Ex agenti: diritto di lavorare per la concorrenza, ma entro i limiti della "lealtà".

Mentre l’obbligo di non concorrenza durante il contratto rappresenta un normale onere imposto all’agente, il patto di non concorrenza postcontrattuale è ammesso solo in presenza di specifico accordo tra le parti e, comunque, entro i ristretti limiti previsti dall’art. 1751-bis c.c.

In assenza di tale patto, una volta sciolto il rapporto contrattuale, nulla vieta all’agente di avviare un’attività in concorrenza col precedente preponente, posto che la pura e semplice qualifica di ex agente non è sufficiente a rendere illecita un’attività che non abbia in sé stessa alcun autonomo connotato di slealtà.

La disciplina della concorrenza sleale viene normata all’art. 2598 c.c. che così dispone:

"Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

  1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
  2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;
  3. si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda."

La norma in esame delinea, ai nn. 1 e 2, le fattispecie tipiche di concorrenza sleale, facendo rientrare al punto 1 tutti gli atti “idonei a produrre confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”, mentre al punto 2 gli atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.

La fattispecie della “confusione” è integrata dalla condotta dell’imprenditore che indirizza al pubblico dei potenziali acquirenti un messaggio idoneo a generare il falso convincimento che i suoi prodotti e/o le sue attività siano riconducibili ad un imprenditore concorrente; si ha invece “imitazione servile” in caso di sviluppo di un prodotto tramite la violazione di un brevetto della società concorrente e/o con l’ausilio di informazioni tecniche di carattere confidenziale di proprietà della mandante.

Il punto 3 dell’art. 2598 c.c. prevede, invece, la clausola generale della correttezza professionale quale regola a cui gli imprenditori devono attenersi per evitare di danneggiare i concorrenti e compiere atti di concorrenza sleale.

Seppure in assenza di un valido patto di non concorrenza postcontrattuale è perfettamente lecito che l’ex agente svolga a seguito dello scioglimento del rapporto un’attività in concorrenza con l’ex preponente, parte della giurisprudenza[1] ritiene, sul presupposto della maggiore “pericolosità” della concorrenza dell’ex agente, che esiste in capo allo stesso una speciale accentuazione del dovere di lealtà e probità professionale, nonché uno speciale dovere di discrezione e di non aggressione verso l’impresa di provenienza.

Quindi evidente la difficoltà di bilanciare quelli che sono, di fatto, due interessi tra loro contrapposti: da un lato il diritto di svolgere attività in concorrenza al preponente in assenza di un patto di non concorrenza post-contrattuale, dall’altro lato, il dovere dell’agente di agire secondo lealtà professionale ed entro i limiti imposti dall’art. 2598 c.c.

In linea di principio, il dovere di correttezza professionale si declina, nel caso dell’ex-agente, principalmente nella gestione dei rapporti che lo stesso instaura con la clientela dell’ex preponente.

Sul punto la giurisprudenza[2] si è più volte pronunciata, affermando che:

“i vantaggi, in termini di avviamento e clientela, che derivano al committente dall'attività promozionale svolta dall'agente, restano acquisiti al committente medesimo, anche dopo l'estinzione del rapporto di agenzia, come bene appartenente alla sua azienda, tutelabile contro eventuali atti di concorrenza sleale, pure se provenienti dall'agente stesso dopo l'estinzione del rapporto; con la conseguenza che  lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex agente […] di una azienda, facendo uso delle conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto o, comunque, con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, costituisce concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c."

La Corte si è altresì pronunciata sul punto, chiarendo che:

costituisce concorrenza sleale per lo sviamento di clientela la sistematica utilizzazione da parte di ex collaboratori di informazioni riservate acquisite nel precedente rapporto, quali la lista della clientela, ed aver proposto ad essi condizioni contrattuali più favorevoli.

Sempre nella medesima sentenza la Suprema Corte afferma che:

“costituisce atto di concorrenza sleale, contrario alle regole di correttezza professionale (art. 2598, n. 3, c.c.), lo sviamento di clientela posto in essere dall'ex dipendente di un'azienda che, facendo uso di conoscenze riservate acquisite nel precedente rapporto di lavoro subordinato (e relative alla clientela ed alle condizioni economiche dei rapporti contrattuali in corso), intraprenda analoga attività imprenditoriale acquisendo sistematicamente i clienti del concorrente (attraverso la predisposizione di lettere di disdetta dei contratti preesistenti, l'invio delle stesse a sua cura nei termini contrattualmente previsti, la conseguente stipulazione di nuovi contratti).[3]

In giurisprudenza si trovano altri precedenti, collegati soprattutto ad attività di concorrenza sleale compiute da parte di ex dipendenti per i quali è disponibile maggiore casistica sia in letteratura che in giurisprudenza. Si riportano comunque alcuni di tali precedenti stante l’applicabilità di principi generali ivi annunciati anche alla categoria di agente di commercio.[4]

  • Commette concorrenza sleale chi “propone a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili; b) ostenti in funzione reclamistica, presso clienti dell’ex datore di lavoro, la propria qualità di ex dipendente di questi; c) istituisca, nell’opera di propaganda della propria impresa svolta presso clienti dell’ex datore di lavoro, un’esplicita comparazione tra i prodotti e i prezzi di quest’ultimo e i propri.” (cfr. anche: Obblighi dell’agente. È sufficiente una semplice attività di propaganda?)
  • Compie atto di concorrenza sleale l’ex dipendente che, avvalendosi non solo delle liste dei clienti, ma anche della conoscenza delle condizioni dei singoli contratti del datore di lavoro, una volta cessato il rapporto di lavoro storni una parte della clientela proponendo tariffe inferiori e predisponendo ed inviando negli opportuni tempi lettere di disdetta dei contratti dell’ex datore di lavoro.[5]
  • “Costituisce atto di concorrenza sleale l’uso di una banca dati contenente nominativi di potenziali clienti, forniti ed elaborati informaticamente dall’ex amministratore unico della società prima utilizzatrice, da parte di un’impresa concorrente cui la banca dati sia stata fornita dallo stesso soggetto nell’ambito di un successivo rapporto di collaborazione.[6]
  • “Costituisce concorrenza sleale l’utilizzazione, da parte dell’ex dipendente, di nozioni concernenti le specifiche, peculiari esigenze dei singoli clienti dell’ex datore di lavoro, al fine di offrire a ciascuno di costoro prodotti esattamente messi a punto per soddisfare le loro esigenze, quando una simile messa appunto abbia richiesto all’ex datore di lavoro contatti ripetuti con i singoli clienti per individuarne i desideri e le attese e per giungere progressivamente alla soluzione ottimale. […] L’illiceità di questo comportamento è accentuata dal fatto che l’ex dipendente ostenti ai clienti l’identità dei prodotti offerti, prospettando una continuità di pregi produttivi intesi come rispondenza ai desiderata di ogni singolo cliente, rispetto alla produzione dell’ex datore di lavoro.[7]

Fermo restando quanto sopra esposto, bisogna altresì sottolineare il fatto che il divieto di concorrenza sleale non si può estendere a tal punto da impedire all’agente qualsiasi utilizzazione delle esperienze acquisite nelle precedenti esperienze di lavoro. Sull’inammissibilità di una siffatta conclusione una sentenza storica (e tutt’oggi attuale) della Cassazione ha sancito che:

Non si può inibire al lavoratore licenziato di sfruttare la propria capacità tecnica, anche se acquista nella esplicazione di mansioni alle quali esso era addetto e per cui era tenuto a mantenere il segreto, ed anche se tale capacità, la quale costituisce un patrimonio personale del lavoratore, ed è impiegata per procurare a quest'ultimo i mezzi di sussistenza, venga svolta in attività e in prodotti similari a quelli del datore di lavoro. Pertanto, non costituisce atto di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c., l'utilizzazione, da parte di un dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, di cognizioni tecniche anche se acquisite nella esplicazione delle mansioni cui era addetto.”

Tale principio vale sia che l’ex agente si sia messo a lavorare alle dipendenze di una altra impresa, sia che si sia messo a lavorare per conto proprio.[8]

Tuttavia, secondo la giurisprudenza prevalente, nel bagaglio di conoscenze e competenze dell’ex agente liberamente utilizzabili non possono essere comprese specifiche notizie su esigenze di singoli clienti contattati durante il periodo di lavoro pregresso, posto che le cognizioni acquisite non rientrano nel concetto di informazione ed esperienza aziendali;[9] vengono quindi contrapposte le conoscenze tecniche utilizzabili, alle non utilizzabili notizie apprese nel pregresso rapporto di lavoro.[10]

Per potere concludere, si può ragionevolmente ritenere che all’ex agente non è impedito sviluppare prodotti in concorrenza con l’ex preponente e proporli anche ai clienti di quest’ultimo; ad ogni modo il rapporto con detti clienti è molto delicato e deve essere gestito con massima cautela e lealtà professionale, non potendo l’agente effettuare mirate campagne di vendita nei confronti di tali soggetti e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

Concludendo si può affermare che:

  • l’agente può svolgere qualsiasi attività in concorrenza con il preponente a seguito del rapporto di lavoro;
  • i limiti della concorrenza sono dettati dagli atti di concorrenza sleale che si identificano, nel caso dell’agente, principalmente in:
    • imitazione servile e confusione dei prodotti dallo stesso sviluppati per la attività in concorrenza che pone in essere;
    • denigrazione dei prodotti venduti dall’ex preponente;
    • sviamento della clientela, tramite il lancio di mirate campagne di vendita nei confronti dei clienti della ex casa mandante e avvalersi di informazioni e notizie aziendali su esigenze specifiche di determinati clienti, maturate nel corso del precedente rapporto di lavoro.

______________________

[1] Cfr. UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, art. 2598, CEDAM.

[2] Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[3] Trib. Torino 11.1.2008; Cass. Civ. 2004 n. 16156.

[4] Trib. Di Milano 1974; Corte d’Appello Firenze 27.9.1987.

[5] Trib. Torino 28.12.1973.

[6] Trib. Torino 28.12.1973.

[7] Trib. Genova 19.6.1993.

[8] Corte d’Appello Milano 5.6.1987.

[9] Trib. Milano 25.9.1989.

[10] Trib. Firenze 26.11.2008.


Meta-tag

L’uso illecito del “meta-tag”. Fattispecie di contraffazione di marchio e concorrenza sleale?

[:it]Per meta-tag si fa riferimento a quelle parole chiave, codificate solitamente nel linguaggio HTML, che seppur non  riportate su video, vengono comunque utilizzate dai motori di ricerca al fine di indicizzare i vari siti. Attraverso un meta-tag, dunque, il gestore di un sito può inserire le parole chiave riguardanti la propria pagina web (c.d. keyword meta-tag) al fine di renderlo attraverso l'utilizzo dei motori di ricerca.

Potenzialmente, quindi, una gestore di un sito potrebbe inserire come parola chiave il nome di un marchio molto famoso, al fine di fare apparire il proprio sito tra i primi risultati ogni volta che un utente compia una ricerca utilizzando il nome del marchio noto oppure, inserisca il marchio di un proprio concorrente al fine di apparire tra i risultati ogni volta che venga fatta una ricerca dal consumatore che indica come parole chiave il marchio della società concorrente. (Es. la società XYZ S.R.L. che opera nel settore del mobilificio utilizza come meta-tag il marchio della società concorrente 123 S.P.A.)

Ci si domanda in dottrina e giurisprudenza se tale comportamento possa di per se configurare un illecito, posto che il nome o il marchio altrui, non viene posto esternamente nel sito, ma rimane visibile solamente ai motorio di ricerca.

Gli illeciti configurabili sono potenzialmente due: concorrenza sleale e contraffazione di marchio.

1.    Concorrenza sleale

Quanto alla concorrenza sleale, si è pronunciato il Tribunale di Milano, nel ormai noto caso “Solatube”, affermando che: “l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c., in quanto determinante il costante e indebito abbinamento nei risultati della ricerca sui vari motori di ricerca del web idoneo a determinare uno sviamento della clientela in violazione dei principi della correttezza commerciale.”[1]

2.    Contraffazione di marchio

La sentenza appena citata, che configura la sussistenza della violazione dell’art. 2598 n. 3 c.c., stabilisce che l’uso da parte di una società concorrente di un meta tag riproducente il macchio di un’altra società non costituisce contraffazione del marchio difettando in esso ogni funzione distintiva di servizi e prodotti proprie del marchio.

Contrariamente, secondo autorevole dottrina, qualora un soggetto utilizzi come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI (Codice della Proprietà Industriale). Tale violazione si estenderebbe, infatti, ai prodotti e servizi non affini, qualora venga utilizzato come parola chiave un marchio noto.[2] A sostegno di detta tesi, parte della dottrina ritiene appunto ragionevole riconoscere anche al meta-tag funzione pubblicitaria in senso lato.[3]

3.  Pubblicità subliminale

Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07, che prevede che la pubblicità debba essere chiaramente riconoscibile come tale.[4]

 

RISASSUMENDO

  • l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio della società legittima titolare costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c
  • secondo autorevole dottrina, l’utilizzo di un  come meta-tag un marchio di un proprio concorrente, tale pratica  configurerebbe anche un ipotesi di violazione del diritto esclusivo di marchio ex artt. 12 e 22 CPI
  • Infine, parte della dottrina è portata a ritenere che l’utilizzo di tale pratica potrebbe addirittura essere considerata come una forma di pubblicità subliminale vitata dall’art. 5.3 d.lgs. 145/07

[1] Tribunale Milano, 20/02/2009, Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI)

[2]Riv. dir. ind. 2009, 4-5, 375 (nota TOSI); E. TOSI, Diritto privato dell’informatica, DNT, 12, 490 ss.; CASSANO, Orientamento dei motori di ricerca, concorrenza sleale e meta-tag, in Riv. dir. Ind., Milano 2009, 56

[3] Si veda quanto affermato dal il TOSI, nella nota alla sentenza del Tribunale di Milano del 20.2.2009: “a sostengo di quanto sopra affermato, l’ampio disposto dell’art. 2 lett. A) del d.lgs. 2 agosto 2005, n. 147 [..] stabilisce che per pubblicità deve intendersi qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività d’impresa allo scopo di promuovere la vendita di beni, la prestazione di opere o di servizio.”

[4] BONOMO, il nome a dominio e la relativa tutela. Tipologia delle pratiche confusorie in internet, 247 ss.; PEYRON, i meta-tags di internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giur. It., 1998, I, 739 ss.

 

 

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