Scioglimento concessione di vendita e gestione giacenze e stock

Cessazione del contratto di concessione di vendita e gestione delle giacenze: diritti e doveri delle parti.

Sovente nei contratti di concessione di vendita viene prevista una pattuizione sulle modalità di gestione delle giacenze di merce acquistata dal concessionario in corso di rapporto; tale regolamentazione si può concretare nell’opzione di riacquisto dei beni ad un certo prezzo da parte del concedente, ovvero nella facoltà dell’ex concessionario di distribuire tali prodotti.

Altre volte le parti non prevedono alcuna disposizione contrattuale che disciplini tale fattispecie e alla cessazione del rapporto si concretizza la problematica di comprendere se l’ex concessionario possa o meno rivendere lo stock in magazzino, ovvero richiedere al fornitore di riacquistare la merce.

Qui di seguito si andranno ad analizzare, seppure brevemente, tali fattispecie stante la loro rilevanza sia da un punto di vista tecnico-giuridico, quanto pratico e commerciale.


1. Assenza di un accordo scritto nel contratto di concessione.
1.1. Diritto a rivendere i prodotti in stock.

In mancanza di diverse pattuizioni contrattuali, la fattispecie in analisi deve essere trattata sotto due differenti aspetti: in base ai principi del diritto civile, da un lato, e a quelli del diritto della proprietà intellettuale, dall’altro lato.

Civilisticamente il concedente non potrà impedire al proprio concessionario di rivendere la merce da questi acquistata, a meno che la stessa non sia stata venduta con riserva di proprietà e il concessionario provveda all’alienazione dei beni contrattuali prima di esserne divenuto proprietario: in tal caso, oltre all’inadempimento contrattuale, l’alienazione integrerà addirittura gli estremi del delitto di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.).[1]

Da un punto di vista del diritto della proprietà intellettuale, bisogna invece riprendere un principio che è stato già più volte trattato in questo blog, ossia quello dell’esaurimento del marchio, di cui all’art. 5 c.p.i.

Leggi anche - Vendite parallele e principio dell’esaurimento del marchio.

Secondo tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale immette direttamente o con il proprio consenso in commercio un bene nel territorio dell’Unione europea, questi perde le relative facoltà di privativa.

L’esclusiva è quindi limitata al primo atto di messa in commercio, mentre nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare della privativa, sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Posto che in un contratto di concessione di vendita, il consenso alla prima immissione nel mercato (ossia la vendita dal concedente al concessionario) trae origine dal rapporto contrattuale intercorso tra le parti, in mancanza di diverse pattuizioni, il concedente non potrà opporsi alla rivendita dei prodotti contrattuali neppure una volta che il rapporto sia terminato.

Si legge in giurisprudenza in merito che:

l’imprenditore, che abbia acquistato merce con segni distintivi, ha invero diritto alla commercializzazione del prodotto anche successivamente alla risoluzione del rapporto perché, in base al principio dell’esaurimento, il titolare di un diritto di proprietà industriale non può opporsi alla circolazione di un prodotto, cui si riferisce il detto diritto, quanto il prodotto sia stato immesso sul mercato dal titolare del diritto medesimo o con il suo consenso nel territorio dello stato o nel territorio di altri Stati membri dell’Unione europea.”[2]

Il principio di esaurimento conosce pur sempre una limitazione: il secondo comma dell’art. 5 c.p.i. reca una norma di salvaguardia che consente al titolare del marchio di opporsi alla circolazione del prodotto immesso con il suo consenso sul mercato e, pertanto, “esaurito”, qualora sussistano:

motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio”.

Pertanto, in assenza di “motivi legittimi”[3], il fornitore non potrà impedire al concessionario la rivendita di rimanenze, né tantomeno l’impiego del proprio marchio se viene da questi utilizzato con il solo fine di pubblicizzare la disponibilità̀ del prodotto che intende cedere o locare e l’attività pubblicitaria non sia tale da ingenerare nel pubblico la convinzione che il concessionario faccia parte della rete autorizzata del concedente, integrando diversamente tale comportamento un illecito confusorio di cui all’art. 2598, comma 1, n. 1 c.c., in tema di concorrenza sleale.[4]


1.2. Diritto a farsi riacquistare le giacenze.

In assenza di un obbligo contrattuale, per comprendere se il concessionario possa pretendere dal concedente di farsi riacquistare la merce rimasta in giacenza, bisogna rifarsi principalmente ai principi di lealtà e buona fede ex art. 1375 c.c.

La clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge.[5]

Trattandosi di un principio molto ampio e certamente di non facile attuazione pratica, è necessario di volta in volta valutare come lo stesso debba essere applicato al caso concreto, sulla base di tutti quei fattori che possano impattare sull’equilibrio contrattuale: verrà certamente valutata diversamente la circostanza che al concessionario fosse stato contrattualmente imposto l’obbligo di mantenere uno stock in magazzino, rispetto alla fattispecie per cui le giacenze siano dovute ad una mancata attinenza alle regole di prudenza, che avrebbero dovuto consigliare al concessionario di sospendere o comunque ridurre gli acquisti e smaltire medio tepore le giacenze in vista di un rapporto prossimo alla scadenza.[6]

Si registra una sentenza del Tribunale di Milano,[7] che ha considerato contraria a tali principi la condotta di un fornitore che ha impedito (in contrasto con il principio di esaurimento) a parte attrice la commercializzazione del prodotto da esso fornito prima del recesso, senza avere cooperato a salvaguardare l’interesse della controparte dando la disponibilità – pur contrattualmente non prevista – al riacquisto della merce.

Il Tribunale ha quindi condannato la convenuta al risarcimento del danno, quantificato nel valore della merce rimasta in giacenza.

Si registra altresì un’ulteriore sentenza sempre del Tribunale di Milano,[8] relativa ad un rapporto di licenza, in cui il giudicante è giunto ad un simile risultato, attraverso l’ausilio dello strumento fornito dall’art. 1340 c.c., in base al quale gli usi negoziali o clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti.

Il Tribunale ha quindi considerato che il licenziante fosse tenuto a riacquistare la merce venduta, oltre che in un’ottica di collaborazione e di comportamento in buona fede, sulla base del fatto che nel settore in cui le parti operavano era consuetudine che il licenziante acquistasse almeno una parte della merce invenduta a seguito dello scioglimento del rapporto.


2. Sussistenza di un accordo tra il concedente e il concessionario.
2.1. Divieto di rivendere le giacenze di magazzino.

Una clausola contrattuale che imponga al concessionario un divieto di vendere i prodotti in giacenza a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale, senza che vi sia un impegno del concedente di riacquistare tale merce è, a parere di chi scrivere, di dubbia valida, sia da un aspetto della normativa antitrust, che di quella civilistica, per le ragioni che si vanno qui di seguito ad illustrare.

In ambito antitrust, l’art. 5, b), del Regolamento 330/2010, impone delle limitazioni alla facoltà del fornitore di imporre al proprio acquirente di svolgere attività in concorrenza dopo lo scioglimento del rapporto. “Le parti non possono imporre alcun obbligo diretto o indiretto che imponga all’acquirente, una volta giunto alla scadenza l’accordo, di non produrre, acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi, salvo che tale obbligo […]:

  • si riferisca a beni o servizi in concorrenza con i beni o servizi contrattuali;
  • sia limitato ai locali e terreni da cui l’acquirente ha operato durante il periodo contrattuale;
  • sia indispensabile per proteggere il «know-how» trasferito dal fornitore all’acquirente;
  • la durata di quest’obbligo sia limitata ad un anno.”

Essendo i requisiti per la legittimità di tale obbligo previsti in via cumulativa, la norma non è di regola applicabile alle forme tipiche di concessione di vendita, che non implicano l’esigenza di proteggere know-how fornito ai rivenditori, ma piuttosto ai contratti di franchising,[9] con la conseguenza che assai difficilmente tale esenzione possa essere applicata alla fattispecie contrattuale oggetto di analisi.

Inoltre, l’obbligo di non concorrenza non fa parte delle “restrizioni gravi” (hardcore) disciplinate dall’art. 4 del regolamento, ma di quelle semplicemente non esentabili, con la conseguenza che tali limitazioni vengono applicate unicamente ai contratti che non hanno importanza minore, ossia che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza: ciò si verifica ogniqualvolta la quota di mercato detenuta da ciascuna delle parti dell’accordo supera il 15% sui mercati rilevanti interessati dall’accordo.[10]

Qualora il contratto di concessione sia qualificabile come contratto di importanza minore, una pattuizione che impone il divieto alla rivendita della merce in giacenza, beneficerebbe dell’esenzione e sarebbe (almeno da un punto di vista antitrust) lecito.

Attenzione, ciò comunque non toglie che una tale pattuizione contrattuale debba essere comunque sottoposta al vaglio dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, sicché potrebbe essere non valida, se non viene adeguatamente controbilanciata da – ad esempio – un obbligo del concedente di riacquistare la merce giacente, in particolare se a questi era contrattualmente imposto l’onere di mantenere uno stock minimo in magazzino in corso di rapporto.[11]


2.2. Diritto di riacquistare la merce da parte del concedente.

Un differente ragionamento deve essere fatto – sempre al fine di valutarne la liceità – nel caso in cui le parti prevedano un diritto del concedente di riacquistare lo stock dei prodotti, a seguito dello scioglimento del rapporto.

Per fare ciò, si rende in primo luogo necessario comprendere la natura giuridica di una siffatta pattuizione, ossia se la stessa debba essere inquadrata come:   

  • contratto preliminare ex 1351 c.c., accessorio al contratto di concessione, ovvero
  • patto di opzione di acquisto, ex 1331 c.c.

Si vanno qui di seguito ad esaminare brevemente le differenze tra tali istituti.

a) Contratto preliminare.

Si rientra in tale fattispecie, ogniqualvolta nel contratto entrambe le parti concordino che alla cessazione del rapporto i prodotti a stock verranno riacquistati dal fornitore ad un prezzo pattuito. 

Es. Le parti concordano che al termine del contratto il concessionario sarà tenuto a rivendere al concedente l’intero stock prodotti rimasto in giacenza, al prezzo pari a quello indicato in fattura al netto di IVA, con uno sconto del _____.

Tale clausola contrattuale (che costituirebbe appunto un contratto preliminare) è certamente valida, a meno che non si dimostri che il contratto fosse nullo ab origine, ad esempio per vizio del consenso di una delle parti, abuso di diritto, etc.

b) Patto di opzione di acquisto.

Qualora invece nel contratto una parte si impegna a mantenere ferma una propria proposta e all’altro soggetto (beneficiario) è riconosciuto il diritto di avvalersi o meno della facoltà di accettare la proposta, rientriamo nella differente fattispecie del contratto di opzione ex art. 1331 c.c.

Es. Al termine del contratto il concedente ha la facoltà di riacquistare lo stock al prezzo _______, da comunicarsi entro _____ dallo scioglimento del contratto.

Anche una pattuizione di tale genere deve considerarsi tendenzialmente valida; l’unica problematica potrebbe essere collegata nel caso in cui il diritto di opzione venga concesso a titolo gratuito, ossia senza il versamento di un prezzo (c.d. premio). 

Parte della giurisprudenza (seppure minoritaria)[12] ritiene che in tal caso il patto di opzione sarebbe nullo, non potendo essere concesso tale diritto a titolo gratuito (ad es. uno sconto sul riacquisto delle merci). Si segnala comunque che la giurisprudenza maggioritaria è invece a favore della gratuità dell’opzione: “l'art. 1331 c.c. non prevede il pagamento di alcun corrispettivo e, dunque, l'opzione può essere offerta a titolo oneroso o gratuito”.[13]


[1] Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, § 377.

[2] Trib. Milano, 6.5.2015; in giurisprudenza Corte di Giustizia, 8.7.2010, caso Portakabin.

[3] Costituiscono “motivi legittimi” idonei a far sì che non trovi applicazione il principio dell’esaurimento del marchio: a) la modifica o l’alterazione dello stato dei prodotti, dopo la loro immissione in commercio e b) tutti quei casi che importano un serio e grave pregiudizio: questo ultimo deve essere accertato in concreto. Sul punto cfr. Trib. Milano 17.3.2016.

[4] Sul punto Cass. civ. 1998, n. 10416; Trib. Roma, 28.4.2004.

[5] Cass. Civ. 2014, n. 1179.

[6] Sul punto cfr. Trib. Milano, 19.9.2014.

[7] Trib. Milano, 21.5.2015.

[8] Trib. Milano, 19.9.2014.

[9] Bortolotti, Contratti di distribuzione, Walters Kluver, 2016.

[10] Cfr. Comunicazione De Minimis 2014 della Commissione UE, in combinato disposto con la Comunicazione della Commissione sulle linee direttrici la nozione di pregiudizio al commercio tra Stati membri di cui agli articoli 81 e 82 del trattato.

[11] Sul punto cfr. Trib. Milano, 19.9.2014.

[12] Cfr. Appello Milano 5.2.1997.

[13] Trib. Milano 3.10.2013


diritto alla provvigione e contratti di lunga durata

Diritto alla provvigione dell'agente sui contratti di lunga durata.

Se un agente procura contratti di lunga durata, ha diritto alla provvigione se i contratti proseguono anche dopo lo scioglimento del rapporto di agenzia?

Qualora un agente procuri contratti di lunga durata, quali ad esempio contratti di somministrazione pluriennali, ovvero di subfornitura, ci si domanda se lo stesso abbia o meno diritto alla provvigione sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto procurato a seguito di un eventuale scioglimento del rapporto di agenzia.

Per rispondere a tale domanda, bisogna fare un breve passo indietro e comprendere nel dettaglio, quando nasce il dritto dell’agente alle provvigioni (sul punto cfr. anche  Le provvigioni dell’agente per gli affari conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del rapporto). L’art. 1748, terzo comma del c.c., dispone sul punto che:

L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta; in tali casi la provvigione è dovuta solo all’agente precedente, salvo che da specifiche circostanze risulti equo ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti.”

Tale impostazione[1] è volta ad evitare che il preponente possa correre il rischio di pagare una doppia provvigione: una all’agente uscente ed una a quello entrante.[2] In caso di scioglimento del rapporto, pertanto, l’agente avrà diritto alla provvigione:

  • se la proposta è pervenuta in data antecedente allo scioglimento del rapporto;
  • se l’affare è concluso entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività dell’agente.

Mentre la prima ipotesi non dà luogo a particolari problemi interpretativi, la seconda, diversamente, può originare diversi dubbi, principalmente connessi all’interpretazione del concetto di “prevalenza” e di “ragionevolezza[3]”.

Un aiuto interpretativo si può ricavare dall’art. 6, ult. comma, AEC 30.7.2014[4] (cfr. quando si applicano gli AEC e come si calcola l’indennità di fine rapporto AEC Industria 2014), che impone all’agente l’obbligo di relazionare la mandante in maniera dettagliata, in merito alle trattative intraprese e non concluse al momento della cessazione del rapporto; tale disposizione prevede altresì che, qualora nell’arco di sei mesi dalla data di scioglimento del rapporto, alcune di tali trattative vadano a buon fine, l’agente avrà diritto alle relative provvigioni (cfr. L’obbligo di informazione dell’agente nei confronti del preponente).

Sulla base di quanto sopra brevemente esposto, nel caso in cui l’agente nel corso del rapporto promuova contratti di durata, il diritto alla provvigione sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto procurato successivamente allo scioglimento del rapporto, dipende essenzialmente dalla natura del contratto di durata.

In linea di massima, nel caso in cui il contratto di durata sia un contratto di somministrazione, di subfornitura, ovvero un contratto di vendita a consegne ripartite, si può affermare che (salvo non sia stato diversamente pattuito)[5], l’agente abbia diritto alla provvigione su tutte le forniture effettuate anche a seguito dello scioglimento del contratto di agenzia, essendo questi di fatto atti di esecuzione di un contratto concluso nel corso del rapporto.

Contrariamente, qualora il contratto promosso sia un contratto quadro, in cui ciascuna fornitura deve formare oggetto di un ulteriore accordo (ordine - accettazione), in tal caso le singole forniture dovranno essere considerate come contratti di vendita indipendenti,[6] seppure conclusi nel contesto del contratto quadro, con la conseguenza che tali successivi contratti di vendita non daranno diritto alla provvigione (fatto salvo che l’agente non riesca a dimostrare che tali affari, siano riconducibili alla sua attività di promozione e siano stati conclusi entro un termine ragionevole).

Proseguendo con il ragionamento, nel caso in cui, invece, il rapporto di durata venga sottoscritto dal preponente a seguito dello scioglimento del rapporto, per comprendere se l’agente possa avere diritto alla provvigione, non sarà sufficiente accertare la natura del rapporto di durata, ma, altresì, dimostrare che la conclusione dell’affare, sia riconducibile all’attività di promozione dell’agente.

Si richiama qui di seguito un caso molto interessante[7], che è stato deciso da una serie di tre sentenze del Tribunale di Grosseto, avente ad oggetto la seguente fattispecie: un agente, a seguito di gravose trattative protrattesi per diversi mesi, aveva procurato alla preponente (una società che opera nel settore degli alimenti surgelati) un affare con una catena di supermercati, avente ad oggetto la somministrazione a tempo indeterminato di piatti pronti surgelati e preconfezionati. Il contratto di somministrazione veniva stipulato qualche mese dopo lo scioglimento del rapporto di agenzia.

L’agente conveniva in giudizio la preponente, affinché gli venissero riconosciute le provvigioni sulle forniture effettuate in esecuzione del contratto di somministrazione. Con sentenza n. 52/2012 il Tribunale di Grosseto accoglieva le richieste attoree, ritenendo che:

il contratto di somministrazione, è stato formalmente stipulato […] poco più di due mesi dopo lo scioglimento del contratto di agenzia […], termine che deve essere considerato, per la sua oggettiva brevità, assolutamente ragionevole.

Seppure il Tribunale avesse accertato il diritto dell’agente alle provvigioni, ha respinto la domanda attorea, volta ad ottenere la condanna del preponente al pagamento delle stesse

fino al termine del contratto di somministrazione […] in quanto si tratterebbe di una pronuncia di condanna “in futuro” correlata, per di più ad un termine che nel contratto di somministrazione non è stato individuato dalle parti, giacché lo stesso contratto risulta essere stato stipulato a tempo indeterminato.”

L’agente, qualche anno dopo l’emanazione della prima sentenza, ha promosso un ulteriore giudizio, con il quale ha domandato la condanna della preponente al pagamento delle provvigioni sulle forniture eseguite dopo l’accertamento peritale di cui al primo giudizio. L’agente ha fondato la propria richiesta, sul principio di cui all’art. 2909 c.c., in base al quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti. Il Tribunale ha condannato nuovamente la preponente, asserendo che

il diritto ad ottenere il pagamento delle provvigioni via via che matureranno in relazione all’esecuzione protratta nel tempo del contratto di somministrazione, è pacifico e già accertato nella sentenza irrevocabile emessa da questo Ufficio con conseguente applicazione dell’effetto revulsivo previsto dall’art. 2909 (sul punto tra le tante Cass. Sez. Lav. 2001 n. 4304).”

A seguito di tale pronuncia, al fine di evitare il pagamento delle provvigioni sugli affari futuri, la preponente ha provveduto a cedere di fatto l’affare  ad una società dello stesso gruppo, anch’essa attiva nel settore degli alimenti surgelati. L’agente è ricorso, quindi, nuovamente al Tribunale di Grosseto, sostenendo che la cessione del contratto di durata ex art. 1406 c.c., comportava l’obbligo del cessionario di provvedere al pagamento delle provvigioni. Il Tribunale di Grosseto[8], sposava nuovamente la tesi dell’attore, affermando che:

poiché la caratteristica della cessione del contratto ex art. 1406 c.c. è l’avere ad oggetto la trasmissione di un complesso unitario di situazioni giuridiche attive e passive che derivano da ciascuna delle parti del contratto […], la cessionaria sarà tenuta a corrispondere al ricorrente le provvigioni – nella stessa misura convenuta nel contratto di agenzia à sulle forniture di prodotti alimentari surgelati effettuate in favore della X srl.

* * *

Da ultimo, si tiene altresì a sottolineare, che la sottoscrizione di contratti di durata, possa essere utilizzato come elemento determinante per provare che sussistono le condizioni richieste dall’art. 1751 c.c., perché scaturisca il diritto dell’agente a percepire l’indennità di fine rapporto (cfr. Indennità di fine rapporto dell’agente. Come si calcola se non si applicano gli AEC?). Si legge in una interessante sentenza della Cassazione che:

L'indennità di cessazione del rapporto di agenzia compensa l'agente per l'incremento patrimoniale che la sua attività reca al preponente sviluppando l'avviamento dell'impresa. Ne consegue che tale condizione deve ritenersi sussistente, ed è quindi dovuta l'indennità, ove i contratti conclusi dall'agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell'avviamento e la protrazione dei vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia, sono in re ipsa”.[9]

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[1] Articolo riformato con D.Lgs. n. 65/1999, con il quale il legislatore ha recepito i principi della Direttiva europea n. 86/653 e, in particolare, di cui all’art. 8 che così dispone: “Per un'operazione commerciale conclusa dopo l'estinzione del contratto di agenzia, l'agente commerciale ha diritto alla provvigione; a) se l'operazione è dovuta soprattutto al risultato dell'attività da lui svolta durante il contratto di agenzia e se l'operazione è conclusa entro un termine ragionevole dopo l'estinzione del contratto, o b) se, conformemente alle condizioni di cui all'articolo 7, l'ordinazione effettuata dal terzo è stata ricevuta dal preponente o dall'agente commerciale prima dell'estinzione del contratto di agenzia.”

[2]Cfr. Tribunale di Rimini, 22.9.2004, n. 238 che ha escluso il diritto dell’agente alle provvigioni in caso di proroghe delle offerte di fornitura, stante l’assenza del preponderante intervento promozionale dell’ex agente. Sul punto cfr. VENEZIA, Il contratto di agenzia, pag. 281, 2015, CEDAM.

[3] La giurisprudenza ha considerato ragionevole anche un termine di sei mesi (Cass. Civ. 9.2.2006) e in taluni casi, tale termine si è esteso addirittura a due anni (cfr. Cass. Civ. 16.1.2013 in cui la Corte ha ritenuto ragionevole il termine biennale delle carte di fidelizzazione vendute grazie all’attività di promozione dell’agente, considerando quindi le vendite di carburante effettuate successivamente alla risoluzione del rapporto imputabili alla prestazione dell’agente.

[4] Art. 6, ult. comma AEC 2014 Industria: “L’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti e conclusi anche dopo lo scioglimento del contratto, se la conclusione è effetto soprattutto dell’attività da lui svolta ed essa avvenga entro un termine ragionevole dalla cessazione del rapporto. A tal fine, all’atto della cessazione del rapporto, l’agente o rappresentante relazionerà dettagliatamente la preponente sulle trattative commerciali intraprese, ma non concluse, a causa dell’intervenuto scioglimento del contratto di agenzia.

Qualora, nell’arco di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, alcune di tali trattative vadano a buon fine, l’agente avrà diritto alle relative provvigioni, come sopra regolato. Decorso tale termine, la conclusione di ogni eventuale ordine, inserito o meno nella relazione dell’agente, non potrà più essere considerata conseguenza dell’attività da lui svolta e non sarà quindi riconosciuta alcuna provvigione. Sono fatti comunque salvi gli accordi fra le parti, che prevedano un termine temporale diverso o la ripartizione della provvigione fra gli agenti succedutisi nella zona ed intervenuti per la promozione e conclusione dell’affare.”

[5] L’art. 1748 comma 3 c.c., sulle provvigioni spettanti per affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto è interamente derogabile: a favore Saracini-Toffoletto, Il contratto di agenzia. Commentario, 2014, GIUFFRÈ e Bortolotti, opera cit., pag. 276; contrario, Trioni, che ritiene che tale norma non è inderogabile, posto che il terzo comma dell’art. 1748 c.c., diversamente dal secondo e quarto, non prevede espressamente la salvezza dei patti contrari.

[6] Cfr. sul punto BORTOLOTTI, Concessione di Vendita, Franchising e altri contratti di distribuzione, pag. 8, 2007, CEDAM.

[7] Per maggiori approfondimenti cfr. Giulia Cecconi, Le provvigioni sui contratti di durata, in Agenti e rappresentanti di commercio, 1/2019, AGE EDITRICE.

[8] Tribunale di Grosseto, sentenza n. 269 del 2018.

[9] Cass. Civ. sez. lav. n. 24776 del 2013.