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Il danno tanatologico o da morte immediata.

[:it]Il “danno tanatologico” va ricondotto nella sfera del danno morale, nella sua più ampia eccezione, ossia come sofferenza del soggetto che assiste in maniera cosciente al proprio decesso.

Sul punto la più autorevole giurisprudenza insegna, che il danno cosiddetto “danno tanatologico” o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia eccezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita e, quindi, può essere tale solo quello della vittima che sopravviva almeno per un apprezzabile lasso di tempo dopo il sinistro e prima dell’esito finale.

Ecco allora che la domanda di risarcimento del danno da “perdita del diritto alla vita” o danno tanatologico, proposta jure hereditatis dagli eredi del de cuius, non è ammissibile quando, il verificarsi dell’evento letale avviene immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo, atteso che questo comporta la perdita del bene giuridico della vita in capo al soggetto che non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, poi trasferibile agli eredi.

Sul punto vi sono state anche sentenze piuttosto recenti e tra queste si può ricordare, in particolare, tra i giudici di merito il Tribunale di Rovigo nella quale testualmente si legge “… il danno non patrimoniale jure ereditario non può essere riconosciuto … perché A.R. ha sofferto intensamente per meno di un’ora … circostanza che, sebbene toccante sotto il profilo “morale”, non integra i presupposti richiesti dal Supremo Collegio per ritenere entrata nella sfera giuridica del soggetto leso il diritto di credito: un apprezzabile lasso di tempo …”.[1]

Per concludere, in ipotesi come quella suddetta, un unico danno potrebbe essere individuato, vale a dire quello consistente nella sofferenza subita dai parenti della vittima per il decesso del loro congiunto.

In merito si è pronunciata recentemente la Suprema Corte che ha confermato un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale.

La lesione del diritto alla salute si concretizza allorquando il soggetto rimanga in vita menomato e solo quando tra l'evento lesivo e la morte corra un lasso di temporale da fare maturare il diritto al risarcimento, trasmissibile di conseguenza agli eredi. Di conseguenza il risarcimento del danno tanatologico "iure hereditatis" non si configura allorquando la morte insorge immediatamente come conseguenza delle lesione, non concretizzandosi in questo caso, una lesione del bene giuridico della salute”.[2]

RIASSUMENDO

  • il “danno tanatologico” o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia eccezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita
  • la domanda di risarcimento del danno da “perdita del diritto alla vita” o danno tanatologico, proposta dagli eredi del de cuius, non è ammissibile quando, il verificarsi dell’evento letale avviene immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo
  • in caso di decesso immediato ovvero quasi immediato danno che potrebbe essere individuato in capo ai parenti della vittima, consisterebbe nella danno derivante dalla sofferenza subita dagli stessi per il decesso del loro congiunto

[1] Tribunale di Rovigo – Sez. Dist. Di Adria – 02.03.2010

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Clint Eastwood

Onere della prova in caso di richiesta di inadempimento. Sezioni Unite e orientamenti minoritari.

[:it]In tema di responsabilità civile, la questione avente ad oggetto l'onere della prova del creditore che agisce al fine di chiedere l’inadempimento dell’obbligazione, ha visto impegnato fortemente la Giurisprudenza e la Dottrina, soprattutto prima dell'avvento della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che sono intervenute al fine di
definire un contrasto giurisprudenziale.

Si ricordano brevemente i due orientamenti:

Quello maggioritario  sosteneva che il creditore è onerato di provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione della quali esso assume giuridica rilevanza, rimanendo pertanto in capo al convenuto la mera prova dell’assenza da colpe, solamente qualora l’attore abbia effettivamente provato il fatto costitutivo dell’inadempimento.[1]

Tale orientamento si basava principalmente sulla distinzione tra i rimedi previsti dall’art 1453 c.c. (adempimento, risoluzione, risarcimento del danno). Si osservava che mentre nell’azione di adempimento il fatto costitutivo è il titolo, nell’azione di risoluzione, invece, i fatti costituitivi sono due: il titolo e l’inadempimento. Pertanto, le prove richieste ex art. 2697 c.c. sono differenti in quanto fatti costitutivi sono a loro volta differenti. Nel primo caso, quindi sarà sufficiente la prova della fonte negoziale o legale del diritto di credito, nel secondo caso sarà necessario la prova sia del titolo che dell’effettivo inadempimento del debitore.

La tesi minoritaria, invece, affermava che l’onere probatorio in capo al creditore risulti essere uguale indipendentemente dall’azione da questi promossa. Nello specifico, il creditore ex art. 2697 c.c. deve provare semplicemente la fonte negoziale o legale del proprio diritto, mentre sarà il creditore ad essere onerato alla prova del fatto estintivo di tale diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.

Suddetta tesi era fondata sul fatto che le domande di adempimento, di risoluzione per inadempimento e la domanda di risarcimento del danno da inadempimenti si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito appunto dall’inadempimento. Tale omogeneità comporta che il principio della presunzione di persistenza del diritto, di cui all’art. 2697 c.c., in base al quale una volta provata l’esistenza da parte del creditore di un diritto, grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo debba applicarsi a ognuna delle fattispecie elencate nell’art. 1453 c.c.

Le Sezioni Unite con sentenza del 2001 n. 13533 aderivano all’orientamento minoritario affermando anche che “si rileva conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditoreo a reagire all'inadempimento, senza peraltro penallizzare il diritto di difesa del debitore adempiente , fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nellacui sfera si è prodotto l’inadempimento”[2]

Si rileva comunque che recentemente sono intervenute alcune sentenze di Tribunali che, in controtendenza della ormai abbastanza datata sentenza delle Sez. Un. vanno ad affermare che “qualunque sia il fondamento della pretesa risarcitoria avanzata dall'attore, è indubbio che gravi su chi invoca il risarcimento del danno provare non solo l'evento dannoso, ma soprattutto la sua riconducibilità sul piano causale al fatto illecito altrui.”[3]

RIASSUMENDO

  • secondo le Sez. Un. della Cassazione In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento
  • si riscontrano esserci delle sentenze che recentemente hanno affermato che In tema dell’onere della prova, a carico del creditore che agisce per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno, vi è non solo la prova dell’adempimento della propria obbligazione, ma anche la prova dell’esatto adempimento e, quindi, sembrerebbe applicabile anche alle ipotesi di vizi o difformità dell’opera, in quanto riconducibili alla categoria dell’inesatto adempimento

[1] Si veda ad esempio, Cass. Civ. 4285-94; 8336-90; 8435-96;124-70

[3] Tribunale Novara, 27/04/2010, n. 435 (nel caso di specie, il proprietario di un autoveicolo che si è incendiato non ha provato che l'incendio è stato determinato da un difetto di funzionamento dell'autoveicolo e/o da un vizio occulto e/o da una problematica dei congegni della vettura riconducibili al venditore); Cfr. Tribunale Nocera Inferiore, sez. I, 07/02/2012, “In tema dell’onere della prova, a carico del creditore che agisce per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno, vi è non solo la prova dell’adempimento della propria obbligazione, ma anche la prova dell’esatto adempimento e, quindi, sembrerebbe applicabile anche alle ipotesi di vizi o difformità dell’opera, in quanto riconducibili alla categoria dell’inesatto adempimento.

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padre padrone

La contemplatio domini nei contratti stipulati dagli amministratori.

[:it]È principio consolidato in giurisprudenza e in dottrina che “…. anche nell'ipotesi di rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini, onde, se il rappresentante di una società non ne spende il nome, il negozio dallo stesso concluso non spiega effetti nei confronti della società medesima
.
[1]

Dottrina e giurisprudenza concordemente affermano che il dettato normativo disciplinato dall’art. 1388 c.c. (“contratto concluso dal rappresentante”), sia applicabile analogicamente anche con riferimento alla rappresentanza organica, configurabile appunto in relazione ai soggetti che rivestono la qualifica di organi rappresentativi di persone giuridiche.[2]

Requisiti perché il contratto stipulato dal rappresentato possa produrre effetti sono essenzialmente tre:

1)    il conferimento del potere rappresentativo;
2)    l’agire del rappresentante nei limiti della procura;
3)    la circostanza che al terzo sia resa palese dallo stesso rappresentante la riferibilità al rappresentato del regolamento negoziale (contemplatio domini);

É quindi necessario che tutti e tre gli elementi sussistano al momento della conclusione del contratto perché il negozio possa valere effettivamente nei confronti del rappresentato e se difetta anche uno di suddetti presupposti, il negozio produrrà effetti solo nei confronti del rappresentato.

Concentrandosi sul requisito fondamentale della contemplatio domini, si rende necessario evidenziare che tale elemento assolve alla duplice funzione di esteriorizzare il rapporto di gestione rappresentativa esistente tra il rappresentante e il rappresentato e di rendere conseguentemente possibile la imputazione degli effetti del contratto concluso in suo nome dal primo.

Secondo autorevole giurisprudenza, la spendita del nome del rappresentato nei contratti soggetti a forma scritta ad substantiam deve risultare in modo espresso non potendosi desumere esclusivamente da elementi presuntivi.

In tali contratti, il principio per cui tutti gli elementi essenziali del contratto devono risultare dal medesimo impone che anche la spendita del nome del rappresentato risulti ad substantiam dallo stesso documento in cui è contenuto il contratto.[3]

RIASSUMENDO

  • anche nell'ipotesi di rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini
  • perché il contratto stipulato dal rappresentato possa produrre effetti è necessario il conferimento del potere rappresentativo, agire del rappresentante nei limiti della procura, la contemplatio domini
  • nei contratti soggetti a forma scritta ad substantiam la contemplatio deve risultare in modo espresso non potendosi desumere esclusivamente da elementi presuntivi

[1] Cassazione civile, sez. II, 30/03/2000, n. 3903; si veda anche Cassazione civile, sez. lav., 25/10/1985, n. 5271 “se il rappresentante di una società di fatto non spende il nome dell'altro o degli altri soci, il negozio concluso spiega effetto solo nei confronti del rappresentante medesimo, ancorché esso riguardi interessi o beni comuni”;

[2] In tal senso, DE NOVA, Il contratto, vol. X del Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Utet, Torino, 2002, p. 10;SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1986 p. 288; in giurisprudenza per tutte Cass., 18 giugno 1987, n. 5371, in Giur. it., 1989, I, 1, 1056

[3]Nei contratti conclusi dal rappresentante, [..] nel caso in cui sia mancata una espressa spendita del nome, in cui gli effetti del negozio si consolidano direttamente in capo al rappresentante anche se l'altro contraente abbia avuto comunque conoscenza del mandato o dell'interesse del mandante nella conclusione dell'affare [..], una eventuale contemplatio domini tacita non può essere desunta da elementi presuntivi”. (Cassazione civile, sez. II, 12/01/2007, n. 433)

 

 

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Art. 1451 c.c. Opponibilita' a terzi del negozio simulato.

[:it]Ai sensi dell’art. 1415 c.c. la simulazione “non può essere opposta dalle parti contraenti, dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente."In buona sostanza, la ratio è quella di tutelare il terzo rispetto alle parti, assegnando prevalenza all’affidamento che i terzi, in buona fede, hanno potuto porre sulla parvenza esteriore del contratto.

In merito la giurisprudenza si è pronunciata affermando che “perché la simulazione non possa essere opposta ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente è necessario che il terzo sia titolare di una situazione giuridica connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall'accordo simulatorio.”[1]

La Giurisprudenza è concorde nell’affermare che il concetto di terzo di cui all’art. 1415 c.c. debba essere interpretato in maniera ampia e lata, dovendosi ritenere sufficiente che sussista una mera connessione o un semplice rapporto di dipendenza tra la situazione giuridica del terzo e l’accordo simulatorio.

Ad esempio si può leggere “….l'art. 1415 comma 1 c.c. dev'essere interpretato nel senso che la simulazione non può essere opposta dal titolare apparente ai terzi acquirenti in buona fede, ossia a coloro che, in base al contratto simulato, conseguono un effetto giuridico favorevole nell'ignoranza di ledere l'altrui diritto….[2]

Sul punto la stessa dottrina si è espressa in maniera del tutto concorde con il suddetto orientamento giurisprudenziale, affermando che per terzi ex art. 1415 c.c. si intendono tutti coloro che conseguono un effetto giuridico favorevole sulla base del contratto simulato (e ciò risponde alla regola generale secondo la quale chi crea una situazione negoziale apparente non può far valere a danno di terzi di buona fede la situazione reale.[3]

Del resto, altro non si tratta se non di una applicazione del più generale principio della tutela dell’affidamento “… Il principio dell'apparenza del diritto riconducibile a quello più generale della tutela dell'affidamento incolpevole, può invocarsi quando sussistano elementi oggettivi capaci di giustificare la convinzione del terzo in ordine alla corrispondenza tra la situazione apparente e quella reale…”.[4]

Quanto poi alla buona fede del terzo, si osserva brevemente come dottrina[5] e giurisprudenza[6] sono concordi nel ritenere che il terzo sia dispensato dall’onere di doverla provare avendo questa natura presuntiva.

Infine, si rileva che in materia la mala fede si identifica non già con la “mera scienza” della simulazione, ma con l’intenzione di agevolare lo scopo in vista del quale è stata posta in essere la simulazione.[7]

Pertanto, il soggetto terzo non solo non ha l’onere di provare la propria buona fede, ma è compito del titolare apparente provare la sua mala fede.

RIASSUMENDO
  • Ex art. 1415 c.c. il terzo è tutelato rispetto alle parti, avendo il legislatore dato prevalenza all’affidamento che il terzo, in buona fede, ha posto sulla parvenza esteriore del contratto
  • Perché la simulazione non possa essere opposta ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente è necessario che il terzo sia titolare di una situazione giuridica connessa o dipendente o che in qualche modo possa essere influenzata dall’accordo simulatorio
  • Il concetto di terzo di cui all’art. 1415 c.c. deve essere interpretato in maniera ampia e lata
  • Il terzo è dispensato dall’onere di provare la propria buona fede avendo questa natura presuntiva, pertanto è compito del titolare apparente provare la sua mala fede

[3] cfr M. Bianca: Diritto Civile – Il Contratto – Giuffré pag. 667;

[5] Mengoni, Acquisto a non dominio, 1949, 117 e poi edizioni successive;

[6] Cass. 1949, n. 53; Cass. 1960, n. 1046; Cass. 1970, n. 349; Cass. 1987, n. 5143; Cass. 2002, n. 3102;

[7] Cass. 1986, n. 2004; Cass. 1991, n. 13260;

 

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Onorari dell'avvocato e giurisdizione competente.

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Recentemente, con la sentenza del 12.10.2011 n. 2100, la Cassazione si è pronunciata affermando che “il compenso per prestazioni professionali, che non sia convenzionalmente stabilito, è un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale; ne consegue che il foro facoltativo del luogo ove deve eseguirsi l'obbligazione (art. 20 c.p.c., seconda ipotesi)"va individuato, ai sensi dell' ultimo comma dell'art. 1182 c.c., nel domicilio del debitore in quel medesimo
tempo”.[1]

Applicando tale principio all’attività professionale dell’Avvocato, risultano evidenti i risvolti pratici di suddetta sentenza. Come è noto, infatti, l’art. 20 c.p.c, che disciplina quale foro alternativo a quello generale del convenuto (art. 18 c.p.c). stabilisce che “per le cause relative a diritti di obbligazione è anche competente il giudice del luogo in cui [..] deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio”.

Secondo la Cassazione, quindi, qualora non venga stabilito “ab origine” il compenso di un professionista, il credito non può definirsi liquido in quanto determinabile solo a prestazione eseguita. Pertanto a tale rapporto obbligatorio non è applicabile l’art. 1182 comma 3 c.c., che dispone che “l’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza.”

Data appunto la natura non liquida e determinabile del credito si deve invece applicare, secondo la Suprema Corte l’art. 1182 ultimo comma, che prevede, invece, l’adempimento dell’obbligazione al domicilio del debitore.

Tale principio è chiaramente applicabile anche alla professione dell’Avvocato. Infatti, il suo compenso la maggior parte delle volte non è determinabile a priori, soprattutto se riguarda un’attività giudiziale, non essendo possibile prevedere l’effettiva attività da svolgere nel corso del procedimento. Pertanto, secondo questo orientamento della Cassazione, qualora un Avvocato dovesse procedere per il recupero di un credito derivante da una proprià attività professionale dovrà agire presso il foro del convenuto ex art. 18 c.p.c. ovvero del debitore ex art 20 c.p.c.

RIASSUMENDO

  • Il compenso per prestazioni professionali, che non sia convenzionalmente stabilito, è un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale
  • Il foro facoltativo del luogo dove deve eseguirsi l'obbligazione (art. 20 c.p.c.) va individuato, ai sensi dell' ultimo comma dell'art. 1182 c.c., nel domicilio del debitore
  • L’Avvocato che vuole procedere per il recupero di un proprio credito dovrà agire o presso il foro del convenuto ex art. 18 c.p.c. ovvero del debitore ex art 20 c.p.c.

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In to the wild

La natura giuridica dello studio associato in Italia.

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E' ormai noto che gli studi legali associati sono, di fatto, privi di una propria personalità giuridica, rientrando, secondo la giurisprudenza  “all’interno di quei fenomeni di aggregazione di interessi cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici,muniti di legale rappresentanza in conformità della disciplina dettata dall'art. 36 c.c. e segg.[1]

In ambito fallimentare, tale caratteristica risulta essere fortemente rilevante. Infatti, secondo un costante orientamento della Corte di Cassazione gli studi associati, essendo muniti di legale rappresentanza, non vantano alcun privilegio quando si tratta di ammissione al passivo fallimentare. Per la Cassazione, lo studio non è, infatti, assimilabile al soggetto individuale favorito dall'art. 2751 bis n. 2., essendo tale diritto insuscettibile di estensione analogica.

Una possibile soluzione a tale problematica, sarebbe quella della cessione del credito sorto per la prestazione svolta personalmente dal singolo avvocato allo studio legale. Tale condizione, ad ogni modo deve essere comunque allegata e dimostrata, non essendo, in astratto, considerabile quale effetto legale o naturale della partecipazione dell’avvocato allo studio, autonomo centro di interessi.[2]

RIASSUMENDO

pertano lo studio associato italiano:

  • è un fenomeno di aggregazione di interessi sprovvisto di personalità giuridica, ma munito di legale rappresentanza;
  • in ambito fallimentare non vanta del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 2
  • è comunque configurabile una cessione del credito sorto per la prestazione svolta personalmente dal singolo avvocato

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