indennità di fine rapporto

Indennità di fine rapporto dell'agente. Come si calcola se non si applicano gli AEC?

Nei casi in cui al rapporto di agenzia non si applichino gli Accordi Economici Collettivi, comprendere se (e in che entità) sia dovuta all’agente l’indennità di fine rapporto non è per nulla agevole .

Contrariamente agli AEC, che prevedono un preciso calcolo che permette alle parti di quantificare l’indennità di fine rapporto, il codice civile prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo

L'indennità di fine rapporto è stata introdotta a livello europeo dalla direttiva 86/653CEE, poi recepita dal nostro ordinamento da ultimo con la riforma del dlgs. 65/1999, che ha novellato l'attuale testo dell’art. 1751 c.c. che così dispone:

All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni:

  • L’agente abbia procurato nuovo clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti;
  • Il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
  • Il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.”

Il Giudice deve quindi, in prima analisi riscontrare sulla base delle risultanze istruttorie, se l’agente abbia aumentato la clientela e/o gli affari dell’agente e, quindi, determinare quale importo debba essergli dovuto, giudicando secondo equità.

Nei casi in cui al rapporto di agenzia non si applichino gli Accordi Economici Collettivi, comprendere se (e in che entità) sia dovuta all’agente l’indennità di fine rapporto non è per nulla agevole .

Contrariamente agli AEC, che prevedono un preciso calcolo che permette alle parti di quantificare l’indennità di fine rapporto, il codice civile prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo

- Leggi anche: Indennità di fine rapporto: art. 1751 c.c. ed AEC a confronto.

Si vanno qui di seguito ad analizzare brevemente quelli che sono i criteri indicati dal Codice civile.


1. L'apporto di clientela da parte dell'agente.

L’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. è indubbiamente finalizzata a premiare l’attività di promozione e sviluppo della clientela del preponente. Per tale motivo, deve considerarsi esclusa dall’ambito di applicabilità di tale norma, l’attività di reclutamento e coordinamento di agenti, posto che quest’ultima, seppure rilevante e molto importante sul piano organizzativo, ha natura esclusivamente strumentale ed accessoria rispetto a quella di potenziamento della clientela.[1]

Seguendo tale ragionamento, neppure il mero incremento del fatturato da parte dell’agente, può considerarsi sufficiente per provare l’apporto di nuovi clienti o lo sviluppo sostanziale di quelli già esistenti all’inizio del rapporto:[2] non è bastevole che l’agente dimostri (cfr. onere della prova nel contratto di agenzia) l’incremento delle proprie provvigioni negli anni, se altresì non indica diligentemente i clienti nuovi che ha apportato. Si legge in giurisprudenza:

la domanda volta al pagamento dell’indennità ex art. 1751 c.c. non può trovare accoglimento nell’ipotesi in cui il ricorrente dia genericamente atto in ricorso della ricorrenza dei relativi presupposti, tuttavia omettendo di dedurre puntualmente in ordine al volume di affari gestito per ogni singolo cliente, così come di specificare gli affari conclusi, il valore complessivo dei contratti, l’eventuale incremento rispetto agli affari conclusi con lo stesso cliente nell’anno precedente, tralasciando del tutto di indicare quali clienti abbia personalmente seguito.”[3]

E ancora:

L’agente che agisce ex art. 1751 c.c. deve provare pima di tutto di avere apportato nuova clientela alla casa mandante, o quanto meno, di avere determinato un incremento del fatturato relativo ai clienti che, prima dell’inizio del rapporto di agenzia, già trattavano affari con la stessa.[4]

Quanto alla definizione di “nuovo cliente”, si ricordare che nel 2016 è intervenuta la Corte di Giustizia europea,[5] interrogata circa la possibilità di riconoscere come tali, soggetti giuridici che già precedentemente il conferimento del mandato di agenzia, avevano instaurato rapporti commerciali con la casa mandante, ma per prodotti differenti rispetto a quelli oggetto del contratto di agenzia. Nello caso di specie, l’agente aveva ricevuto mandato per la vendita di montature per occhiali di marchi differenti rispetto a quelli che erano stati già commercializzati da parte del preponente; si domandava pertanto alla Corte se la vendita di tali nuovi prodotti a clienti già esistenti, potesse rientrare nella definizione civilistica[6] di “nuovo cliente”. La Corte, si espresse affermando che;

devono essere considerati nuovi clienti ai sensi di detta disposizione, sebbene questi intrattenessero già rapporti commerciali con il preponente in merito ad altre merci, qualora la vendita delle prime merci realizzata dall’agente stesso gli abbia imposto di porre in essere rapporti commerciali specifici, cosa che spetta al giudice del rinvio accertare.”


2. Vantaggi per il preponente derivanti dall'attività svolta dall'agente.

La seconda condizione prevista dall’art. 1751 c.c. è che “il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.” Quando si analizza tale condizione, bisogna certamente comprendere a quale periodo temporale bisogna fare riferimento per verificare la sussistenza o meno dei vantaggi. Secondo la migliore dottrina[7] il dettato normativo è abbastanza chiaro e si riferisce alla situazione esistente al momento della cessazione del rapporto; la giurisprudenza, contrariamente, non è univoca in merito, e si  registra un orientamento opposto, che ritiene necessario verificare se i vantaggi sussistono e permangono anche negli anni successivi ed escludendo, in tal senso, l’indennità, qualora l’agente non sia in grado di provare giudizialmente la “fidelizzazione” dei clienti anche a seguito dello scioglimento del rapporto.[8]

Certamente non può incidere negativamente per l’agente la scelta personale del preponente di optare per cedere ad altri l'azienda (per un prezzo indubbiamente determinato, oltre che dal marchio, anche dall'avviamento, costituito essenzialmente dal portafoglio clienti), salvo, ovviamente, che non venga accertato che l'incremento di clientela sia dipeso da fattori esterni all'agente.[9]

Deve, invece, considerarsi sussistente la condizione, ove i contratti conclusi dall’agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell’avviamento e i vantaggi per il preponente, anche successivamente lo scioglimento del rapporto, sono in re ipsa.[10]


3. La determinazione dell'indennità di fine rapporto secondo equità.

Una volta accertata l’esistenza dei primi due requisiti, il Giudice dovrà quantificare l’indennità secondo equità. Come si è già accennato, ai fini della determinazione del quantum, il Giudice è tenuto a verificare il rispetto del requisito di equità prescritto dall'art. 1751 c.c., tenuto conto di tutte le circostanze del caso ed in particolare delle provvigioni che l'agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

È interessante sottolineare che, mentre la legge individua chiaramente i requisiti perché possa essere riconosciuta all’agente l’indennità, per la quantificazione secondo equità, il riferimento normativo non è tassativo e riguarda tutte “le circostanze del caso”, individuando, unicamente a titolo esemplificativo, il riferimento alle provvigioni che l’agente perde e che risultino dagli affari con i clienti.[11] A tal riguardo, la Giurisprudenza ritiene che il Giudice deve:

avere riguardo a tutti quegli elementi che sono idonei a pervenire ad una adeguata personalizzazione dei quantum spettante all’agente[12] e “possa considerarsi o no ‘equa, nel senso di compensativa anche del particolare merito dell’agente emergente dalle [emergenti] circostanze di fatto.[13]

Ove non la ritenga congrua, in mancanza di una specifica disciplina, deve riconoscere all'agente il differenziale necessario per riportarla ad equità.”[14]

È chiaro che l’equità è un principio difficilmente declinabile da un punto di vista pratico. Ne consegue che la mancata applicazione degli AEC al rapporto, comporta certamente una maggiore incertezza in merito alla quantificazione dell’indennità di fine rapporto, posto che la stessa è demandata, in ultima analisi, alla sensibilità del singolo Giudice.

Importante inoltre ricordare che quella di cui all’art. 1751 c.c. si tratta di una tipica ipotesi di equità giudiziale e in quanto tale è censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione, ma non nel suo ammontare.[15]


4. Indennità di fine rapporto calcolata sulla base dei criteri fissati dalla Commissione.

Dall'analisi qui sopra riportata, emerge che l'impostazione della direttiva europea, che prevede unicamente un massimale per il livello di indennità, senza fornire orientamenti precisi circa il metodo di calcolo, abbia e continua a creare una grande incertezza. È di tutta evidenza, quindi, che un metodo chiaro e preciso, magari sviluppato da parte della giurisprudenza nazionale, porterebbe ad una maggiore certezza del diritto, con vantaggi per entrambe le parti contraenti.

Tale problematica è stata altresì riscontrata da parte della stessa Commissione Europea nella relazione del 23/7/1996, la quale ha, consapevole di tale limite normativo, ha predisposto una relazione volta da un lato ad analizzare in che maniera la giurisprudenza europea ha approcciato tale problematica interpretativa e dall'altro lato a fornire una soluzione ai paesi membri.

Una soluzione sarebbe stata ritrovata nel modello tedesco (ed in particolare il §89b del HGB a cui la normativa si è ispirata), tenuto conto del fatto che dal 1953 prevede il pagamento di un'indennità di plusvalore, che ha dato luogo ad un'ampia giurisprudenza per quanto riguarda il calcolo di quest'ultima.

La relazione della Commissione, si addentra nel dettagli ad analizzare il modello di calcolo sviluppato dalla giurisprudenza tedesca, al quale si rimanda integralmente. Per quel che possa servire, è importante sottolineare il fatto che il sistema sviluppato dalla giurisprudenza tedesca è stato poi utilizzato come modello per la redazione dei calcoli degli AEC e che, pertanto, lo stesso seppure assai complesso, non è poi per noi del tutto alieno.

La Commissione, dopo avere analizzato in maniera analitica il metodo di calcolo, conclude osservando come il modello sviluppato dalla Giurisprudenza tedesca, possa essere comunque utilizzato come modello da applicare, potendo ciò "facilitare un'interpretazione più uniforme di tale articolo."

La giurisprudenza italiana ha in ogni caso assai raramente seguito tale modello (forse anche perché non spinto da parte dei difensori delle parti), che al momento resta essere quasi del tutto sconosciuto; in ogni caso si riscontrano alcune pronunce di merito che hanno condiviso la posizione della Commissione, che hanno ritenuto adeguato effettuare la quantificazione dell'indennità di fine rapporto sulla base dei criteri di calcolo fissati dalla Commissione Europea nella relazione del 23/7/1996 sull’applicazione dell’art. 17 direttiva 86/653/CEE. [16]

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[1] Cass. Civ. 2018 n. 25740.

[2] Sul punto cfr. anche Bortolotti, Contratti di distribuzione, pag. 386 e ss., 2016, Wolters Kluver.

[3] Tribunale di Milano 26.7.2016.

[4] Tribunale di Bari 12.2.2014.

[5] Sentenza del 7.4.2016, causa C-314/14, Marchon c. Karaskiewicz

[6] Per essere più precisi, nella definizione di “nuovo cliente”, di cui all’art. 17 della direttiva europea 1986/653 in tema di agenti di commercio, con art. 4, D.Lgs. 10.9.1991, n. 303 che ha modificato l’art. 1751 c.c. e sostituito con art. 5, D.Lgs. 15.2.1999, n. 65.

[7] Bortolotti, Contratti di distribuzione, p. 388.

[8] Cfr. Tribunale di Padova 21.9.2012 ove è stato negata l’indennità per mancanza di ordini a seguito dello scioglimento del rapporto; in senso contrario Cass. Civ. 2013 n. 24776 “Del resto l'utilità per il preponente va valutata al momento della cessazione del rapporto assumendo rilevanza la cristallizzazione dei risultati ottenuti dall'agente a tale momento.”

[9] Cass. Civ. 2013 n. 24776.

[10] Cass. Civ. 2013 n. 24776.

[11] Cfr. Cass. Civ. 2018 n. 21377, Cass. Civ. 2008 n. 23966.

[12] Cass. Civ. 2016 n. 486.

[13] Cass. Civ. 2014 n. 25904.

[14] Corte d'Appello Firenze 4.4.2012.

[15] Cass. Civ. 2018 n. 25740.

[16] Tribunale di Pescara del 23.9.2014, con commento di Trapani in Agenti&Rappresentanti di commercio n. 2/2015; Tribunale di Bassano del Grappa del 22.11.2008


Il patto di non concorrenza post contrattuale del lavoratore dipendente, autonomo, amministratore, socio ed agente. Una breve panoramica.

Il patto di non concorrenza post-contrattuale è sicuramente un elemento molto delicato in un rapporto di lavoro e che, in base al soggetto destinatario di tale obbligazione, presenta differenti requisiti di forma e di sostanza. Con il presente articolo si intende fornire al lettore, una panoramica di tale istituto, andando ad analizzare brevemente come e con che limiti tale vincolo possa legare il lavoratore dipendente, il lavoratore autonomo, l'amministratore, il socio e l'agente di commercio.

  1. Lavoratore dipendente

Il patto di non concorrenza del lavoratore dipendente è disciplinato all’art. 2125 c.c. Tale articolo dispone espressamente che il patto deve a pena di nullità:

  1. a)  essere stipulato in forma scritta;
  2. b)  stabilire un vincolo contenuto entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo;
  3. c)  prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore.

Con riferimento al punto a) non ci sono questioni particolari da affrontare. Il patto dovrà̀ essere sottoscritto (e preferibilmente siglato su ogni pagina) da parte del lavoratore. Inoltre, seppure secondo la giurisprudenza tradizionale, il patto di non concorrenza non richiede la doppia sottoscrizione ex. art.13.41 c.c.[1], si consiglia comunque, prudenzialmente, di apporre una specifica approvazione per iscritto di tale impegno post contrattuale onde evitare eventuali contestazioni, anche in vista di un eventuale mutamento dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.

Quanto al punto b), i limiti temporali del patto postcontrattuale vengono definiti dal secondo comma dell’art. 2125 c.c. in 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri casi. Si tiene a sottolineare che i termini indicati dal 2125 c.c. costituiscono i limiti massimi di durata del patto e la corresponsione del compenso dovuto al lavoratore deve essere anch’esso calibrato sull’effettiva durata del patto concordata tra le parti.

La valutazione della congruità del luogo entro cui è vietata l’attività è in stretto collegamento con l’oggetto dell’attività che viene svolta dal dipendente e, a tal fine, l’indicazione di uno spazio troppo ampio può comportare la nullità del patto stesso. Sul punto, si riscontrano precedenti giurisprudenziali controversi, una parte della giurisprudenza ritiene infatti che il patto esteso all’intero territorio nazionale sia nullo, in quanto eccessivamente limitativo della possibilità di reimpiego del lavoratore.[2] Altre pronunce, invece, hanno considerato validi patti estesi a tutto il territorio comunitario,[3] in quanto l’attività era stata puntualmente specificata in modo da non limitare eccessivamente la capacità lavorativa e professionale del dipendente.

Circa invece la quantificazione del compenso, la giurisprudenza assume quale criterio valutativo la congruità dello stesso al sacrificio sopportato dal lavoratore nel singolo caso di specie[4], ritenendo che la somma corrisposta al lavoratore debba essere ad esso proporzionata.[5]

È chiaro che, essendo il concetto di congruità molto astratto, è assai difficile declinarlo con criteri oggettivi. Ad ogni modo, seppure non esista un criterio univoco ed obiettivo al fine di stabilire la congruità del patto, la giurisprudenza ritiene che un corrispettivo che si aggiri intorno al 15%-35% della retribuzione lorda annua possa essere considerato congruo.[6]

In secondo luogo, il quantum oltre ad essere congruo deve essere predeterminato e/o predeterminabile. La giurisprudenza ha ritenuto nullo, in quanto appunto indeterminabile, un patto che prevedeva a favore del lavoratore un tot euro per ogni mensilità fino alla cessazione del rapporto, in quanto tale patto non permetteva al lavoratore di determinare ex ante, già all’atto della sottoscrizione dell’accordo, un ammontare minimo.[7]

Al fine di trovare una soluzione alle problematiche qui sopra illustrate e per cercare di stipulare un patto di non concorrenza che effettivamente sia valido e con più ridotte possibilità di essere impugnato, si potrebbe ipotizzare di inserire quale indennità riconosciuta al lavoratore, una somma percentuale il cui valore incrementa con l’allungarsi del rapporto e che sia collegata alle somme lorde corrisposte al lavoratore nell’ultimo anno di rapporto ovvero, in caso più̀ favorevole, nei dodici mesi successivi alla sottoscrizione del patto.

  1. Lavoratore autonomo

Il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un lavoratore autonomo,[8] è regolamentato dall’art. 2596 c.c.

I limiti previsti da tale norma sono i seguenti:

  1. deve essere provato per iscritto
  2. esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività;
  3. non può eccedere la durata di cinque anni.

Come si evince, i punti a), b) e c), sono analoghi a quelli già sopra trattati, ai quali ci si rimanda integralmente.

La differenza essenziale e che l’art. 2596 c.c., contrariamente all’art. 2125 c.c., non contempla alcuna sanzione per la mancata previsione di un corrispettivo in favore di chi si sottopone convenzionalmente a limitazioni concorrenziali. Pertanto, a nulla rileva il fatto che il patto di non concorrenza non preveda alcun corrispettivo, risultando sotto questo aspetto, comunque valido, efficace ed inopponibile.

Ad ogni modo, molto spesso si riscontra in azienda la problematica collegata ad un non corretto inquadramento dei lavoratori autonomi, i quali, per le modalità in cui svolgono la loro attività all'interno di una azienda, potrebbero non essere stati adeguatamente inquadrati come dipendenti. Per tali figure, potrebbe delinearsi la problematica per cui, una volta cessato il rapporto, esse intendano promuovano ricorso d’avanti al Tribunale del lavoro, al fine di accertare la subordinazione del rapporto e, con essa, l'invalidità del patto di non concorrenza, in quanto privo di uno degli elementi essenziali previsti ex art. 2125 c.c. (appunto la retribuzione).

Ad ogni modo, si sottolinea come la previsione, a favore di detti soggetti, di prevedere un patto di non concorrenza retribuito, potrebbe essere da questi utilizzato quale ulteriore elemento per provare la natura subordinata del rapporto.

  1. Amministratore di società

Al pari dei lavoratori autonomi, il patto di non concorrenza fatto sottoscrivere ad un amministratore è anch’esso soggetto ai limiti di cui all’art. 2596 c.c. e, pertanto, non è previsto l’obbligo che lo stesso debba essere retribuito.

Con riferimento al divieto di concorrenza dell’amministratore in corso di rapporto, esso è unicamente regolato ex art. 2390 c.c., per gli amministratori di società per azioni, che così dispone:

"[1] Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea.

[2] Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni"

Contrariamente, per le s.r.l. non è previsto un esplicito divieto degli amministratori ad agire in concorrenza nel corso del loro mandato [9], con la conseguenza che è lo Statuto della società che può liberamente prevedere se l’amministratore possa o non possa svolgere tali attività.

  1. Soci di s.r.l.

I soci di s.r.l. non sono tenuti ad astenersi da attività concorrenziali con la società di cui sono titolari di quote. Invero, nel sistema italiano la concorrenza è inibita solo ex art. 2301 c.c. ai soci delle società in nome collettivo e agli accomandatari delle s.a.s.

Se si intende prevedere un obbligo di non concorrenza anche per i soci, si potrebbe:

  1. fare sottoscrivere ai soci un patto di non concorrenza;
  2. sottoscrivere un patto parasociale, con il quale, tutti i soci si impegnano a non svolgere attività in concorrenza con la società e i cui contenuti sono comunque quelli previsti dall’art. 2596 c.c.

Si tiene a precisare che il patto parasociale ha anch’esso validità massima di 5 anni e che, pertanto, dovrà essere rinnovato alla sua scadenza.

  1. Contratto di agenzia

Il contratto di agenzia regola espressamente la disciplina del patto di non concorrenza, all’art. 1751-bis del codice civile.

Tale tematica è stata già trattata in questo blog e si rimanda pertanto, alla consultazione del seguente articolo (L’obbligo di non concorrenza nel contratto di agenzia: durante e a seguito della cessazione del rapporto).

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[1] La giurisprudenza tradizionale ha escluso l'applicabilità al patto di non concorrenza delle disposizioni relative alle clausole vessatorie, sulla base del rilievo che l'art. 2125 delinea condizioni più garantistiche rispetto a quelle stabilite dall'art. 1341, e stante la tassatività delle ipotesi contemplate nel 2° co. di quest'ultima disposizione (Cfr. Trib. Torino 8.2.1979).

[2] Trib. Monza 3.9.2004.

[3] Cass. 21.6.1995 n. 6976; Trib. Milano 22.10.2003.

[4] Sul punto Cassazione 1998 n. 4891.

[5] Cass. Civ. 1998 n. 4891; Trib. Milano 27.1.2007.

[6] Ad es. è stato ritenuto congruo un corrispettivo quantificato nel 15% dell’importo totale delle retribuzioni corrisposte al lavoratore negli ultimi 2 anni del rapporto a fronte di un obbligo di non concorrenza di 2 anni di durata) Trib. Milano, 22.10.2003.

[7] Trib. Venezia 31.5.2014.

[8] IMPORTANTE. In tale categoria non rientra l’agente di commercio, per il quale è prevista una disciplina a parte, regolamentata all’art. 1751-bis, che non è oggetto di esamina per il presente parere.

[9] Infatti, prima della riforma operata con il d. lgs. n. 6 del 2003, l'art. 2475 del c.c. faceva esplicito riferimento all'art. 2390 del c.c. Ora il richiamo è stato eliminato.

 


L'obbligo di iscrizione all'albo dell'agente di commercio.

Secondo ormai consolidata dottrina e giurisprudenza, sia italiana che della Corte di Giustizia europea, la mancata iscrizione al ruolo di un agente di commercio italiano, operante in Italia, non inficia la validità del contratto di agenzia.

Si può affermare che a tale conclusione la giurisprudenza italiana è arrivata dopo un non breve e lineare percorso. Tutto è partito dal fatto che l’art. 9 della legge 3 maggio 1985, n. 204, prevede espressamente  che “è fatto divieto a chi non è iscritto al ruolo di cui alla presente legge di esercitare l'attività di agente o rappresentante di commercio”.

La giurisprudenza italiana, fino all’entrata in vigore della normativa europea (86/653/CEE), ha fatto discendere dalla norma sopracitata il divieto assoluto di esercizio della professione da parte degli agenti non iscritti, con la conseguente nullità ex art. 1418 c.c. del rapporto contrattuale, per contrarietà a norme imperative. (ad es. Cass. Civ. n. 4154 del 1992).

A seguito dell’entrata in vigore della direttiva 86/653/CEE, il Tribunale di Bologna, in una vertenza in cui ad un agente non iscritto al ruolo era stata negato il diritto di percepire l’indennità di fine rapporto, prevista dall’art. 1751 c.c., a causa della nullità del relativo contratto, sottoponeva alla Corte di Giustizia il seguente quesito:

se la direttiva 86/653/CEE sia incompatibile con gli art. 2 e 9 della legge interna italiana n. 204 del 3 maggio 1985, che condizionano la validità dei contratti di agenzia all’iscrizione degli agenti di commercio in apposto albo”.

La Corte di giustizia, con sentenza del 30.4.1998, nel caso Barbara Bellone / Yokohama spa affermava quanto segue:

la direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in un apposito albo”.

Si rileva che, nonostante la Corte non abbia espressamente affrontato la questione della nullità dei contratti con gli agenti non iscritti al ruolo, questa abbia di fatto inteso affermare l’incompatibilità dell’art. 9 della legge del 1985, rispetto alla validità dei relativi contratti.

Si deve pertanto ritenere  che la direttiva ha efficacia diretta, con conseguente obbligo per i giudici nazionali di disapplicare la disposizione interna incompatibile. La Corte di Cassazione sul punto, ormai in maniera uniforme, ha più volte ritenuto

"la validità dei contratti di agenzia stipulati con agenti non iscritti all'albo sul rilievo che la norma che ne statuiva la nullità, art. legge n. 204 del 1985, essendo in contrasto con la direttiva comunitaria n. 653 del 1986, andava disapplicata. Tali principi, confortati dalla decisione della Corte di Giustizia dell'Unione europea del 30 aprile 1998 (resa nel procedimento C - 215 del 1997, Bellone e. Yokohama s.p.a.), ai sensi della quale deve ritenersi che "osta ad una normativa nazionale subordinare la validità di un contratto di agenzia all'iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo", vanno confermati, consegue che va rigettato il motivo.” (tra le varie, cfr. Cass. Civ. n. 18202 del 2005).

La giurisprudenza italiana ha pertanto interpretato tale norma, affermando che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le leggi interne quanto più possibile alla luce di tenore e finalità della direttiva 86/653/CEE, in modo da consentire un’applicazione conforme ai suoi obbiettivi.

Sulla base di tali orientamenti giurisprudenziali, il legislatore con il D. Lgs 26.03.2010, n. 59, l’ordinamento italiano ha recepito la direttiva comunitaria 2006/123/CE, nota come “direttiva Servizi”. Tra gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva comunitaria, vi era quello di semplificazione delle modalità di accesso anche all'attività di agente di commercio. A tal fine, pertanto, l’art. 74 del D. lgs. 59/2010 ha espressamente disposto:

  • la soppressione, tra gli altri, del ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio (“RAR”), previsto dall'art. 2 della legge 204/1985;
  • l’assoggettamento dell’inizio dell’attività di agente commerciale alla DIA (Dichiarazione Inizio Attività) - ora SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) - corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti;
  • l’iscrizione dell’attività di agenti o rappresentanti di commercio nel RI (Registro delle Imprese) se l’attività è svolta in forma di impresa, ovvero in un’apposita sezione del REA (Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative).

L’effettiva soppressione del Ruolo è stata resa operativa dal 12 maggio 2012, a seguito dell'entrata in vigore del Decreto Ministeriale attuativo del 26.10.11.

Da tale data, pertanto, coloro che intendono iniziare l’attività di agenzia commerciale devono presentare all’ufficio del registro della Camera di Commercio della provincia dove esercitano l’attività, apposita SCIA, corredata delle certificazioni e delle dichiarazioni sostitutive previste dalla legge 204/1985, tramite la compilazione del modello “ARC” allegato al decreto attuativo.

Per i contratti di agenzia che sono stati stipulati anteriormente alla soppressione dell'albo, si deve quindi ritenere che il giudice italiano dovrà pertanto disapplicare la legislazione al tempo in vigore e si può concludere che, in seguito alla sentenza Bellone, i contratti con agenti che non erano iscritti all'albo devono considerarsi pienamente validi.

Da ultimo, bisogna da ultimo rimarcare il fatto che l’obbligo di iscrizione al ruolo da parte degli agenti (seppure questo sia stato di fatto derogato e non ha più una reale efficacia) sussisteva solamente per  gli agenti che esercitano in Italia e deve escludersi non solo per gli agenti residenti all'estero, ma anche per gli agenti italiani che di fatto operino e promuovano affari all'estero.