008 in Agenti e Rappresentanti di commercio 2010, n. 1, 34.

[11] Cfr. Trib. Torino 15.9.1989 (che ha considerato congruo un termine di 15 giorni); Trib. di Trento del 18.6.2012 (che ha considerato congruo un termine di 6 mesi per rapporto durato 10 anni).

[12] Cass. Civ. 2009, n. 20106.

[13] Cass. Civ. 18.9.2009 “In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. […] L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre Cass. Civ. 2007 n. 3462)”

[14] Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 565, Wolters Kluver

[15] Corte d’Appello Roma, 14 marzo 2013

[16] Trib. Trento 18.6.2012; Cass. Civ. 1974 n. 1888; Contratti di distribuzione, Bortolotti, 2016, pag. 567, Wolters Kluver; Il contratto di agenzia, Venezia – Baldi, 2015, pag. 153, CEDAM