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Cassazione civile, sez. I 12/06/2008 n. 15706

                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE PRIMA CIVILE                         
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. CRISCUOLO  Alessandro                       -  Presidente   -  
Dott. MORELLI    Mario Rosario                    -  Consigliere  -  
Dott. FIORETTI   Francesco Maria                  -  Consigliere  -  
Dott. CULTRERA   Maria Rosaria                    -  Consigliere  -  
Dott. TAVASSI    Marina Anna                 -  rel. Consigliere  -  
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
LA  CONCERIA S.R.L., in persona del Consigliere Delegato pro tempore, 
elettivamente domiciliata in ROMA VIA P.L. DA PALESTRINA  19,  presso 
l'avvocato  TERENZIO  ALESSANDRO,  che  la  rappresenta   e   difende 
unitamente  all'avvocato ROSSI MASSIMO, giusta procura  in  calce  al 
ricorso; 
                                                       - ricorrente - 
                               contro 
               M.O.,  elettivamente domiciliato  in  ROMA  PIAZZALE 
CLODIO  32,  presso  l'avvocato  CIABATTINI  SGOTTO  LIDIA,  che   lo 
rappresenta  e difende unitamente all'avvocato CAPPA STEFANO,  giusta 
procura in calce al controricorso; 
                                                 - controricorrente - 
avverso  la  sentenza  n. 2440/04 della Corte  d'Appello  di  MILANO, 
depositata il 17/09/04; 
udita  la  relazione  della causa svolta nella pubblica  udienza  del 
16/04/2008 dal Consigliere Dott. TAVASSI Marina; 
udito,  per la ricorrente, l'Avvocato GRAZIANI ALESSANDRO, per delega 
Avv. ROSSI, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; 
udito,  per il resistente, l'Avvocato CIABATTINI SGOTTO LIDIA che  ha 
chiesto l'inammissibilità o rigetto del ricorso; 
udito  il  P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale  Dott. 
GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso. 
                 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 24.07.98 la s.r.l. La Conceria conveniva dinnanzi al Tribunale di Milano il Dott. M.O. chiedendo che fosse annullato il contratto preliminare di cessione di quote pari al 51% del capitale sociale della società S.E.R. Servizi Editoriali Riuniti s.r.l., stipulato nel mese di settembre 1995, tra il Dott. M. e l'Ente Areapelle in favore della medesima s.r.l. La Conceria, nonchè il contratto di cessione di quote stipulato il 28.09.1995 tra la stessa società e il M..
A fondamento della domanda, l'attrice deduceva che nel settembre 1995 il Dott. M. aveva stipulato con l'Ente Areapelle un compromesso di cessione di quote sociali in forza del quale l'ente si era impegnato, per sè o per società da nominare, ad acquisire il controllo della SER s.r.l. mediante l'acquisto del 51% del capitale sociale, in due fasi: la prima prevedeva l'acquisizione del 25% delle quote sociali ad un prezzo di L. 350.000.000, entro il 30.09.95, e la seconda prevedeva la cessione dal M. all'ente dell'ulteriore 26% delle quote, al prezzo di L. 360.000.000 entro il 30.06.96.
L'Ente Areapelle designava quindi la s.r.l. La Conceria come società che avrebbe assunto le obbligazioni sorte dal suddetto compromesso e in data 02.09.95 sottoscriveva il contratto definitivo corrispondendo al Dott. M. l'importo di L. 350.000.000 a titolo di corrispettivo per il trasferimento del primo 25% delle quote. La SER al momento della sottoscrizione del compromesso presentava nel bilancio 1994 un utile di L. 31.619.038 e, nel bilancio relativo al primo semestre del 1995, un utile di L. 48.262.679.
Nel secondo semestre del 1995, invece, il bilancio evidenziava perdite per L. 139.068.578, mentre la situazione contabile del primo trimestre del 1996 evidenziava perdite per L. 85.010.953.
Riferiva l'attrice che, in sede di assemblea dei soci per il necessario aumento di capitale sociale, La Conceria aveva manifestato al M. l'intenzione di non sottoscrivere l'aumento di capitale e di ottenere la restituzione dell'importo di L. 350.000.000 versata a titolo di acquisto del 25% delle quote, ottenendo un secco rifiuto.
In occasione dell'assemblea straordinaria del 28.05.96 il M. e la Diffusioni Grafiche s.p.a. ripianavano le perdite, versando rispettivamente L. 113.750.000 pari al 65% del capitale sociale e L. 61.250.000 pari al 35% del capitale sociale, escludendo così la società attrice dalla compagine sociale.
La Conceria s.r.l. chiedeva quindi al Tribunale di Milano di annullare sia il contratto preliminare sia quello definitivo per dolo del M. e/o per errore sulle qualità essenziali del bene oggetto del contratto, nonchè la condanna di quest'ultimo a corrispondere l'importo di L. 350.000.000, oltre agli interessi legali dal 28.09.95 al saldo.
In via subordinata chiedeva che i suddetti contratti venissero annullati ovvero dichiarati risolti per grave inadempimento del convenuto in quanto questo non aveva, di fatto, permesso alla società attrice di acquistare il controllo della SER o di ottenere la restituzione dell'importo di L. 350.000.000, in relazione al 25% delle quote acquistate, nonchè per il mancato verificarsi dei presupposti che avevano determinato le parti nei contratti.
Il M. si costituiva in giudizio eccependo, in via preliminare, il difetto di legittimazione attiva e di interesse ad agire della società attrice, in relazione alle domande di annullamento e di risoluzione del compromesso di cessione delle quote sociali del settembre 1995.
Nel merito, sosteneva l'infondatezza delle domande di annullamento e risoluzione del contratto di cessione di quote, in quanto destituite totalmente di prova. In occasione dell'udienza del 6.01.2001, La Conceria s.r.l. chiedeva che la causa venisse sospesa ex art. 295 cod. proc. civ., in attesa della decisione delle cause promosse avanti al Tribunale di Milano nei confronti della SER dal socio di questa, Editoriale Fotoshoe s.r.l. ed aventi ad oggetto l'impugnazione dei bilanci della SER stessa, relativamente agli esercizi 1996, 1997, 1998. Tale richiesta, come la richiesta di ammissione delle prove testimoniali e di esibizione delle scritture contabili della SER, avanzata dalla società attrice, venivano disattese. Quindi, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 12326/02 depositata il 17.10.2002, respingeva le domande proposte dalla società attrice e la condannava alla rifusione delle spese processuali. Con sentenza n. 2440/04, la Corte d'appello di Milano disattendeva l'impugnazione proposta dalla società La Conceria contro la sentenza pronunciata dal Tribunale, che confermava in ogni sua parte, condannando l'appellante alle ulteriori spese.
Avverso tale sentenza la società La Conceria proponeva ricorso per cassazione, notificato in data 7.04.05, articolando otto motivi di gravame ed assumendo le seguenti conclusioni:
A) cassare la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1331, 1362, 1363, 1366, 1429, 1439, 1453 c.c., dell'art. 244 c.p.c., e degli artt. 1285 e 1289 c.c., e, qualora non fossero necessari ulteriori accertamenti, decidere nel merito come segue:
- annullare il compromesso di cessione in questione per dolo o per errore e condannare il Dott. M. a corrispondere a La Conceria s.r.l. l'importo di L. 350.000.000, oltre agli interessi legali dal 28.09.95;
- in via subordinata, dichiarare la risoluzione dei contratti di cui sopra per grave inadempimento del cedente, oltre a risarcimento danni e interessi legali come sopra;
- in estremo subordine, dichiarare la risoluzione dei contratti per il mancato verificarsi dei presupposti che avevano determinato le parti alla conclusione degli stessi, nonchè condannare l'appellato a corrispondere alla società appellante la somma di L. 350.000.000, a titolo di risarcimento danno, oltre a interessi legali come sopra;
B) cassare la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli Artt. 1331, 1362, 1363, 1366, 1429, 1439, 1453 c.c., dell'art. 244 c.p.c., e dell'artt. 1285 e 1289 c.c., con rinvio ad altro Giudice onde esperire la prova per testi sui capitoli riportati in ricorso (pag. 42) e ordinare alla SER l'esibizione delle scritture contabili relative al 1995.
Chiedeva quindi che venisse annullato o risolto il compromesso di cessione di quote sociali stipulato nel mese di settembre 1995 ed il contratto di cessione di quote stipulato in data 28.09.95 per tutte le ragioni già indicate con condanna del M. a corrispondere a La Conceria s.r.l. l'importo di L. 350.000.000, oltre interessi legali del 28.09.95 in via subordinata o in via alternativamente autonoma. Il M. proponeva controricorso, deducendo l'inammissibilità del ricorso della società La Conceria e comunque l'infondatezza dei motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Dopo aver riassunto lo svolgimento dei precedenti gradi processuali, il ricorrente deduceva, come primo motivo di ricorso, la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1362 c.c., rilevando che la scelta da parte della s.r.l. La Conceria di sottoscrivere il contratto definitivo per la cessione delle quote della s.r.l. S.E.R. derivava anche e soprattutto dalla valutazione della circostanza che la S.E.R., al momento della sottoscrizione del compromesso del settembre 1995, presentava, per il bilancio del 1994, un utile di L. 31.619.038, e, per il bilancio relativo al primo semestre 1995, parimenti un utile di L. 48.262.679.
La Conceria, infatti, non avrebbe mai concluso un contratto di tal genere, se avesse saputo di acquisire il controllo di una società in perdita e, soprattutto, se avesse previsto di dover sottoscrivere, nelle more dell'acquisizione di tale controllo, un aumento di capitale per perdite, teso ad evitare lo scioglimento della S.E.R. s.r.l..
Riferiva ancora che la società ricorrente, posta di fronte a tale inaspettata situazione, non aveva potuto fare altro che manifestare al M. l'intenzione di non sottoscrivere l'aumento di capitale e chiedere la restituzione dell'importo di L. 350.000.000, versata a titolo di acquisto del 25% delle quote effettuato in data 9.02.1995 al solo fine di evitare l'insorgere di una controversia.
Tale richiesta era stata però rifiutata.
In base a tali premesse, asseriva che il Giudice d'appello non aveva correttamente applicato l'art. 1362 c.c., e ss., nell'interpretazione del contratto stipulato tra il M. e la Conceria S.r.l..
L'art. 1362 c.c., stabilisce che l'interpretazione degli atti negoziali va condotta sulla scorta del senso letterale delle espressioni usate, della ratio del precetto contrattuale, nell'ambito di un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione.
Pertanto la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un parametro sussidiario, bensì un parametro necessario e indefettibile, in quanto le singole espressioni letterali devono essere inserite nel complesso dell'atto.
La difesa ricorrente citava la giurisprudenza di questa Corte secondo cui "...se la parola scritta è il primo oggetto dell'attenzione e della ricerca dell'interprete, quando il testo si presenti non chiaro è necessario valutare il comportamento successivo tenuto dalle parti alla conclusione del negozio" (Cass. civ., sez. 1, 21.03.03 n. 4129).
Continuava sottolineando che "...l'elemento letterale e quello del comportamento delle parti devono porsi in posizione paritaria, onde il Giudice non può sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto" (Cass. civ., sez. 2^, n. 12758/1993).
La sentenza emessa dalla Corte d'appello si era infatti limitata ad analizzare il solo senso letterale, senza approfondire ed indagare la reale volontà delle parti.
Da una lettura complessiva della sentenza e, in particolare, del punto 15, si evinceva che il dettato dell'art. 1362 c.c., e ss., citati dalla Corte d'appello non era stato rispettato.
Nell'intento di analizzare l'elemento letterale del contratto, la ricorrente riferiva che l'art. 1, del compromesso prevedeva: "L'Ente Areapelle si impegna ad acquistare direttamente o tramite società od ente che verrà dallo stesso Ente Areapelle designato in momento successivo e comunque entro il 30.09.95, una partecipazione del 51% del capitale sociale della Servizi Editoriali Riuniti SER e ciò gradualmente entro il mese di dicembre 1996, secondo quanto stabilito dai successivi punti 2, 3, 4". L'art. 2, regolava l'acquisto della prima parte del capitale, pari al 25%. L'art. 3 conteneva un impegno del Dott. M. ad ottenere, in favore del promissario acquirente, la rinuncia degli altri soci al loro diritto di prelazione sull'acquisto.
L'art. 4, prevedeva che, entro il 30.09.1996, l'acquirente avrebbe potuto alternativamente ricevere in restituzione l'importo versato per l'acquisto del 25% delle quote SER, oltre alla corresponsione degli interessi legali sullo stesso importo, oppure procedere all'acquisto di un ulteriore 26%.
L'art. 5 cristallizzava lo scopo del contratto, e cioè il raggiungimento della quota di partecipazione del 51% del capitale SER e l'impegno da parte del Dott. M., a scopo raggiunto, di modificare lo statuto sociale "a richiesta e secondo le indicazioni che verranno date dall'Ente Areapelle o dalla società o dall'ente da esso stesso designato".
La difesa ricorrente analizzava quindi la volontà delle parti, rilevando non esservi dubbio che l'obbligazione principale posta a carico del Dott. M. era quella di far conseguire senza alcun rischio al promissario acquirente, entro un determinato termine, il controllo della SER mediante l'acquisizione del 51% del capitale sociale. L'oggetto del contratto era quello di consentire all'Ente Areapelle, o alla società designata, l'acquisto del 51%, il controllo della SER, o, in alternativa, il ripristino della situazione iniziale attraverso la restituzione della somma versata e la corresponsione degli interessi che la stessa aveva prodotto nel tempo in cui era stata a disposizione del M.. Il tutto doveva avvenire entro il 30.09.96, così che sino a tale termine ogni rischio per la sopravvenuta inesistenza delle quote cedute fosse naturalmente sopportato dalla parte cedente e precisamente il M.. La Corte d'appello, nella sentenza impugnata, non aveva compiuto alcuna indagine in merito alla reale volontà espressa dalle parti, limitandosi ad analizzare unicamente l'art. 4, del contratto.
Infatti, qualora avesse analizzato la reale volontà espressa sarebbe giunta alla conclusione che il M. si era assunto il rischio in merito a mutamenti della situazione economica della SER tali da comportare la perdita della prima quota del 25% acquisita da La Conceria, essendosi obbligato a far conseguire alla stessa il controllo della SER entro il 30.09.1996, per il prezzo complessivo già pattuito. Obbligazione questa che il M. non aveva adempiuto.
2. Come secondo motivo di gravame la ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 1363 c.c., secondo il cosiddetto canone della totalità.
La Corte di Cassazione aveva affermato che "in tema di interpretazione del contratto a norma dell'art. 1363 c.c., ... il Giudice non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del senso letterale delle parole...sicchè le varie espressioni che in esso figurano, vanno tra loro coordinate e ricondotte ad armonica unità e concordanza".
(Cass. Civ., sez. 1^, 21.02.1995 n. 1877; Cass. 3^, 11.06.1999, n. 5747).
La Corte d'appello aveva violato anche tale secondo criterio di interpretazione del contratto, limitandosi a leggere le clausole dello stesso separatamente senza, pertanto, valutare l'atto nel suo complesso.
Ad una lettura del contratto nel suo insieme non si poteva, infatti, non rilevare che la causa del contratto era costituita dalla cessione del 51% delle quote SER entro il termine del 30.09.96. Infatti, in caso di mancata acquisizione del 51% delle quote della suddetta società entro detta data, era previsto che la società ricorrente potesse farsi restituire comunque la somma versata con gli interessi prodotti.
Da una lettura dell'intero contratto, si evinceva chiaramente che le situazioni che potevano profilarsi per la società che aveva acquisito il 25% delle quote erano solo due: il recesso della SER con la conseguente restituzione dell'importo versato o l'acquisizione del 51% delle quote della suddetta società entro il termine stabilito.
Mai era stato voluto che Areapelle partecipasse alla SER con una quota diversa dal 51%: o niente o la maggioranza.
Nel caso di specie non si era verificata alcuna delle due possibili situazioni volute dalle parti per un fatto verificatosi nelle more del termine, che aveva comportato la perdita delle quote da parte di La Conceria S.r.l. e l'attribuzione delle stesse nuovamente al M..
Al contrario, la società ricorrente, dopo aver versato l'importo di L. 350.000.000, acquisendo il 25% del capitale di una società in perdita, non aveva ottenuto nè la restituzione di tale importo, nè aveva avuto la possibilità di acquisire il 51% delle quote.
Il M., inoltre, aveva riacquistato la quota del 25% ceduta a La Conceria mediante la sottoscrizione dell'aumento di capitale della SER utilizzando l'importo di L. 350.000.000, ricevuto da La Conceria a pagamento di quella quota.
La Corte d'appello, in violazione dell'art. 1363 c.c., non aveva tenuto conto di tutti questi elementi e della necessità di coordinare tutte le clausole del contratto.
3. Come terzo motivo di ricorso la difesa de la Conceria deduceva la violazione dell'art. 1366 c.c., che dispone che il contratto deve essere interpretato secondo buona fede.
La Corte territoriale non aveva nemmeno preso in minima considerazione tale criterio, violando così i canoni ermeneutici previsti dal c.c., sull'interpretazione del contratto.
L'applicazione di tale criterio interpretativo avrebbe portato il Giudice di secondo grado a concludere che il Dott. M. era stato gravemente inadempiente alle obbligazioni poste a suo carico dal contratto per cui è causa.
Infatti, la SER al momento della sottoscrizione del compromesso presentava un utile, sia nel bilancio del 1994 che in quello del primo semestre 1995; improvvisamente; al contrario, nel secondo semestre del 1995 il bilancio evidenziava perdite per L. 139.068.578 e la situazione contabile del primo trimestre 1996 evidenziava ugualmente perdite per L. 85.010.953.
La Corte d'appello, inoltre, non aveva considerato il fatto che La Conceria, facendo affidamento su M., aveva accettato di subentrare nei diritti e negli obblighi sorti in forza del compromesso stipulato tra Ente Areapelle ed il M. stesso.
La Conceria, al momento della sottoscrizione del contratto, infatti, non era stata in grado di effettuare una valutazione maggiormente approfondita della situazione contabile della SER, considerato che il compromesso stipulato le avrebbe permesso di svolgere controlli contabili ed amministrativi solo dal momento in cui sarebbe divenuta socia della SER. Inspiegabilmente, però, nell'arco di soli 9 mesi la società era passata da un utile di esercizio di L..48.262.679 ad una perdita di L. 224.079.531.
Se la Corte territoriale avesse interpretato il contratto in esame applicando il principio della buona fede delle parti nelle trattative, avrebbe valutato diversamente sia il comportamento del M. che la reale volontà della società ricorrente. Nel caso in esame, il Giudice di seconde cure, oltre a non aver accertato l'effettiva volontà delle parti, non aveva neppure utilizzato il criterio di cui all'art. 1366 c.c..
4. Prima di procedere ad illustrare il secondo gruppo dei motivi di ricorso, concernenti la violazione di norme sostanziali in tema di annullamento e risoluzione del contratto, questa Corte ritiene che i primi tre motivi, sopra riassunti, coinvolgenti l'applicazione da parte della Corte territoriale dei criteri di interpretazione del contratto, possano essere esaminati congiuntamente.
Dall'esame della sentenza impugnata non può che pervenirsi alla conclusione che detti motivi siano infondati, avendo la Corte territoriale offerto un'analisi puntuale ed esauriente dell'accordo contrattuale e un'efficace ricostruzione della volontà delle parti, partendo dall'esame del testo, nelle sue singole statuizioni e nel suo complesso. La Corte territoriale, infatti, aveva ritenuto che "alla data della sottoscrizione della scrittura in esame, la volontà di cessione delle quote si era formata e manifestata con caratteri di definitività solo per quanto riguardava l'acquisto della prima porzione di quota del 25%". Aveva quindi affermato che il comportamento delle parti costituiva conferma della definitività dell'intesa nei termini così stabiliti dall'art. 2. Di diverso contenuto era il regolamento negoziale con cui era stata disciplinata la cessione dell'ulteriore quota del 26%. La clausola dell'art. 4 aveva, infatti, previsto che per il perfezionamento dell'intesa fosse indispensabile lo scambio di una nuova manifestazione di volontà, avente un possibile contenuto alternativo: alla società promissaria acquirente era data la facoltà di dichiarare o di sciogliersi dal vincolo giuridico assunto con la compravendita della prima tranche delle quote ovvero di assumersi, in aggiunta, il vincolo ed il diritto ulteriore dell'acquisto anche della seconda tranche, pari al 26% delle quote. Quindi, l'acquisizione dell'intera partecipazione nella misura complessiva prevista del 51% non rappresentava l'oggetto fisso e predeterminato della negoziazione, ma costituiva una mera eventualità che dipendeva dal modo in cui l'avente diritto, del tutto liberamente, si sarebbe determinato nell'esercizio della facoltà di scelta accordata dal promettente venditore. Questi, invece, onde rendere possibile ed utilmente esercitatele tale diritto riconosciuto contrattualmente al promissario, era vincolato a tenere a disposizione dell'acquirente, fino al termine finale del 30 settembre 1996, l'ulteriore quota del 26%.
A parere della difesa, tale interpretazione non avrebbe tenuto conto di quanto stabilito nè dall'art. 1362 c.c., nè dall'art. 1363 c.c., sull'interpretazione del contratto.
Questo Collegio è invece di diverso avviso.
Deve infatti essere osservato che le premesse di carattere dogmatico indicate dalla difesa ricorrente sono corrette e suffragate dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte. Tuttavia, le censure rivolte ai Giudici dell'appello per il mancato rispetto dei principi ermeneutici invocati appaiono prive di fondamento.
Ed invero, gli accordi negoziali per cui è causa rappresentano atti di autonomia privata, la cui interpretazione è demandata al Giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, ove condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale dettate dall'art. 1362 c.c. e ss., e suffragata da motivazione immune da vizi logici o giuridici (Cass. 27.6.1977, n. 2754; Cass. 8.2.1983, n. 1041). L'interpretazione di ogni atto contrattuale, richiedendo l'accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un'indagine di fatto affidata in via esclusiva al Giudice di merito, ed è pertanto censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l'iter logico seguito dal Giudice per attribuire all'atto negoziale un determinato contenuto, oppure, sotto il profilo del vizio di legge, nel caso di violazione delle norme ermeneutiche. La denuncia di quest'ultima violazione esige una specifica indicazione dei canoni in concreto non osservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal Giudice di merito, non potendo nessuna delle due censure risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal Giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 13.12.2006, n. 26683).
Merita di essere richiamato il più recente arresto di questa Corte, che si pone in termini di assoluta conferma della precedente, già consolidata, opinione giurisprudenziale, secondo cui l'"interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un'attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l'astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione deve invece essere effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell'attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l'indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal Giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l'interpretazione disattesa dal Giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra (sez. 1, sentenza n. 4178 del 22/02/2007, rv. 595003; precedenti conformi;
n. 11193 del 2003 rv. 565195, n. 13579 del 2004 rv. 574755, n. 1754 del 2006 rv. 589741, n. 10131 del 2006 rv. 589465). Nella fattispecie in esame le censure dedotte ricadono nella prima delle due possibili denunce e, ancorchè si muovano sulla base di una deduzione in astratto puntuale delle norme violate, non colgono nel segno, laddove si osservi che di tali norme la Corte territoriale ha dato coerente e precisa applicazione. Inoltre, la difesa ricorrente non si è data carico di riportare il testo integrale dei due accordi contrattuali di cui pure ampiamente discute, ma si è limitata a riferirne alcune clausole, senza così ottemperare al principio, già sopra richiamato, di specificità ed autosufficienza del ricorso e ponendosi al limite dell'inammissibilità. Tuttavia, i passi riportati e l'analisi contenuta nella sentenza impugnata consentono di superare la lacuna in termini di una possibile ricostruzione globale degli accordi intervenuti fra le parti. Passando quindi alla verifica della correttezza e congruenza dell'esame condotto dai giudici della Corte milanese si deve rilevare come sia stato espressamente valutato e sufficientemente valorizzato il comportamento delle parti, quale criterio ermeneutico a supporto e completamento del dato testuale delle clausole contrattuali. Così (pag. 27) la Corte procede alla ricostruzione della volontà delle parti con puntuale rispetto dei canoni di cui all'art. 1362 c.c., partendo dalla disamina delle espressioni letterali ed utilizzando lo strumento della verifica del comportamento delle parti, proprio al fine di dare supporto a tale verifica. A pag. 28 si procede con lo strumento dell'analisi del comportamento successivo tenuto dalle parti ("Il comportamento delle parti costituisce conferma della definitività dell'intesa nei termini così stabiliti dall'art. 2...") ed i dati che se ne traggono, con giudizio insindacabile in questa sede in quanto scevro da vizi logico - giuridici, appaiono frutto di una puntuale e coerente applicazione delle regole di cui all'indicata norma.
Del resto, i Giudici di merito (la pronuncia di secondo grado è conforme a quella del primo giudice anche in relazione al costrutto motivazionale di cui rappresenta sviluppo e conferma), sempre in relazione al comportamento successivamente tenuto alle parti, hanno valorizzato il comportamento tenuto dalla s.r.l. La Conceria, osservando come non risultasse dagli atti che quest'ultima si fosse in seguito attivata per esercitare la scelta fra le opzioni ad essa riservate. Appare di particolare rilevanza l'osservazione della Corte (già formulata dal primo giudice) secondo cui non risultava dagli atti alcuna prova e nemmeno alcuna indicazione in ordine a tempestive manifestazioni dell'attrice di scelta tra le due opzioni riservatele.
La significatività del rilievo non muta laddove, secondo l'assunto della difesa ricorrente, si volesse ricostruire la volontà negoziale espressa con l'art. 4, dell'accordo del settembre 1995 in termini di obbligazioni alternative anzichè di opzione. Anche in simile diversa ipotesi (obbligazioni alternative), infatti, si rendeva necessaria l'espressione di una nuova manifestazione di volontà da parte della odierna ricorrente, in termini di scelta fra l'una o l'altra delle due possibilità che le erano riservate: dichiarare o di sciogliersi dal vincolo giuridico assunto con la compravendita della prima tranche delle quote, pari al 25%, ovvero di assumersi in aggiunta il vincolo ed il diritto ulteriore dell'acquisto anche della seconda tranche pari al 26% delle quote.
Il criterio di cui all'art. 1362 c.c., è poi completato, nella motivazione della sentenza impugnata, dal criterio di cui al successivo art. 1363, della cui omessa applicazione la difesa della ricorrente a torto si duole con il secondo motivo di ricorso.
Ancorchè la disamina di tale motivo rimanga particolarmente pregiudicata dall'omessa trascrizione per intero dei testi contrattuali di cui si discute, deve tuttavia osservarsi, che per quanto è dato verificare alla luce delle clausole trascritte e dei riferimenti fatti dalla medesima difesa ricorrente, la Corte territoriale ha dato puntuale applicazione anche di tale criterio ermeneutico. Infatti, non solo ha espressamente dichiarato (pag. 26) che il contenuto dell'art. 1, del contratto non poteva essere valutato isolatamente e che "le singole clausole vanno considerate in correlazione fra loro" ed ancora "l'interprete deve procedere al coordinamento delle clausole ... deve collegare e raffrontare le clausole e le singole parole tra loro al fine di chiarirne il significato e di desumerlo dal loro contenuto complessivo", ma ha poi effettivamente condotto la propria analisi sia sull'insieme del testo contrattuale in una visione unitaria ("Le diverse pattuizioni richiamate offrono, ad un primo esame, elementi interpretativi che possono apparire contrastanti e non univoci"), sia sulle singole clausole, nell'intento di interpretarle le une per mezzo delle altre e di chiarire anche con tale strumento la comune intenzione dei contraenti. Ha poi di fatto interpretato (pag. 27) il contenuto dell'art. 1, ponendolo in correlazione con l'art. 4, ritenendo che questo, specificando le modalità di attuazione dell'interesse sostanziale che i contraenti intendevano soddisfare, dovesse anzi considerarsi di importanza interpretativa prevalente, Ha poi condotta la propria analisi sul testo di tale ultima norma, con argomentazioni coerenti e logiche, pervenendo a formulare in modo corretto il proprio giudizio.
Con riferimento al terzo motivo di ricorso (violazione dell'art. 1366 c.c.) può ancora aggiungersi che, benchè il criterio della buona fede di cui all'art. 1366, invocato dalla ricorrente, non sia stato espressamente citato, emerge dalla lettura della sentenza impugnata che lo stesso ha costituito il criterio informatore della disamina condotta dai Giudici dell'appello. Se ne traggono indicazioni dai passaggi motivazionali in cui è stato considerato il comportamento successivamente tenuto dalle parti e si è tentato di indagare, senza tuttavia trovare gli elementi probatori di supporto, se parte appellante avesse o meno espresso la propria intenzione di esercitare l'una o l'altra fra le due opzioni che ad essa erano offerte. E' questo il punto che ha impedito alla Corte di portare alle volute conclusioni la volontà contrattuale, ricostruita nel pieno rispetto del principio di buona fede, e non una scorretta interpretazione del testo dell'accordo.
In conclusione, il modus procedendi della Corte milanese appare in linea con i canoni ermeneutici suggeriti dalla stessa società ricorrente, pur avendo portato, tuttavia, a conclusioni difformi da quelle che la difesa di quest'ultima vorrebbe veder accogliere.
E'evidente che in tal sede un simile desiderio non può che essere disatteso, risolvendosi nell'inammissibile tentativo di ottenere una diversa valutazione, evidentemente più favorevole alla parte, di quei medesimi elementi sui quali, con argomentazioni esaurienti ed in modo diffuso e corretto, i Giudici dell'appello hanno fondato il loro convincimento.
5. Procedendo con l'esame dei motivi di ricorso, va considerato che con il quarto motivo di gravame la difesa della s.r.l. La Conceria ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 1453 c.c..
Afferma che il contratto stipulato tra le parti era un contratto a prestazioni corrispettive in forza del quale il Dott. M. si era assunto l'obbligo di far conseguire a La Conceria il controllo della S.E.R., mediante la cessione del 51% delle quote sociali entro il 30.09.96. Sino a tale data, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto avere la facoltà di scegliere tra le due alternative "perfezionare o rinunziare all'acquisto", facoltà non concessale.
E ciò in quanto, già a partire dal secondo semestre del 1995, la situazione si era radicalmente trasformata e la società La Conceria era stata informata del fatto che la SER era in perdita e che tali perdite andavano ripianate.
Tale assemblea, come era evidente, si era tenuta ben prima del termine del 30.09.1996, previsto a favore della società acquirente.
La Conceria veniva così esclusa dalla compagine sociale ed il M. veniva meno alla propria obbligazione di tenere ferma la proposta di vendita fino al 30.09.96.
A fronte di tale inadempimento la società ricorrente, ai sensi del disposto dell'art. 1453 c.c., era legittimata a chiedere l'adempimento dell'obbligazione in questione ovvero la risoluzione del contratto, nonchè il risarcimento del danno.
La Conceria, difatti, aveva chiesto la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno.
La Corte d'appello aveva evidentemente violato il disposto dell'art. 1453 c.c..
Peraltro, lo stesso Giudice di seconde cure aveva applicato erroneamente l'art. 1453 c.c., anche sotto un altro profilo, e precisamente quello relativo al sinallagma contrattuale, in quanto la società ricorrente aveva versato una somma ben superiore al reale valore delle quote acquistate. Infatti, le quote acquistate da La Conceria s.r.l., a causa dell'incapienza del patrimonio sociale erano inidonee a soddisfare, in concreto, i diritti che sorgevano da queste.
Il M. si era impegnato a far conseguire a La Conceria il controllo di una società in utile, mentre, in realtà, aveva ceduto solamente il 25% delle quote di una società in perdita.
La quota sociale in questione mancava addirittura delle qualità necessarie, dato che la S.E.R., al momento dell'acquisto, si trovava già in una situazione tale da determinare il possibile scioglimento della stessa ai sensi dell'art. 2448 c.c..
Il M., quindi, aveva ceduto un bene diverso rispetto a quello promesso.
La Corte territoriale, non dichiarando risolto il contratto in questione per grave inadempimento del M., anche indipendentemente dall'esistenza di una clausola a garanzia del patrimonio sociale, aveva violato il disposto dell'art. 1453 c.c..
La stessa Corte aveva rigettato anche la richiesta di risoluzione dei contratti di cui è causa per il mancato verificarsi dei presupposti che avevano determinato le parti alla loro conclusione, affermando che la consistenza patrimoniale della società S.E.R. era solamente una motivazione soggettiva della società ricorrente, che, in quanto tale, non assumeva alcuna rilevanza.
In realtà, le parti si erano rappresentate, quale volontà comune, quella di far acquisire alla società attrice, entro il 30.09.96 il controllo di una società che non presentasse perdite, ovvero che non costringesse l'acquirente a sottoscrivere un aumento di capitale per perdite.
Ad avviso della difesa ricorrente tale circostanza emergeva chiaramente, se si considerava che il prezzo di acquisto dell'ulteriore 26% delle quote sociali era già stato determinato dalle parti in L. 360.000.000, sulla base della situazione economica della società relativa al bilancio 1994 ed al primo trimestre 1995, e che la società ricorrente avrebbe potuto amministrare la società solamente con l'acquisto del controllo della stessa.
Affermava ancora che, conformemente al consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte Suprema "la presupposizione ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo possa, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto comune avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale" (Cass. civ. 02.01.1986 n. 20, Cass. civ. 09.02.1985 n. 1064 e Cass. civ. 09.05.1981 n. 3074). Ed ancora: "la presupposizione ricorre quando una determinata situazione...possa...ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto avente valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del vincolo contrattuale. La presupposizione, così intesa, assume rilevanza, determinando l'invalidità o la risoluzione del contratto, quando la soluzione presupposta ovvero quella contemplata come futura (ma certa) non si verifichi" (Cass. Civ., sez. 2^, 24.03.1998, n. 3038).
Sosteneva la difesa ricorrente che le parti, nel caso di specie, avevano specificamente inteso dare valore alla consistenza patrimoniale della società S.E.R., quantomeno fino al momento in cui la società ricorrente avrebbe ottenuto il controllo della stessa e ciò anche se non erano state assunte specifiche garanzie circa la veridicità del patrimonio sociale.
Quindi, il verificarsi della perdita del capitale sociale ben al di sotto del limite legale stabilito dall'art. 2447 c.c., aveva determinato la risoluzione del contratto ex tunc. La strategia operata dal Dott. M. era stata alquanto semplice: costringere la società ricorrente a ricapitalizzare la società ovvero ad uscire dalla società stessa, perdendo la quota acquistata, quota che era poi finita nelle mani del M. stesso senza esborso di denaro.
Se la Corte d'appello avesse applicato correttamente il disposto degli artt. 1453 e 2448 c.c., (effetti della pubblicazione nel registro delle imprese), avrebbe dovuto dichiarare risolti i contratti di cui è causa per inadempimento del M., il quale, in ogni caso, aveva tenuto un comportamento in spregio ai più elementari principi di buona fede presenti nel nostro ordinamento.
6. Merita di essere anticipato l'esame dell'ottavo motivo di gravame, al fine di una disamina congiunta. Con tale motivo di censura la difesa della s.r.l. La Conceria ha dedotto l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa alcuni punti della controversia ritenuti decisivi. Censura le medesime statuizioni dei Giudici di secondo grado, investiti dai precedenti argomenti critici, sia pure sotto il profilo del vizio di motivazione.
Con il motivo in esame la difesa della società ricorrente ribadisce, fra l'altro (la parte conclusiva dell'ottavo motivo di ricorso verrà esaminata al punto 11 che segue in quanto logicamente collegata al settimo motivo), che, nell'interpretare il contratto, la Corte d'appello avrebbe omesso di utilizzare il criterio disposto dall'art. 1366 c.c., che stabilisce che il contratto deve essere interpretato secondo buona fede e di prendere in considerazione anche le conseguenze di quanto dalla stessa sostenuto (al punto 15 della sentenza) circa l'opzione di cui all'art. 1331 c.c.. Osserva che il Giudice di seconde cure aveva sostenuto che il regolamento pattizio in esame "in considerazione dei suoi elementi costitutivi, deve ricondursi, per la parte che attiene all'acquisto del 26% del capitale SER, al contratto di opzione di cui all'art. 1331 c.c..
Infatti (...) l'accordo di cui al punto 4 attribuiva ad Ente Areapelle, destinatario dell'offerta di vendita delle ulteriori quote sociali di SER pari al 26% del capitale, la facoltà alternativa di perfezionare o rinunziare all'acquisto, ciò che presupponeva la irrevocabilità della proposta del promettente, obbligato a tenere ferma la proposta di vendita fina al 30.09.1996".
La Corte, però, aveva omesso di valutare le conseguenze di quanto affermato, non avendo evidenziato che la società ricorrente avrebbe dovuto avere la facoltà di scegliere tra due obbligazioni alternative: acquisire l'ulteriore 26% delle quote SER, assumendone così il controllo, ovvero rinunziare all'acquisto retrocedendo al M. il 25% delle quote già acquistate. Assume la difesa della ricorrente che tale facoltà di fatto non le era stata concessa. Infatti, già a partire dal secondo semestre del 1995 la situazione si era radicalmente trasformata e la società La Conceria era stata informata del fatto che la SER era in perdita e che tali perdite andavano ripianate. L'assemblea in cui ciò era emerso, come era evidente, si era tenuta ben prima del termine del 30.09.96 previsto a favore della società acquirente.
La Conceria era stata così esclusa dalla compagine sociale ed il M. era venuto meno alla propria obbligazione di tenere ferma la proposta di vendita fino al 30.09.96.
Alla luce di quanto sopra, non vi era dubbio che il M. fosse stato inadempiente, non avendo rispettato il termine prestabilito all'art. 4 del contratto. Ed infatti, ove la Corte territoriale avesse correttamente applicato il disposto dell'art. 1331 c.c., avrebbe dovuto dichiarare risolto il contratto per cui è causa per inadempimento del Dott. M..
Peraltro, ad avviso della società ricorrente, la Corte aveva erroneamente ritenuto configurabile la fattispecie di cui all'art. 1331 c.c.. Tale clausola prevedeva obbligazioni alternative, disciplinate dal disposto dell'art. 1285 c.c., e non un patto di opzione.
La clausola 4 del contratto attribuiva alla società ricorrente la facoltà di scegliere se il Dott. M. avesse dovuto cederle l'ulteriore quota del 26% di SER ovvero restituirle la somma già corrisposta di L. 350.000.000. Non vi era dubbio che le obbligazioni di cui sopra non erano state adempiute per fatto imputabile al M..
Pertanto, ai sensi dell'art. 1289 c.c., u.c., (impossibilità colposa di una delle obbligazioni: in caso di impossibilità per colpa del creditore, il debitore è liberato se non preferisce eseguire l'altra e chiedere il risarcimento del danno), la società ricorrente aveva diritto ad ottenere, oltre alla risoluzione del contratto, anche il risarcimento dei danni.
Da ciò conseguiva che la Corte, oltre ad essere caduta in evidente contraddizione nella motivazione, aveva violato il disposto di cui agli artt. 1285 e 1289 c.c..
Può subito sul punto osservarsi che il rilievo risolutivo della Corte circa la mancanza di prova e persino di allegazioni da parte della ricorrente circa l'esercizio dell'opzione - o della facoltà di scelta - rimessale dalla clausola contrattuale non risulta inficiato dalle argomentazioni sopra riportate.
Anche la deduzione dell'impossibilità della prestazione per colpa del creditore necessita di essere supportata dalla prova di una simile colpa, colpa che i Giudici del merito hanno ritenuto di escludere con valutazione che la difesa ricorrente non è stata in grado di confutare validamente in base agli elementi in atti.
L'affermazione che sarebbe stata tempestivamente formulata una richiesta di restituzione della quota in cambio di quanto pagato e che a tale richiesta sarebbe stato opposto un secco rifiuto è rimasta a livello di semplice allegazione non supportata da alcun elemento probatorio nè riscontro in atti. Parimenti la colpa nel M. nell'aver reso impossibile la prestazione non è risultata dimostrata e neppure desumibile da elementi indiziari, in quanto, al contrario, come meglio si dirà in seguito, risulta dalla sentenza appellata che il mutamento della situazione patrimoniale della soc. SER troverebbe una plausibile giustificazione.
7. Con riferimento alla dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 1453 c.c., la Corte territoriale ha correttamente inquadrato la fattispecie (si dirà in seguito dell'errore sulle qualità essenziali dell'oggetto della pattuizione) nell'addebito mosso al M. di non aver consentito che La Conceria ottenesse il controllo della S.E.R. e di non aver restituito la somma di L. 350.000.000, ottenuta per la compravendita della prima tranche del 25% delle quote ceduta alla medesima La Conceria. Tuttavia al tale riguardo deve condividersi la qualificazione data dai giudici dell'appello alla pattuizione contenuta nella clausola 4 dell'accordo in base alla quale spettava alla s.r.l. La Conceria esercitare l'opzione (ma, si ripete, il discorso vale anche per l'ipotesi in cui si voglia affermare che spettava alla La Conceria esercitare la scelta fra le due ipotesi alternative di ottenere l'ulteriore 26% e, quindi, il controllo del 51% delle quote ovvero chiedere la restituzione di quanto pagato e non procedere oltre nell'acquisto delle quote). A tale proposito deve osservarsi che, sia che si ritenga essenziale alla formazione della volontà dei contraenti il raggiungimento della partecipazione nella misura del 51%, sia che - come ritenuto dai Giudici del merito - tale misura fosse solo eventuale, non costituendo l'oggetto fisso e predeterminato della negoziazione (così a pag. 28 della sentenza impugnata), non è comunque possibile superare il rilievo della mancata prova della necessaria manifestazione di volontà da parte della soc. La Conceria circa la scelta da essa operata fra le due alternative (o opzioni) che le erano offerte. Nell'uno e nell'altro caso, infatti, la prova di simile manifestazione era imprescindibile al fine di integrare il diritto della ricorrente alla restituzione del prezzo pagato per la prima tranche.
Ribadisce la sentenza impugnata la validità di quanto affermato dal primo giudice a proposito del comportamento successivo tenuto dalla società ricorrente "a fronte delle emergenze negative del bilancio al 31.12.1995....ben avrebbe ancora potuto, prima dell'assemblea di ricostituzione del capitale tenutasi il 28.5.1996, chiedere la restituzione del primo corrispettivo restituendo le quote e così evitando gli esiti negativi dell'affare lamentati nel presente processo".
La Corte d'appello ha espressamente rilevato: "L'appellante non deduce alcun argomento d'impugnazione specifico per contestare l'accertamento con cui il Tribunale ha rilevato che non risultava agli atti alcuna prova e nemmeno alcuna indicazione in ordine a tempestive manifestazioni dell'attrice di scelta tra le due opzioni riservatele". Anche nel presente grado tale rilievo non è stato fatto oggetto di alcuna specifica censura, nè di alcuna deduzione circostanziata, idonea a dimostrare l'infondatezza dell'assunto.
Ora, a fronte di tali rilievi dei Giudici dell'appello, già espressi dal primo Giudice, il motivo di censura dell'odierna ricorrente non coglie nel segno, in quanto non censura minimamente la vera ratio deciderteli e la motivazione con cui la Corte ha ritenuto di non poter accogliere la domanda di risoluzione per inadempimento. Ma vi è di più, emerge dagli atti che la s.r.l. La Conceria fosse presente all'assemblea con la quale era stato deliberato l'aumento del capitale sociale per pareggiare le perdite dell'esercizio 1995 e che, in tale occasione, proprio allorquando le si offriva la possibilità di esercitare i diritti che la sua qualità di socia al 25% (già a quel momento) le consentivano ovvero di chiedere ufficialmente di recedere dall'accordo e di ottenere in restituzione quanto già pagato, la stessa si rimasta inerte o abbia addirittura approvato l'aumento del capitale. Il resistente, in particolare, nel controricorso in questa sede proposto, sottolinea fra l'altro che la Conceria ha partecipato all'assemblea del 28.5.96 della SER, nel corso della quale, pendenti gli accordi per cui è causa, la stessa La Conceria ha dato il suo voto all'azzeramento del capitale e alla sua ricostituzione. A fronte di tale affermazioni non sono pervenute smentite nè chiarimenti da parte della ricorrente, che al contrario ha svolto censure diverse, senza censurare il passaggio risolutivo della motivazione della Corte territoriale.
Non risulta, peraltro, che la Corte territoriale sia incorsa in violazione di legge in relazione all'art. 1453, o in vizi della motivazione, apparendo al contrario l'iter argomentativo svolto in maniera coerente, puntuale ed articolata, così da reggere pienamente al sindacato di legittimità.
8. Come quinto motivo di ricorso, la difesa della società La Conceria ha dedotto ancora la violazione e falsa applicazione di legge, con riferimento all'art. 1439 c.c., ricorda che, come confermato da giurisprudenza costante, "il dolo quale causa di annullamento del contratto, ai sensi dell'art. 1439 c.c., può consistere tanto nell'ingannare con notizie false, quanto nel nascondere alla conoscenza altrui, con il silenzio o con la reticenza, fatti o circostanze decisive" (Cass. civ., sez. Ili, 12.01.1991, n. 257).
Ad avviso della ricorrente, nel caso in esame non si poteva certo dubitare del fatto che il M. avesse nascosto all'acquirente fatti e circostanze che, se conosciute, avrebbero portato la società ricorrente a non concludere il contratto. Il Dott. M., al momento della stipulazione dei contratti, era Presidente del Consiglio di Amministrazione della S.E.R. e, in tale veste, aveva presentato sia all'Ente Areapelle sia alla società La Conceria il bilancio relativo all'anno 1994 ed una situazione contabile relativa al primo semestre del 1995 in utile. Successivamente, nel mese di aprile del 1996, il Dott. M. aveva presentato ai soci sia il bilancio della S.E.R. relativo al 1995, sia la situazione contabile relativa al primo trimestre del 1996, che evidenziavano gravi perdite.
Osservava la difesa ricorrente che, nell'arco di soli 9 mesi, la società era passata da un utile di esercizio di L. 48.262.679 ad una perdita di L. 224.079.531. Asseriva che le dichiarazioni del M. non potevano che essere qualificate come raggiri. In tal senso si era espressa la giurisprudenza di questa Corte: "le dichiarazioni precontrattuali con le quali una parte cerchi di rappresentare la realtà nel modo più favorevole ai propri interessi non integrano gli estremi del dolus malus quando, nel contesto dato, non sia ragionevole supporre che l'altra parte possa aver attribuito a quelle dichiarazioni un peso particolare..." (Cass. civ., sez. 1^, 01.04.1996, n. 3001). Asseriva che, in base alla clausola n. 4 del contratto, il M. era obbligato a mantenere la situazione economica inalterata sino al termine del 30.09.1996, cosa, peraltro, non fatta.
Contrariamente a quanto afferma il difensore della ricorrente, la Corte territoriale, pur avendo fatto buon uso dei criteri ermeneutici che sovrintendono all'interpretazione del contratto, non ha ritenuto che la clausola 4 contenesse un simile impegno. La Corte milanese, con specifico riferimento all'addebito di dolo, ha ritenuto che l'attrice avesse omesso di fornire in giudizio un'adeguata dimostrazione di quali raggiri, rilevanti ex art. 1439 c.c., il M. avesse posto in essere per trarre in inganno la promissoria acquirente. Non si tratta, quindi, di essere caduti in errore circa l'esatto contenuto normativo della nozione di dolo, bensì di aver ritenuto che di quel dolo, sia pure correttamente inquadrato in astratto, non si fosse offerta in causa una prova sufficiente.
La Corte ha ritenuto, fornendo una motivazione corretta ed esaustiva, che la deduzione dell'attrice si fondava sull'arbitrario presupposto (non giustificato) che dall'andamento negativo del bilancio relativo all'esercizio 1995 dovesse necessariamente essere ricavato un sicuro indizio di non corrispondenza al vero dei precedenti documenti contabili in utile mostrati nel corso delle trattative (vale a dire il bilancio relativo all'esercizio 1994 e la situazione contabile relativa al primo semestre del 1995). Ha sottolineato la Corte come il diverso risultato dei conti relativi al 1995 ben poteva essere giustificato (come rilevato dal primo Giudice) da vicende gestionali conclusesi contabilmente in senso negativo e come tali certo non riconducibili a raggiro del M. nei confronti degli acquirenti. L'argomento sostanziale espresso è quello del difetto di prova del dolo, ed il rilievo non cambia ove si voglia configurare la fattispecie in termini di dolo omissivo (l'aver taciuto la reale situazione economica della società), dal momento che comunque incombeva all'attrice fornire prova di un simile dolo e che il rilievo circa una possibile causa giustificatrice sopravvenuta per il risultato negativo dell'esercizio 1995 valeva a confutare efficacemente anche l'ipotesi del dolo omissivo. Anche con riferimento a tale profilo di censura le ragioni di ricorso non sono idonee ad incidere sulla congruità e correttezza dei criteri logico - giuridici utilizzati dai Giudici del merito a sostegno della decisione di rigetto dell'ipotesi di cui all'art. 1439 c.c..
9. Parimenti da disattendere è il sesto motivo di ricorso, con cui la difesa della società ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 1429 c.c., nell'assunto che la Corte d'appello non avesse accolto neppure la richiesta della società La Conceria di annullamento del compromesso e del contratto di cessione della quota sociale del 25% della SER per errore, sulla base delle seguenti considerazioni:
- che la società ricorrente non avrebbe fornito elementi di prova idonei a dimostrare il comportamento fraudolento imputato al cedente;
- che "la valutazione economica della cosa oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto il difetto di qualità della cosa deve attenere solo ai diritti ed obblighi che il contratto in concreto sia idoneo ad attribuire, e non al valore economico del bene oggetto del contratto, che afferisce non all'oggetto del contratto, ma alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un determinato accordo, non tutelata dallo strumento dell'annullabilità ...".
Assumeva la difesa ricorrente che la Corte d'appello non aveva tenuto in considerazione che la società La Conceria aveva acquistato la quota in questione al prezzo di L. 350.000.000, in virtù del solo fatto che la situazione economica della SER, rappresentata dall'appellato, non presentava perdite.
Vi era stato, quindi, un errore nella determinazione del prezzo della quota acquistata causato dal comportamento del M..
Stando così i fatti, l'errore era da dichiararsi certamente come essenziale e riconoscibile.
Inoltre, era ragionevole affermare che qualsiasi fatto dolosamente o colposamente taciuto dal cedente, che incida significativamente sul valore del patrimonio sociale, non poteva considerarsi irrilevante per il solo fatto che sul punto quest'ultimo non avesse specificamente assunto alcuna garanzia. Premesso che l'art. 1429 c.c., dispone che l'errore è essenziale "quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso", sosteneva il difensore ricorrente che l'errore sul prezzo costituiva un errore sull'identità dell'oggetto della prestazione. Invocava una pronuncia della Corte di cassazione che aveva affermato che "...la falsa rappresentazione su quell'elemento qualificativo ben può costituire errore - vizio del consenso" (Cass. 05.05.62, n. 888).
Nel caso in esame, il M. aveva descritto la SER come una società florida e in attivo. Tale falsa rappresentazione, avendo ad oggetto un elemento determinativo della società SER, avrebbe dovuto giustificare la risoluzione del contratto in esame per errore.
10. Deve affermarsi che anche sul punto la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione della norma in parola e dell'interpretazione consolidata offerta da questa Corte (pagg. 18 - 21). Ed infatti i giudici dell'appello hanno affermato che l'errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto il difetto di qualità della cosa deve attenere solo ai diritti ed obblighi che il contratto in concreto sia idoneo ad attribuire, e non al valore economico del bene oggetto del contratto, che afferisce alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un determinato accordo, sfera non tutelata con lo strumento dell'annullabilità, non essendo riconosciuta dall'ordinamento alcuna tutela rispetto al cattivo uso dell'autonomia contrattuale e all'errore sulle proprie personali vantazioni, delle quali ciascuno dei contraenti assume il rischio.
Esclusa la dimostrazione del dolo ed esclusa parimenti la prova circa la ricorrenza di un errore valido ai fini di cui all'art. 1429 c.c., (nei limiti in cui i due fatti costitutivi apparivano prospettati in termini speculari), i Giudici dell'appello ribadivano la mancanza di specifiche garanzie contrattuali circa la consistenza patrimoniale della società. Assume la sentenza impugnata che la consistenza del patrimonio sociale ed il suo valore maggiore o minore non possono neppure avere rilevanza sotto il profilo dell'incidenza del valore sul controllo della società, quando si deduca che esso è stato perseguito come scopo economico e causa della cessione, giacchè la diversità del valore, derivando dalla diversa consistenza del patrimonio sociale e riverberandosi proporzionalmente sul valore di tutte le quote di partecipazione, non è incompatibile con la realizzazione della finalità dell'acquisizione del controllo della società, per la cui sussistenza sono idonei e sufficienti le condizioni previste dall'art. 2598 c.c..
La giurisprudenza di questa Corte già ricordata dai giudici del merito ha ricevuto ulteriore conferma più di recente, allorchè è stato ribadito che la cessione delle azioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale - e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione - possono giustificare l'annullamento del contratto per errore o, ai sensi dell'art. 1497 c.c., la risoluzione per difetto di "qualità" della cosa venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l'inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza (giurisprudenza costante; vedi sentenza n. 16031 del 19/07/2007, rv. 598889; n. 5773 del 1996 rv.
498254, n. 26690 del 2006 rv. 593651).
Nel caso di specie la sentenza impugnata ha escluso che il cedente abbia fornito specifiche garanzie contrattuali, avendo ritenuto che una simile garanzia non fosse desumibile neppure dal testo contrattuale, ed ha patimenti escluso che fosse stata offerta valida prova del mendacio.
Il complesso di tali consistenti motivazioni non risulta efficacemente confutato da parte della ricorrente, che si è limitata ad asserire il proprio diverso avviso, senza che in questa sede sia in alcun modo possibile pervenire a valutazioni dei fatti di portata diversa rispetto a quanto valutato dai Giudici del merito, sia perchè questi hanno dato corretta applicazione delle norme di legge (nello specifico dell'art. 1429 c.c.) e dell'interpretazione offertane dalla giurisprudenza di questa Corte, sia perchè il giudizio espresso è stato formulato sulla base di motivazioni che vanno esenti da censure logico - giuridiche rilevabili nella presente sede di legittimità.
Il tentativo di ottenere una valutazione diversa da parte di questa Corte non è certo perseguibile nella presente sede.
11. Appare privo di pregio anche il settimo motivo di ricorso, con cui la difesa della ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 244 c.c., e ss..
La Corte d'appello, condividendo le argomentazioni del Tribunale, aveva rilevato che la ricorrente non aveva correttamente specificato e provato il dolo e l'errore, essendosi limitata ad offrire un'inammissibile prova testimoniale, stante la genericità dei due capitoli dedotti.
A dire della Corte, sarebbe stato irrilevante la circostanza che il Tribunale avesse ammesso l'interrogatorio formale, benchè lo stesso vertesse sui medesimi capitoli dedotti anche per la prova testimoniale, esclusa invece per genericità.
Assumeva la difesa ricorrente che tale affermazione si poneva in contrasto con gli artt. 244 e 230 c.p.c., posto che i presupposti per l'ammissibilità del capitoli di prova nel caso di escussione testimoniale e nel caso di interrogatorio formale erano i medesimi.
Se i suddetti capitoli fossero stati generici, come affermato dal Tribunale, il Giudice di prime cure non avrebbe dovuto ammettere nemmeno l'interrogatorio formale del convenuto e la genericità dei capitoli avrebbe dovuto rendere inammissibile, quindi, non solo le prove testimoniali, ma anche l'interrogatorio formale. Alla luce di quanto sopra risulterebbe evidente la violazione del disposto dell'art. 244 c.p.c..
Merita di essere esaminata congiuntamente alla censura di cui al settimo motivo la censura conclusiva dell'ottavo motivo di ricorso (la prima parte dell'ottavo motivo di ricorso è già stata anticipata al punto 6), che coinvolge il medesimo aspetto, sia pure sotto il diverso profilo della carenza di motivazione. Assume da ultimo la difesa ricorrente che la Corte d'appello avrebbe omesso di motivare in merito all'inammissibilità delle prove testimoniali dedotte in primo grado dalla società La Conceria, essendosi limitata a svolgere considerazioni contraddittorie. Nota la difesa che a pag.
14 della sentenza impugnata la Corte aveva affermato che: "può convenirsi che i presupposti dell'ammissibilità dei due mezzi di prova non siano dissimili, perchè anche l'interrogatorio formale deve essere formulato in modo da risultare concludente e deve avere, dunque, ad oggetto, circostanze di fatto specifiche". Il Giudice di seconde cure aveva, quindi, da una parte ammesso che i presupposti per l'ammissione dei capitoli di prova per l'escussione testimoniale e l'interrogatorio formale erano i medesimi, e, dall'altra, aveva considerato irrilevante il fatto che il Tribunale avesse ammesso l'interrogatorio formale e non la prova per testi. Ad avviso di parte ricorrente, era di tutta evidenza la contraddittorietà sul punto della sentenza in esame, nonchè la carenza di motivazione.
12. A proposito di tali censure è sufficiente rilevare che la Corte d'appello ha fornito una valida risposta ai rilievi che la difesa ricorrente oggi ripropone, senza darsi carico di confutare in termini puntuali gli argomenti utilizzati dai giudici milanesi. La sentenza impugnata ha ritenuto irrilevante che il Tribunale avesse ammesso l'interrogatorio formale, benchè lo stesso vertesse sui medesimi capitoli dedotti anche per la prova testimoniale, invece non ammessa per genericità. Ha supportato tale convincimento con il rilievo che, benchè potesse convenirsi che i presupposti per l'ammissibilità dei due mezzi di prova non fossero dissimili (anche l'interrogatorio deve essere formulato in modo da risultare concludente e deve avere, dunque, ad oggetto circostanze specifiche, così da poter essere idoneo a provocare, in caso di risposta positiva, una confessione giudiziale, che presuppone, a norma dell'art. 2720 c.c., un atto ricognitivo in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante), tuttavia, un provvedimento ordinatorio come quello assunto per l'ammissione dell'interrogatorio, riguardando capitoli in sè non idonei a provocare una confessione in senso proprio, non valesse a rendere ammissibile una prova che non fosse stata dedotta in conformità delle modalità prescritte in materia di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova. La motivazione resa appare logica e coerente, priva di contraddizioni e di lacune di sorta.
L'assunto, inoltre, merita di essere condiviso, posto che una carente deduzione del capitolato da sottoporre all'interrogando potrà avere come effetto quello di non risultare valido strumento per provocare la confessione giudiziale cui l'interrogatorio formale mira, ma varrà comunque a fornire al giudice la possibilità di ottenere chiarimenti dalla parte in ordine ai fatti di causa. Un capitolato di prova carente, non specifico o contenente giudizi, precluderà invece in maniera rigorosa la possibilità di sottoporre le circostanze dedotte ad eventuale prova testimoniale, cosicchè, pur nell'identità dei presupposti di ammissibilità, il mancato rispetto delle forme prescritte sortisce effetti diversi, che giustificano, quindi, la diversità del trattamento che il Giudice di merito può riservare all'uno o all'altro strumento di prova. Nè l'aver ammesso - ancorchè erroneamente - l'interrogatorio formale su un capitolato inadeguato, può valere a vincolare il Giudice ad ammettere su quei medesimi capitoli la prova testimoniale richiesta.
Entrambi i motivi di censura articolati sul punto, con riferimento al vizio di violazione di legge ed al vizio di motivazione, sono privi di fondamento.
13. Alla luce delle considerazioni svolte il ricorso proposto nell'interesse dalla s.r.l. La Conceria non merita accoglimento. Deve essere quindi rigettato, con condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio, che vengono liquidate in favore del resistente nella misura di Euro 3.800, 00, di cui Euro 3.600,00, per onorari, Euro 200,00, per esborsi, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.800,00, di cui Euro 3.600,00, per onorari, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2008
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